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Autore: Jolene    17/03/2006    0 recensioni
Questa è destinata a diventare una ff piuttosto ingarbugliata... è nata da un pomeriggio di nullafacenza stravaccata sul divano (avrei dovuto studiare fisica...^__^) spero che vi piaccia, commentate...
Genere: Azione, Thriller, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Contenuti forti
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Riassunto capitolo precedente: La rossa uccide un uomo e s’impossessa di una valigetta che contiene importanti documenti che riguardano Sophie, l’interprete. Quindi và da Sophie e la minaccia. Cosa contengono quei documenti? Che rapporto lega Sophie alla rossa? Ma soprattutto chi è la rossa?

 

 

 

Dal diario di Baby Beatrix (B. B. Kiddo)

 

Avevo quindici anni ed ero costretta ogni mattina ad andare a scuola.

Non mi piaceva affatto, dover rimanere lì ferma su una sedia per nove ore al giorno.

Mi si addormentavano le gambe, e per ammazzare il tempo prendevo a calci il sedere di Andrei Novak che era seduto di fronte a me. 

I professori a malapena mi consideravano.

Erano in molti a pensare che fossi arrogante e strafottente, ma nessuno me lo aveva mai detto.

Mi davano sui nervi le persone che mi chiamavano Baby, che in realtà era il mio nome ma mi faceva vomitare.

 Non avevo mai preso a pugni nessuno, ma una volta avevo minacciato una ragazza del terzo anno nel bagno del primo piano con un coltello di plastica. Il giorno dopo avevo trovato un paio di ragazzi grandi e grossi ad aspettarmi al portone d’ingresso ed ero tornata a casa con un bel po’ di lividi dappertutto.

Mi piaceva da morire mettermi nei guai.

 Fare incazzare la gente era il mio passatempo preferito.

A volte durante le lezioni stuzzicavo la mia compagna di banco per farmi sbattere fuori.

Stare in giro per i corridoi era molto più piacevole che rimanere in classe.

Lì avevo conosciuto un ragazzetto nero magro come un filo che aveva una lingua che non finiva mai.

Però a differenza di tutta la merda che girava alla High street school, era proprio a posto.

 Si chiamava Jackson ed aveva un anno più di me anche se non lo dimostrava.

Ci divertivamo a bazzicare per i bagni delle ragazze e ad otturare i cessi.

Eravamo la piaga del custode, che una volta c’inseguì giù per le scale con in mano lo scopettone: avevamo svuotato il cestino della spazzatura sul banco di Jemima Wellson solo perché il suo nome non ci piaceva.

Un giorno entrammo alla prima ora e poi, con la scusa di andare in bagno ci andammo a fare un panino al Birger King per ritornare l’ora dopo. Il vice preside ci mise una sospensione per cinque giorni e pregò mia madre di andare a scuola.

Allora non avevo il minimo senso della responsabilità.

Mamma si chiedeva sempre dove fosse finita la piccola Baby, l’esserino piccolo e tiepido che le correva incontro quando rientrava a casa.

Ma la piccola Baby non esisteva più. Al suo posto c’era una Baby scomoda con i capelli rossicci e senza rispetto per niente e nessuno.

Jackson era il mio unico amico perché ci sopportavamo a vicenda. Dopo tre anni di lunga amicizia lui divenne il mio ragazzo.

C’erano parecchie bastarde che gli facevano il filo, ma non appena sentivano che stava insieme a me mollavano.

La mia fama era diffusa in tutta la scuola. Ne ero felice perché mi teneva lontana dalla feccia.

Jackson era l’unico e solo ragazzo della mia vita. Io non conoscevo il tradimento, non conoscevo l’odio, il sesso e nemmeno la gelosia.

Quello che mi animava nelle mie rappresaglie di ragazza non era l’odio ma il fastidio della mia diversità.

Io e Jackson che eravamo considerati due canaglie eravamo forse gli unici cuori puliti lì dentro.

Quando compii quindici anni per la prima volta iniziai a considerare il mio corpo come quello di una donna.

Feci un paio di nuovi acquisti tra cui perfino una gonna di pelle per cui Jackson impazziva. Non ero alta come mia madre, ma avevo i suoi stessi piedi sproporzionati ed i suoi occhi distanti.

Tuttavia presto rinunciai a tutte queste cose.

Un pomeriggio, di ritorno dal rientro pomeridiano, mi fermai alla bancarella di braccialetti di Victoria Millows.  Pioveva a dirotto.

Avevo appena preso tra le mani un modello bellissimo, ma veniva cinque dollari, e non avevo con me che cinquanta miseri centesimi. Avevo speso già tutto alla fiera di Wellington e mia madre si era rifiutata di darmi altri soldi.

Allora una donna bruna con le lentiggini sulle guance mi si avvicinò. 

“Gran bel braccialetto”
disse con uno spiccato accento texano. Poi mi guardò e mi rivolse un sorriso affabile.

“Scommetto che ti starebbe molto bene addosso”
Io la guardai speranzosa

“Crede?”

“Certo, tesoro. Perché non lo provi?”
Io me lo misi subito attorno al polso e poi tesi il braccio verso di lei.

“Davvero bello! Sarei tentata.. quasi quasi lo compri anch’io.

Ma tu prendilo intanto, sono sincera, ti dona molto”

“Quanto viene, signora?”
La signora Millows le lanciò un’occhiata truce. La odiava visibilmente. 

In realtà non aveva mai amato neanche me, quindi non mi meravigliai.

“Cinque dollari, non sa leggere?”

“Veramente” feci titubante “ Non ho abbastanza soldi..”

La donna parlò subito senza alcuna esitazione:

“Allora lascia che ti dia i soldi! È davvero un peccato, quel braccialetto sembra fatto apposta per te”

Mi sentii al settimo cielo. Non mi sembrava possibile che fossi riuscita a convincere qualcuno con tale facilità.

“Grazie!”

“Comunque puoi chiamarmi Selma”

“Piacere, Baby”

Ci stringemmo la mano.

La donna diede i cinque dollari a Victoria fissandola con sprezzo e uscimmo insieme dal negozio.

La pioggia scendeva a catinelle.

Selma aprì il suo ombrello colorato e si strinse l’impermeabile in vita.

“Hai intenzione di tornare a casa senza l’ombrello??”

“Oh, non preoccuparti, non fa nulla. Mi sono già bagnata abbastanza”
” No, dai, insisto perché ti accompagni io. In fondo non credo abiti lontano da qui”

A quel punto l’avrei volentieri invitata a levarsi dai piedi.

Iniziava ad essere irritante, ed io a provare la comune sensazione di fastidio.

Sentivo che stavo per compiere un atto liberatorio, ma d’altra parte non avevo voglia di trattare male una persona che mi aveva fatto un favore.

“ No grazie, sono capace di tornare a casa da sola”

“Forse non hai capito”
Disse allora guardandomi negli occhi mentre mi prendeva per il braccio con delicatezza.

“Ti stò chiedendo di essere gentile con me come io lo sono stata con te”
Mi divincolai furiosa e le piantai il ginocchio nello stomaco con forza.

Lei si accartocciò per terra tenendosi lo stomaco.

Io fuggii a gambe levate, e non perché avessi paura di quella donna magra, piuttosto che qualcuno mi avesse vista.

Ma mentre svoltavo l’angolo mi accorsi che due figure alte in impermeabile mi stavano inseguendo.

Non capii da dove erano sbucate fuori.

Erano molto veloci. In un attimo mi raggiunsero.

Uno di loro mi mise una benda sulla bocca, l’altro mi prese per il petto.

Scalciai e provai persino a mordere, ma la persona che mi teneva ferma era molto più forte di me.

Mi caricò dentro una macchina scura che era appena apparsa con una sgommata degna di un rally.

Allora la mia vista iniziò a vacillare.

Persi la conoscenza sul sedile di un’auto.

  
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