Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers
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Autore: alessiasc    08/07/2011    0 recensioni
questa fan fiction parla di una storia speciale. Una star della musica e una ragazza malinconica del suo paese natale. Passione, emozione, casini, disastri, lacrime, e musica.
Genere: Erotico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nick Jonas, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Il silenzio è la cosa migliore che ci sia al mondo.
E' forte, sicuro, rilassante.
E' tensione, paura, allegria.
E quello che c'è dopo è sempre inaspettato e sorprendente.
Potrebbe essere qualsiasi cosa, a rompere il silenzio.
Spesso si spera sia il suono di una chitarra,
ma può essere anche qualcosa di terribile.
Un urlo. Uno sparo.
Non c'è niente di meglio del silenzio, e del suono che produce.
Perché potrebbe essere che dopo quel lungo silenzio,
magari nato dal forte dolore,
ci sia qualcosa di meraviglioso che non ti saresti mai sognato di vivere.
Qualcosa di magico, di reale.
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Il cielo era coperto da nuvole nere che promettevano pioggia, e Milano sembrava spenta. Uscita da scuola, quel primo Novembre, ero subito andata a casa, mi ero velocemente cambiata ed ero andata al lavoro. Lavoravo da Arnold's Cafè, una copia italiana di Starbucks, in una via isolata del centro, vicino ad un'università. Un posto carino, completamente fuori dal traffico della città e poco frequentato. Aveva aperto da pochi mesi e io l'avevo trovato immediatamente e altrettanto velocemente avevo fatto domanda per un posto da cameriera. Essendo poco frequentato, mi avevano dato l'okay anche se potevo lavorare solo dalle 14 alle 17 e, nei giorni di apertura serale, anche la sera. Entrai nel locale e trovai Elisa che cercava di fare un cappuccino con doppia panna montata senza far colare tutto quanto sul bancone. Alzò lo sguardo e mi salutò con un cenno della testa; ricambiai il saluto e mi infilai il grembiule, per poi dare il cambio alla donna grassa e silenziosa che si spostò dalla cassa, si sfilò il grembiule rosso scuro e, a passo lento, salutando tutti con un «ciao» non troppo urlato, uscì dalla porta a vetri. Elisa mi passò affianco con il suo vassoio per servire i tavoli e mi sussurrò nell'orecchio: «Meno due» e prima che potessi dire qualsiasi cosa sparì tra i tavoli. Meno due, erano i giorni che mancavano al concerto dei Jonas Brothers, la band che più adorava. A me, personalmente, non facevano impazzire. Erano la tipica band uscita da Disney Channel che faceva soldi a palate cantando due o tre canzoni sicuramente scritte da altri. Questo, ad Elisa, non lo dicevo mai. L'unica volta che avevo provato a dire qualcosa contro di loro o contro la loro musica commerciale, aveva cominciato ad urlarmi contro, quindi ci avevo rinunciato. Più che altro, mi piaceva vederla così felice, allora fingevo di essere felice anche io per l'arrivo di queste tre superstar di Hollywood. Io non avevo mai avuto una band preferita, o meglio, ce l'avevo, la band di cui avevo tutti i cd e che ascoltavo in continuazione, ma non era un'ossessione, non avrei preso nessun aereo per vedere un concerto e non avrei passato ore davanti ad un hotel per vederli passare circondati da bodyguards. Erano i Sum41, e mi piacevano da qualche anno. Ma niente di che, quindi non potevo capire tutto l'amore che Elisa provava per quei.. Brothers. «Judie, riesci a crederci, due giorni!» disse la mia migliore amica, tornando indietro con il vassoio sporco di panna. Risi e consegnai il resto alla cliente davanti a me. Aveva una collana enorme con un gufo color verde marcio. Orribile. «Cos'hai, Eli, tredici anni?» dissi passandole il biglietto con l'ordinazione e cominciato a fare un Arnold Shake al caramello. «No, diciassette, ma ho comunque lo spirito della bambina contenta e felice in questi giorni. Cioè, Jey, due giorni! Solo due! Domani vieni a fare shopping con me? Devo vedere se alla Mondadori vendono le nuove magliette, perché quelle che ho mi stanno troppo piccole» scossi la testa, un po' dispiaceva. Mi piaceva andare in giro con lei. Guardava e toccava tutto quello che le si trovava vicino. «Mio padre vuole che domani, verso mezzogiorno, io sia al Melia, perché dice che il bar ha bisogno di me. La barista si è ammalata e domani tutte le stanze saranno prenotate e avranno qualche casino. Che palle, El, i casini li avrò io qui con il capo, se gli chiedo un altro giorno di vacanza. Io penso che mio padre dovrebbe cominciare a crescere e prendersi le sue responsabilità!» mio padre lavorava, appunto, al Melia, uno dei più importanti hotel di Milano, e tutte le volte che serviva qualcosa lì, io dovevo abbandonare tutto – scuola, amici, lavoro – per aiutarlo. «Io penso che tuo padre dovrebbe semplicemente smetterla di sottrarti a me tutte le volte che ho bisogno di te! Quella storia di andare a trovare la nonna nel Mississipi quando dovevamo andare a fare quel bellissimo week-end a Parigi? Questo è sfruttamento minorile!» la guardai storto mentre alzava la mano serrata in un pugno al cielo, in segno di protesta. «Che c'entrano il Mississipi e mia nonna con lo sfruttamento minorile?» «No, cioè, dicevo... l'hotel, è una rottura, e pure il Mississipi.» sbuffò, versando il latte nel bicchiere e lo mise sul vassoio pulito. «Più l'hotel del Mississipi. Almeno lì ero vicina a casa..» ero nata in Texas, ad Houston, e in seguito mi ero trasferita ad Oklahoma City e a 10 anni mi ero trasferita a Milano, per stare vicina a mia nonna che stava morendo. Mia madre aveva insistito così tanto per trasferirci che alla fine eravamo rimasti a Milano per stare vicino a mio nonno, rimasto solo. «Ma in Texas ci sei andata? No, quindi è stata una scocciatura e basta» rise, e mi diede una pacca sulla spalla. Sapeva che mi mancava il Texas più di qualsiasi altra cosa. Più di Oklahoma, perché lì ci avevo passato solo un anno, e avevo fatto solo la quinta elementare, ma in Texas ci ero nata e cresciuta, e ci avevo passato anche alcune estati, nella vecchia casa di famiglia che non avevamo venduto per i capricci miei e di mio fratello. Da quando stavamo in Oklahoma, progettavo di scappare di casa e rifugiarmi a Houston insieme a mio fratello più grande. Il nostro progetto di vita, era finire la scuola a Milano, e poi trasferirci insieme a casa. «E' quella casa nostra, Judie, e vivremo lì con le nostre famiglie e i nostri figli» mi diceva quando aveva dodici anni e io dieci, in viaggio verso l'Italia. Ora io ne avevo quasi diciassette e lui diciannove appena compiuti, e vivevamo entrambi a Milano, lui i un appartamento in centro, rigorosamente pagato da papà, con la sua ragazza, io a casa dei miei genitori, sempre in centro. Insomma, eravamo la tipica famiglia americana con qualche soldo in più degli altri, anche se non sembrava affatto. Eravamo molto modesti e le poche cose che potevano dimostrare la quantità di denaro che possedevamo erano casa e viaggi, che non mancavano quasi mai. «El, guarderò per te se al Melia ci sono i tuoi amici Disney, se scopro qualcosa ti chiamo» dissi, passandole affianco con un altro vassoio pieno e pronto da portare al tavolo. «Sei un angelo, Jey» disse mandandomi un bacio con la mano. Aveva anche evitato di urlarmi addosso per averli chiamati “Disney”. Era davvero felice allora. Le sorrisi. Tornai al bancone e preparai un cappuccino. La porta a vetri si aprì ed entrò Marco. «Meglio tardi che mai» gli dissi, guardandolo storto. Lui fece il giro e colpì con un calcio la porticina che chiudeva il bancone. Aveva il fiatone e buttò lo zaino nello stanzino per lo staff. «Se lo dici al capo ti strappo tutti i capelli» disse, si legò il grembiule dietro la schiena e mi baciò la guancia. «Tutto bene?» «Tutto okay, anche se quando vedrai Elisa non ti sembrerà più che io stia così bene. Sembra una bambina a cui hanno appena comprato il suo giocattolo preferito!» risi e andai a servire gli altri tavoli. Sentii la voce calda di Marco che diceva: «Al cioccolato o al caramello?» Marco era un ragazzo alto e magrissimo, con gli occhi verdi e i capelli a spazzola neri. Era bellissimo. Lo conoscevo da qualche anno perché avevamo sempre lavorato insieme. Facevamo quei lavori stupidi e inutili, come distribuire volantini o invitare gente ad entrare nei ristoranti. Elisa ne era segretamente innamorata da sempre, e io ero l'unica persona a conoscenza del suo piccolo grande segreto. «Eli, è arrivato Marco, dagli il cambio alla cassa e fai venire a servire lui. Stai sudando come non so cosa..» dissi quando mi passò di fianco. Mi fece una linguaccia. E un'altra giornata al lavoro stava passando. Quella sera tornai a casa, come sempre, affiancata da Marco e Elisa, che discutevano ridendo. «I Jonas Brothers sono una buona band, smettila di stressarmi!» «Els, sono pessimi, quello lì, Nick, il più piccolo, non penso nemmeno che sappia davvero tenere in mano una chitarra!» ribatté lui ridendo. «Ah perché tu sei bravissimo, no?» dissi io, spingendolo leggermente. «Io sono il re della chitarra, signorina Hayes» io ed Elisa scoppiammo a ridere. «Che avete da ridere?» «Ma SMETTILA!» urlammo all'unisono. E di nuovo a ridere. Appena arrivata a casa ero così stanca che non ripassai nemmeno Letteratura per il giorno dopo, anche se quasi sicuramente non sarei andata a lezione per l'hotel, mi buttai sul letto ancora vestita e truccata e mi addormentai.
   
 
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