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Autore: alessiasc    05/09/2011    0 recensioni
questa fan fiction parla di una storia speciale. Una star della musica e una ragazza malinconica del suo paese natale. Passione, emozione, casini, disastri, lacrime, e musica.
Genere: Erotico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nick Jonas, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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«DOVE DIAVOLO SEI, JUDE!?» la voce di mio padre mi perforò un timpano. Allontanai il cellulare dall'orecchio. Erano le sette del mattino. Cosa voleva mio padre alle sette del mattino un giorno in cui mi aveva permesso di saltare scuola per lavorare da lui?
«Forse, Judith, vorrei che tu venissi a lavorare da me!» disse. Forse la domanda che mi ero fatta nella testa l'avevo fatta anche a lui ad alta voce.
«Okay, scusa daddy. Dammi mezz'ora e sono lì.» dissi e chiusi il telefono. Mi alzai di peso e mi stropicciai gli occhi, macchiandomi tutte le mani di matita nera. Sbuffai, corsi in bagno e mi lavai accuratamente ma velocemente, mi sfilai la maglia sporca e il reggiseno, per infilarmene uno pulito seguito da una camicia bianca. Mi riempii di deodorante alla menta, mi sfilai pantaloni e slip, e me ne infilai di puliti. Jeans scuri, stretti e a sigaretta. Mi legai i capelli in una coda di capelli e fermai i ciuffi ribelli con delle forcine nere. Presi la matita e me la passai sotto gli occhi, dell'ombretto beige sulle palpebre e del mascara sulle ciglia.
Mi infilai delle scarpe da ginnastica bianche e il mio cappotto di pelle beige. Presi la borsetta nera, ci infilai cellulare, trucchi, portafoglio, i-pod e chiavi di casa e uscii, salutando mia mamma con un urlo simile a «ci vediamo dopo!» ma che sarebbe potuto sembrare qualsiasi cosa. In ascensore, mentre scendevo dall'ottavo piano al piano terra, mi sistemai le ciocche di capelli ancora fuori posto.
Un quarto d'ora dopo circa, ero nella hall del Melia e mio padre mi stava venendo incontro di corsa, con l'aria preoccupata. «Hai fatto veloce, Judie, allora, non è solo il bar che ha bisogno in realtà. Anzi, il bar è a posto. Giovanni si è offerto di lavorare lì e poi di spostarsi sul retro stasera. Qui dentro sono tutti degli incapaci. Ascolta, ce ne sarà per molto. Ma puoi cominciare con quella coppia di inglesi mentre io parlo con quei francesi laggiù. Devi solo cercare il loro nome nell'elenco sul PC e spiegargli le solite cose, il numero della loro camera, fargli vedere le stanze dell'hotel ed esporgli gli orari dei pasti. Oh, bimba mia, grazie, ti adoro!» mi baciò sulla guancia e sparì veloce come era arrivato. Sbuffai, mi diressi verso il bancone e lasciai borsa e giacca. Mi tirai su le maniche della camicia e presi i fogli che mi passò la segretaria. «Sono tutte le informazioni su quella coppia, ho pensato che averle con te sarebbe stato più facile che leggere tutto dal computer» mi sorrise.
«Oh, Angelica, che tu sia benedetta. Grazie!» le dissi rivolgendole un enorme sorriso. Poi mi diressi verso gli inglesi.
«Buongiorno, voi siete i signori Louis, right?» chiesi – in inglese – alla signora sui cinquanta che mi stava davanti.
E così cominciò la prima di 54 conversazioni in lingua madre.
Quando arrivò sera, mi sedetti a terra, vicino ad Angelica, la segretaria, e bevvi un sorso d'acqua dalla bottiglietta che avevo comprato dal bar. «Non ce la posso fare. Quanti altri ospiti devono arrivare?» chiesi. Lei alzò le spalle, si aggiustò gli occhiali sul naso e guardò sul computer.
«Nessuno, puoi andare al bar dietro e bere qualcosa. Giovanni ti coprirà volentieri e io anche. Tuo padre non lo saprà mai. Vai, su!» mi ordinò, dandomi un leggero calcio sul ginocchio. Mi alzai in piedi e, con un lieve sorriso sulle labbra andai verso al bar sul retro, che vendeva alcolici. Era aperto solo la sera ed era per gli ospiti dell'hotel. Mi sedetti al bancone. «Giò, a beer, please!» urlai, sorridendo. Giovanni, un omone ordinato con il sorriso sempre stampato in volto, si girò e mi sorrise. «Subito, madame!»
«Gio io stavo parlando inglese!» risi mentre lui mi passava la birra già stappata.
«Lo so, signorina Hayes, ma io l'inglese non lo so» presi la bottiglia tra le dita e la passai da una mano all'altra. L'alzai e la portai alla bocca, ma mi fermai a metà percorso. «Non dirai niente a mio padre, vero?» «Nothing, signorina.» mi sorrise.
«Allora lo vedi che qualcosa di inglese la sai anche tu» dissi e bevvi un bel sorso di birra fresca.
Guardai la gente al bancone. Erano tutti ordinati, con la camicia chiusa fino all'ultimo bottone e la cravatta che stringeva il collo. Tutti tranne uno. Che mi sembrava così famigliare. Mi ritrovai ad osservarlo.
Aveva la camicia aperta agli ultimi due bottoni, dal collo bianco come il latte pendeva una catenina con attaccata una targhetta. Teneva tra le dita una bottiglia di birra, della stessa marca della mia, e ne faceva un sorso ogni tanto. Teneva le spalle leggermente ricurve e lo sguardo perso davanti a se. Ogni tanto portava la mano destra in testa, facendo passare le dita tra i ricci castani. Dove diavolo l'avevo già visto? Non era un viso così comune. Sicuramente non era italiano. Aveva qualcosa di inglese, ma il contorno del volto era certamente americano. Anche il modo di muoversi.
Mi arrivò un messaggio, così staccai gli occhi dal riccio affianco a me e tirai fuori il cellulare. Aprii il messaggio.
“Allora, sono lì?” era Elisa. E allora mi ricordai. Quel tipo era uno dei Jonas Brothers, forse il più piccolo, Nick Jonas o come si chiamava. Misi il cellulare nella tasca e mi avvicinai di due posti.
«Scusa ma tu sei..» cominciai, nel mio inglese perfetto. Lui si girò di scatto verso di me. «Nick Jonas?» chiesi.
Lui sbuffò ed annuì. «Sì, vuoi un autografo, una foto o un mio capello?» disse. Sembrava alquanto scocciato. «Mhm, in realtà, niente di tutto ciò. Volevo solo sapere se eri chi pensavo che fossi. Ma a quanto pare, non sei quello che la gente pensa che tu sia» dissi, e mi allontanai di un posto. Questa volta ad avvicinarsi fu lui. Ero davvero scocciata. Ma chi credeva di essere? Anche io avrei saputo cantare canzoncine della Disney!
«Okay, scusa, non avrei dovuto risponderti così, è che, è stata una giornata davvero stressante e...» lo guardai. Sembrava davvero stanco.
«Ah, sì? Hai dovuto imparare a memoria non una ma ben due canzoni scritte da altri e non da te? Che lavoraccio, già. Sai, anche io lavoro da stamattina, e nessuno mi ha scritto un copione per lavorare, eppure è dalle sette del mattino che parlo con stranieri cercando di spiccicare qualche parola in francese, però io ho mantenuto la mia educazione, vedi?» bevvi in un sorso la birra che rimaneva nella bottiglia. Non vedevo l'ora di arrivare a casa e chiamare Elisa per dirle quanto fosse maleducato uno di quei tre cretini di quella band del cazzo che amava così tanto.
«Senti, scusa, davvero, non volevo essere scortese, è solo che... hey! Guarda che le canzoni che canto le scrivo io! E comunque, è dalle cinque del mattino che giro per Milano per interviste, shopping, prove di smoking, prove della macchina, cambio macchina, radio, e casini vari. E con il fuso orario non ci sto più con la testa. Possiamo fare finta che io non abbia detto niente?» fece una pausa, io rimasi in silenzio e guardai davanti a me. Aveva una bella voce, e da vicino era ancora più carino che da lontano.
Vidi la sua mano sporgersi verso di me. «Piacere, io sono Nicholas, ma mi chiamano Nick» lo guardai. Sembrava davvero imbarazzato e dispiaciuto. Così gli strinsi la mano. «Judith, ma non chiamarmi Judith, mai. Jude, Jey, come ti pare insomma» dissi. Mi sorrise.
«Quanti anni hai?»
«Diciassette a dicembre, tu?» alzò un sopracciglio.
«Davvero non sai quanti anni ho?» scossi la testa.
«Scusa, non sono io la grande fan. La mia migliore amica, oh, dovresti parlare con lei di cose come la tua età, il tuo luogo di nascita, il colore del tuo spazzolino da denti o robe del genere. A me interessa più tuo fratello.. mhm, Kevin, quello più grande, si chiama così vero?» rise.
«Il mio spazzolino da denti?»
«Sì, è.. giallo, giusto? Così mi ha detto Elisa..» rise più forte e si portò la bottiglia alle labbra. Erano sottili.
«Giallo, già. Dille che quando lo cambierò lo prenderò verde. E sì, mio fratello più grande si chiama Kevin e si sposerà a dicembre, mi dispiace» sospirai, fingendomi distrutta.
«Come farò ora? L'unica cosa che mi rimane da fare e buttarmi sull'alcool» dissi, sporgendomi e prendendo un'altra birra. La stappai e mi sedetti di nuovo. E lui rise di nuovo.
L'avevo giudicato forse un po' troppo velocemente. Forse poteva essere anche simpatico, un po'. Comunque piacevole. Poco.
«Giustamente. Comunque ho diciassette anni» annuii.
«Tu a diciassette anni giri il mondo e io sono bloccata qui. Bello» sbuffai e bevvi. Lui bevve. E appoggiammo la bottiglia sul bancone nello stesso momento.
«Hai un buon inglese, come mai?»
«Nata a Houston, trasferita ad Oklahoma, nonna nel Mississipi.» lui mi guardò per un secondo, poi annuì.
«Wow, figo.» tirò fuori il cellulare dalla tasca, che vibrava, e rispose. Aveva un modo di parlare strano, tutto rilassato e biascicava le parole. Parlava così veloce che quasi faticavo a capire quello che diceva. Poi disse «ya bro!» e riattaccò. Si alzò in piedi, bevve l'ultimo sorso di birra e lasciò trenta euro sul bancone.
«Beh, è stato un piacere conoscerti Jude-Jey. Ci si vede in giro!» disse, e si allontanò. Scossi la testa e tornai a bere la mia birra.
«Ti pago da bere e non mi chiedi neanche il numero?» la sua voce mi rimbombò nella testa. Mi girai di scatto. Mi aveva fatto perdere almeno cinque anni di vita. Quando mi resi conto di quello che mi aveva chiesto, arrossii.
«Io... emh, cioè, io... non credevo di... potere, ecco... cioè» «Cioè, di solito i ragazzini che cantano canzoni scritte da altri non ti chiedono il numero? Beh, anche se io canto canzoni mie, te lo chiedo» sospirai e gli dettai il numero. Lui mi fece uno squillo e mi fece l'occhiolino, «Buonanotte» disse, prima di allontanarsi.
   
 
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