Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: Melanto    11/07/2011    6 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Documento senza titolo

Il lungo sonno della Lucciola
- Part X: Running into your world -

 

Il suo risveglio fu segnato dall’incontro inaspettato con il pavimento: era caduto dal divano.
Aveva passato la nottata a guardare le partite e la stanchezza l’aveva colto senza dargli scampo.
«Ahia» mugugnò faccia a terra, ma come tentò di muoversi il dolore si diramò in tutto il corpo. «Oh-oh.» Ogni singolo muscolo sembrò essere entrato in sciopero e si ostinava a non rispondere ai suoi comandi. «Oh. Oh.» ripeté, con maggiore convinzione.
Ecco quello che succedeva a fare il giovincello quando si era a un passo dal mezzo secolo: corpo bloccato e muscoli kaputt.
«Ma bene. E adesso?!» Baiko alzò la testa alla ricerca di un appiglio e di un modo per rimettersi in piedi, ma sembrava molto più facile dirlo che farlo. L’oggetto più vicino, che poteva offrirgli un minimo di solidità, era il divano. Sospirò. «Vediamo di recuperare un briciolo di dignità.»
Alzarsi fu un concerto di ‘ahi’ vergognosi che lo accompagnarono durante il suo lento trascinarsi verso il bagno per farsi una doccia. Si era addormentato vestito e sentì proprio la necessità del massaggio rilassante dell’acqua sui muscoli. Dopo un po’ gli sembrò addirittura che riuscisse ad attenuare il dolore.
«Dio mio, mi sento un relitto» bofonchiò mentre, stretto nell’accappatoio e con un asciugamano appoggiato sulla testa, raggiungeva la camera da letto. «E tu, figliolo, ti sei mai sentito come se ti avessero camminato addosso in centomila? Scommetto di no, sei atletico tu, mica come quel rammollito del tuo vecchio.»
Aprì l’armadio, mentre frizionava i capelli, e solo in quel momento, nel ritrovarsi davanti l’ordinata sequenza di completi giacca/pantalone, si ricordò della necessità di andare a fare shopping.
«Mh», un sopracciglio saettò verso l’alto, «Ho trovato un modo per trascorrere la mattinata.»

 

“I still don't know what I was waiting for /
Non so ancora cosa stessi aspettando
and my time was running wild /

e il mio tempo stava scorrendo selvaggio.
A million dead-end streets /
Un milione di vicoli ciechi.
Every time I thought I'd got it made /
Ogni volta che pensavo di avercela fatta
it seemed the taste /

sembrava che il sapore
was not so sweet /

non fosse così dolce.

 

Per un tipo come lui, che negli anni era divenuto metodico e abitudinario, tanto da comprare gli abiti in un solo negozio di sartoria, dover andare a fare shopping si presentava come una tragedia greca.
Soprattutto capire quale fosse la moda del momento, visto che lui era sempre andato sul sicuro – con giacca e cravatta non si sbagliava mai! –. L’ultima volta che aveva avuto una vaga idea di come si vestisse la gente era stato negli anni ’80 e – almeno quello l’aveva capito – adesso la moda era cambiata in maniera radicale.
Trovarsi da solo, quindi, in quel grande magazzino, senza sapere da dove iniziare gli apparve… frustrante. Troppo tempo passato a essere un Mr. President, come diceva Nakamoto, e aveva perso in toto il contatto con la realtà comune.
Baiko lo capì mentre restava impalato al centro del negozio a guardarsi intorno nel suo completo scuro talmente elegante da attirarsi l’occhiata di metà dei presenti.
«Mi… mi scusi.» Finalmente, miracolosa, la vocina gentile di una commessa sembrò piovere dal cielo. «Posso aiutarla?»
Il sorriso che Baiko le rivolse la fece arrossire fino alla punta delle orecchie.
«Sì. Vorrei rifarmi il guardaroba, ma…», si volse a destra e poi a sinistra, «non so da che parte iniziare.»
La giovane parve titubare, scrutandolo con attenzione. Aggrottò le sopracciglia.
«Ecco, io… non vorrei sembrarle scortese, ma… è sicuro di essere nel posto giusto?»
«Beh…» oddio! Aveva sbagliato negozio?! Baiko cercò di non andare nel panico. «…qui vendete abbigliamento maschile e-»
«Sì, sì! Non intendevo questo. Ecco io… volevo dire…» la giovane indicò gli abiti che stava indossando «…quello è un Hasakura?» che tradotto stava per: ‘quell’abito costa quanto il mio stipendio! Qui non abbiamo niente che possa avvicinarsi a quella cifra!’.
Baiko si grattò il sopracciglio. «Sì. Sì, lo è. In effetti il mio armadio non offriva altro…»
La commessa apparve ancora più sconvolta. Lui cercò di sorridere.
«E’ per questo che voglio rinnovare il guardaroba. Sa, ho un figlio di diciannove anni e vorrei non pensasse di avere un vecchietto come padre.»
Stavolta, la giovane non trattenne una risatina divertita che però si premurò di nascondere nella mano.
«Credo di aver capito» disse, rivolgendogli un sorriso comprensivo e facendosi da parte. «Prego, mi segua. Ci penserò io.»
E in effetti ci pensò veramente lei. A tutto. Lo rimise a nuovo, svecchiando il suo abbigliamento troppo sobrio. Il completo di sartoria venne eclissato in una delle buste degli acquisti e al suo posto indossò polo e jeans.
Baiko si ricordò che l’ultima volta che ne aveva indossato un paio erano stati ancora a zampa di elefante, il che la diceva parecchio lunga.
«Ma davvero non si portano più?» aveva domandato con tanto d’occhi.
«Beh, di certo non come quelli originali, ma qualche modello sporadico ancora resiste.»
Lui aveva inarcato un sopracciglio. «Diavolo, come passa il tempo.»
Lei aveva riso. Di sicuro doveva esser convinta che fosse uno sprovveduto, vissuto nascosto sotto una campana di vetro per interi decenni. E non avrebbe sbagliato, se ne rendeva conto anche da solo.
Baiko si fermò sulla soglia del grande magazzino, le mani che reggevano almeno quattro buste enormi. La giovane commessa lo aveva accompagnato all’uscita.
«La ringrazio per il suo aiuto e la sua cortesia. Penso di aver cominciato a capire come destreggiarmi in questi… tempi moderni.»
Lei fece un inchino, sorridendo. «Dovere, è il mio lavoro. Vedrà che ora nessuno potrà dire che sembra un vecchietto», poi si sporse: «In verità non lo sembrava nemmeno prima.»
Fu lui a ridere, questa volta. «Suona come un complimento.»
«Lo è. Suo figlio è molto fortunato ad avere un padre come lei. Non tutti sarebbero disposti a cambiare per far piacere ai propri figli.»
Ma Baiko scosse il capo. «Il fortunato sono io» disse, accennando un inchino e lasciando il negozio.
«Torni a trovarci!»
Certo che ci sarebbe tornato! E poi la giovane era stata gentilissima a consigliargli un buon negozio sportivo, che lui non sapeva nemmeno dove andare.
Lo raggiunse a piedi. No, niente auto. Doveva imparare a orientarsi in quella città. Ci viveva da anni ma non la conosceva affatto mentre Yuzo, probabilmente, avrebbe saputo elencargli tutte le strade in ordine alfabetico. Ci mise un po’, ma finalmente riuscì a raggiungere il mega store della Nike. Entrò e il fresco dell’aria condizionata gli diede un piacevole senso di refrigerio.
Il suo sguardo vagò alla ricerca delle scarpe: occupavano l’enorme parete di fondo. A passo lento le raggiunse.
Ce n’erano così tante, modelli, colori, ma a lui ne serviva solo un paio.
«Salve!» esclamò sorridente un giovane commesso comparso dal nulla. «Cerca qualcosa in particolare?»
Lui si portò una mano al mento.
«Sì, in effetti devo affrontare una strada molto tortuosa, piena di salite e discese. A volte penso che mi toccherà correre e in definitiva avrò molto da camminare, quindi» lo guardò con un sorriso divertito «saprebbe consigliarmi delle buone scarpe

 

“Ch-ch-ch-ch-Changes /
C-c-c-c-cambiamenti
(Turn and face the stranger) /

(Voltati e affronta lo straniero)
Ch-ch-Changes /

C-c-cambiamenti
Don't want to be a richer man /

Non voglio essere un uomo ricco
Ch-ch-ch-ch-Changes /

C-c-c-c-cambiamenti
(Turn and face the stranger) /

(Voltati e affronta lo straniero)
Ch-ch-Changes /

C-c-cambiamenti
Just gonna have to be a different man /

Devo solo essere un uomo diverso
Time may change me /

Il tempo può cambiarmi,
but I can't trace time /

ma non posso inseguire il tempo.

David BowieChanges

 

*

«‘Ebbene, ora torno al mio diario, fino alla mesta cerimonia di oggi pomeriggio.’ / ‘Ah, il diario. Non scordate di includervi, Mister Talbot, che, checché possa dirsi dei passeggeri, per quel che riguarda il mio equipaggio ed i miei ufficiali, questa nave è una nave felice!’(1)»
Fece passare qualche attimo di silenzio e poi annuì adagio.
Nella camera d’ospedale di Yuzo si sentiva solo il ritmico beep delle macchine.
«Bello stronzo, il Capitano Anderson» fu il commento di Baiko. «Non ho ragione? Io gli avrei spaccato la faccia.»
Immaginò suo figlio rispondergli qualcosa di molto più diplomatico; non era aggressivo come lui e gli venne da sorridere mentre richiudeva il tomo da cui spuntava il segnalibro.
«Meglio interrompere qui, prima che arrivino le infermiere a cacciarmi a pedate» scherzò.
Il sole si era già nascosto dietro le montagne a Ovest e il cielo s’avventurava in direzione della sera, colorandosi di viola e indaco. Nelle varie case, le famiglie erano già da un po’ riunite per cenare tutte insieme davanti alla tv e a un bel piatto fresco.
Baiko ripose il volume nella borsa, rilassandosi contro lo schienale della sedia. Il capo reclinato all’indietro e gli occhi chiusi. La mano aveva cercato e stretto quella di suo figlio per tentare di stabilire un contatto che non fosse solo a parole, non era detto che lo sentisse, ma il calore della sua pelle, forse, avrebbe potuto raggiungerlo e dirgli che non era mai da solo, ovunque si fosse trovato in quel momento. Una sorta di faro, che potesse indicargli la strada per tornare indietro.
«Oggi sono andato in giro per negozi.» Spezzò il silenzio con quella frase, parlando sempre a occhi chiusi. «Se non avessi trovato una commessa tanto gentile e disponibile penso che non avrei saputo nemmeno dove mettere le mani. La moda è così diversa da quella cui ero abituato… Non pensavo di poter imparare anche da una cosa così futile come lo shopping, eppure credo d’aver ricevuto una lezione importante.» Distese le gambe lunghe, incrociando i piedi e facendoli oscillare lentamente, quasi dondolandosi. «Ho imparato che il tempo non aspetta nessuno e anche se ci piacerebbe tornare indietro non si può. Non è possibile vivere nel passato. E se non si impara come destreggiarsi nel presente, allora si finisce col fermarsi. E chi si ferma è veramente perduto.» Aprì leggermente le palpebre, guardando suo figlio di sottecchi; sorrise appena. «Non sono riuscito a stare al tuo passo, sono rimasto indietro e ho capito di essermi perso solo quando hai deciso di esserti stancato di aspettare che ti raggiungessi.» Gli occhi si chiusero ancora. «Hai fatto bene, a mandarmi al diavolo, solo… non c’era un altro modo? Uno qualunque, che potesse farmi altrettanto male ma che non ti riducesse così? Perché non è un giusto prezzo, questo, non è giusto che per farmi ritrovare ti sia dovuto perdere tu. A volte ci penso, ma non riesco a ottenere una risposta, un’alternativa; bisognava arrivare a tanto… Ero proprio senza speranza.»
Sbuffò un sorriso molto autoironico. In quel momento, la porta della stanza si aprì e lui acquisì una postura più composta, girandosi a guardare l’infermiera affacciata oltre l’uscio.
«Signor Morisaki, è ora» lo avvertì, ricordandogli che non poteva restare oltre.
«Sì, vado subito. Grazie.»
Il tempo era scaduto, come ogni sera.
«Certo che sono davvero fiscali queste infermiere; spaccano il secondo. Avranno un orologio svizzero al posto del cuore. Pensa che ieri, una di loro mi ha detto: ‘non dovrebbe attardarsi così, si ricordi che il paziente deve riposare’ Al che mi è venuto spontaneo risponderle: ‘Più di così?!’. Avrebbe voluto incenerirmi, era palese» ridacchiò, alzandosi adagio e caricandosi la borsa sulla spalla. Mise a posto la sedia e tornò accanto a suo figlio. Si appoggiò un ultimo momento alla sbarra di sicurezza al lato del letto. «Stasera lavorerò alla mia vecchia bicicletta. Nonno Shuzo l’aveva tenuta da parte per te, perché potessi ereditarla: perfetto stile anni ’70. È modernariato, eh! Mica le trovi più così in giro e non provare a ridere. Io e lei ne abbiamo passate tante assieme e anche per questo le devo dare una sistemata: l’altro giorno abbiamo avuto un ‘piccolo incidente’ e le ho piegato un paio di raggi, ma vedrai che tornerà come nuova per quando ti sarai svegliato, così potrò presentartela. Sono sicuro che te ne innamorerai come è capitato a me. E’ un cimelio. Trattalo con cura.» Gli strizzò l’occhio con complicità, poi assunse una postura ben dritta e pronta a lasciare quella camera e l’intero ospedale. Baiko osservò per qualche attimo ancora il viso di suo figlio. «Forse dovrei augurarti un buon riposo, eppure… io vorrei che dormissi così male da svegliarti per la disperazione. Vorrei che aprissi gli occhi e che tornassi da noi… Alla mamma manchi tanto e… e anche a me; nonostante ti abbia ignorato per tutto questo tempo resterai sempre una parte di me. Quindi, svegliati presto.»
Fece scivolare via le dita dalla sua mano e lasciò la stanza evitando di guardarsi indietro per non rimanere ferito dal suo silenzio.

 

§*§

 

“All of my life I've tried so hard /
Per tutta la mia vita ho provato così duramente
doing my best with what I had /
a fare del mio meglio con quello che avevo,
nothing much happened all the same /
Ma non è successo niente lo stesso.

Something about me stood apart /
Qualcosa di me era come separato,
a whisper of hope that seemed to fail /
un sussurro di speranza che sembrava mancare.
Maybe I'm born right out of my time /
Forse sono nato in un’epoca sbagliata,
breaking my life in two /
spezzando in due la mia vita.

 

- Ti sei mai pentito di quello che hai fatto? -
Mamoru glielo domandò all’improvviso, in un momento in cui non stavano parlando, ma si limitavano ad ascoltare il mormorio del mare, il respiro del vento e il proprio. Erano ancora seduti uno accanto all’altro e Yuzo non si sarebbe mai stancato di restare così, senza pensare, ma il suo accompagnatore voleva a tutti i costi che lo facesse, che ragionasse sulle cose che gli erano sfuggite o che non aveva voluto vedere, sulle cose che reputava irrecuperabili o di cui si vergognava.
Sulle cose come quella.
Yuzo lo aveva capito, anche se Mamoru era molto bravo a porre con totale naturalezza determinati quesiti che minavano le sue certezze, le scavavano, e le mettevano a nudo, dimostrando quanto fossero fragili.
Il vero Mamoru sarebbe stato più diretto e gliene avrebbe dette di tutti i colori.
«Non ci ho ancora pensato.»
- Ora puoi. -
Il suo interlocutore gli rivolse un sorriso divertito sulla faccia da schiaffi cui riuscì a sottrarsi a fatica, sorridendo a sua volta, di resa.
«Non lo so. In quel momento non ho pensato a niente. Non ho pensato alle conseguenze, non ho pensato a mia madre, non ho pensato ai miei amici né a-» si volse, fermò la frase in quegli occhi scuri che ora erano quelli del suo migliore amico. No, non aveva pensato neanche a lui. «Ho pensato solo a me. Solo a papà. In quel momento, il mondo intero eravamo nient’altro che noi due. Sono… sono stato egoista. Se adesso dovessi pensare alla mamma o ai miei amici, direi di essere pentito perché non vorrei mai essere la causa della loro sofferenza. Ma, d’altra parte, se dovessi pensare a mio padre… non lo so. Volevo che soffrisse, volevo così tanto fargli del male…» Nelle iridi scure, la rabbia e il rancore brillarono per una frazione di secondo come scintille d’un fuoco d’artificio; poi si spensero. «E il brutto è che una parte di me lo desidera ancora, anche se sa di essere stata terribile.»
- E a loro, agli altri, pensi mai a come stiano adesso? -
«Non voglio farlo.»
- Devi, invece. -
«Perché?»
- Perché ti servirà per scegliere. -
Quella scoperta lo fece rabbrividire in maniera impercettibile, ma non abbastanza per gli occhi del suo accompagnatore; lui vedeva ogni cosa, sempre.
«Scegliere?»
- Se andare avanti o tornare indietro. -
«Non posso… restare qui in eterno?» tentò, accennando un sorriso, ma l’altro mantenne la sua imperturbabilità e quella serietà che lo contraddistingueva quando gli parlava di cose importanti. Lo conosceva relativamente da pochissimo tempo, una manciata di eternità, eppure sapeva già capire i suoi atteggiamenti, quasi lo avesse avuto accanto fin da bambino.
- Il concetto di eternità non è lo stesso tra reale e irreale. Il tempo che noi abbiamo passato qui, non corrisponde a quello vissuto dal tuo corpo. Se continui ad aspettare, potresti non avere più un corpo in cui tornare. Quindi devi pensare, Yuzo, pensare. Con attenzione. Pensa a tua madre. Cosa immagini di lei? -
Distolse lo sguardo, sentendosi colpevole. «Che devo averle spezzato il cuore. Mi ha sostenuto fino alla fine e io… in quel modo l’ho colpita alle spalle. L’ho ferita, non solo papà…» scosse il capo e la bocca assunse un sapore aspro.
- E del tuo amico Mamoru, invece? -
Lì, improvvisamente si mise a ridere, scuotendo il capo con maggiore vigore.
«Che mi starà odiando.» Rideva ma gli veniva da piangere, lo sentiva negli occhi e nella piega delle labbra che era curvata verso l’alto, ma amara. «Sono sicuro che è così arrabbiato che se potesse mi prenderebbe a sberle da qui all’eternità.»
- Devi tenere molto a lui se mi hai dato finanche il suo aspetto. -
«Sì. Molto è riduttivo.» Si passò una mano sugli occhi. «E’ stato un sostegno. La sicurezza che io non ho mai avuto. E dire che non siamo stati amici da subito. Ad occhi estranei, Mamoru può apparire un po’ presuntuoso e arrogante, troppo sicuro di sé. Ma quando riesci a diventare suo amico… farebbe di tutto per te. È generoso e protettivo. Grazie a lui ho capito cosa significa amare qualcuno in ogni sua parte, pregi e difetti.»
- Ma non glielo hai detto. -
Il capo venne scosso ancora, con dolenza e un mezzo sorriso ironico sbuffato. «Non posso.»
- Perché? -
«Perché è una cosa troppo grande. Cambierebbe tutto, anche se non lo vogliamo. Cambierebbe per forza di cose e non perché lui non mi accetterebbe, ma perché dire ‘mi piacciono gli uomini’ e dire ‘mi piaci tu’ sono due cose diverse. Non voglio perderlo.» Agitò severamente un indice in direzione del finto Mamoru, tentando di sdrammatizzare quel discorso che era riuscito a ferirlo comunque, perché lo trascinava a viva forza fuori da quell’universo irreale e perfetto, in cui ogni cosa era calma e tranquilla, in cui nulla più faceva male, per avvicinarlo di nuovo alla realtà. La stessa che aveva provato a lasciarsi alle spalle ma che sapeva ferirlo perché non sapeva come affrontarla davvero e quale fosse il vero sentimento che provava nei suoi confronti. Tra odio, rimorso, dolore, amore non sapeva che scegliere. Ignorò il fatto di non udire più l’eco della speranza. «L’amore è una gran fregatura. Non potevamo odiarci tutti? Sarebbe stato più facile. Non avremmo mai provato il senso di colpa.»
- Se tornassi indietro potresti rivederlo e rivedere tua madre. –
Sottile, ma deciso; Mamoru gli riempiva il petto di aghi ad ogni parola. E di dubbi.
«Rivedrei anche mio padre…» sulla bilancia pendevano piatti che si eguagliavano. Non sapeva affrontarlo, non poteva, non ci riusciva. Non ci era riuscito in tutti quegli anni, come avrebbe potuto ora e dopo quello che era accaduto? «Posso… posso pensarci ancora un po’?»
Il giovane sembrò capirlo, perché smise di forzare. Anche per quello avvertì la sua presenza come una specie di agrodolce benedizione.
- Certo che puoi. Ma prima che faccia sera dovrai darmi una risposta. -
«Ma se non c’è il sole, come faccio a-»
- Lo saprai. -
Il suo essere criptico riusciva sempre a convincerlo, e Yuzo non sapeva dirsi perché.
Avrebbe saputo quando sarebbe giunta la sera. Gli aveva detto così e lui non ne ebbe dubbi. Allora avrebbe dovuto sfruttare al meglio quell’infinitesimo di pace, prima che di vederlo spezzato per sempre da ciò che non avrebbe voluto fare.
«Ti dispiace se mi appoggio a te?»
- No. - sorrise l’altro, e lui cambiò posizione, spostandosi parallelamente alla striscia di mare; la schiena che toccava la spalla di Mamoru e la testa che veniva reclinata all’indietro per cercare la morbidezza dei suoi capelli.
«Noi ci sedevamo spesso così» sorrise, e l’immagine del fiume e loro due sulla riva prima che la tempesta divenisse un ciclone incontrollabile apparve e scomparve nell’infrangersi leggero di un’onda.
- Davvero? -
«Mh…»
Ma la creatura doveva saperlo già, perché gli passò un braccio intorno al petto, proprio come faceva sempre il vero Mamoru. Il calore era lo stesso dei suoi ricordi.
Chiuse le palpebre, aggrottando le sopracciglia.
«Scegliere… mi fa paura.»
- Non devi averne. -
«Tu… resterai qui con me?»
Avvertì le dita scivolare sui suoi occhi, la testa appoggiarsi contro la sua e un sussurro a carezzargli la guancia.
- Fino alla fine. -

 

“Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Now that I've really got a chance /
Ora che ho davvero una possibilità.
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Everything's falling into place /
Ogni cosa sta tornando a posto
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Seeing my past to let it go /
Guardo al mio passato per lasciarlo andare.
Throw me tomorrow /
Gettami il domani.
Only for you I don't regret /
Solo per te non ho il rimpianto
that I was Thursday's child /
d’esser stato fuori luogo. 

Sometimes I cried my heart to sleep /
 A volte ho pianto il mio cuore fino ad addormentarlo.
Shuffling days and lonesome nights /
Giorni confuse e notti solitarie
Sometimes my courage fell to my feet /
A volte mi è mancato il coraggio.

Lucky old sun is in my sky /
Il vecchio sole fortunato è nel mio cielo
Nothing prepared me for your smile /
Nessuno mi aveva preparato al tuo sorriso,
lighting the darkness of my soul /
sta illuminando l’oscurità della mia anima.
Innocence in your arms /
Innocenza nelle tue braccia.

David BowieThursday’s Child

 

§*§

 

“Well we know where we’re goin’ /
Bene, sappiamo dove stiamo andando,
but we don’t know where we’ve been /
ma non sappiamo dove siamo stati.
And we know what we’re knowin’ /
E sappiamo quello che sappiamo,
but we can’t say what we’ve seen /
ma non possiamo dire cosa abbiamo visto.
And we’re not little children /
E non siamo dei bambini
and we know what we want /
e sappiamo cosa vogliamo
and the future is certain /
e il futuro è certo,
give us time to work it out /
dateci il tempo per riuscirci.

 

La sveglia suonò alle cinque ed ebbe quasi l’istinto di gettarla lontano, ma si comportò da uomo e la spense.
Aveva fatto di nuovo un orario improponibile tra il riparare la bici, cucinare qualcosa di commestibile e continuare a vedere le partite di suo figlio. Però si sarebbe alzato lo stesso, nonostante fosse andato a dormire nemmeno quattro ore prima. Lo avrebbe fatto perché quel giorno aveva un programma speciale da seguire.
Baiko si tirò a sedere e aveva la faccia del sonno, i capelli spettinati e la barba che in piena ricrescita. Una meraviglia.
Si schiaffeggiò per riprendersi il più rapidamente possibile e abbandonò il letto senza protestare.
I pantaloncini e la t-shirt erano fermi sulla sedia, pronti per essere indossati; le scarpe da ginnastica, invece, restavano riposte all’ingresso.
Li guardò con decisione, attraverso la penombra della stanza, quasi avessero potuto parlargli – e se l’avessero fatto, poco ma sicuro gli avrebbero urlato contro un ‘ridicolo!’ di chiarissima comprensione –.
Li afferrò e se ne andò in bagno. Dieci minuti dopo la porta di casa veniva richiusa alle sue spalle.
Fuori l’aria era frizzante al punto giusto. L’afa d’Agosto non era ancora arrivata a scacciare il fresco che la sera aveva calato su tutta Nankatsu. Il sole stava ancora pisolando dietro i monti.
Baiko si fermò fuori dal cancello, guardandosi attorno: non c’era nessuno. La città era ancora addormentata e passava solo, sporadica, qualche vettura. Era tutto così silenzioso che riusciva addirittura a sentire i rumori delle strade più lontane, che portavano al centro.
Quindi era in questo modo che Yuzo iniziava le sue giornate, con quel silenzio e quella calma. Il programma che aveva trovato appuntato alla mensola sopra la scrivania di suo figlio diceva: ‘corsa mattutina fino alla collinetta del Parco Hikarigaoka per vedere l’alba’. C’era addirittura tracciato il percorso da seguire e lui se l’era studiato per bene, la sera prima, in modo da impararlo a memoria.
Baiko infilò le cuffiette del lettore mp3 di suo figlio e fece partire la musica, restando fermo con le mani ai fianchi. Ora erano solo lui e la strada che si stendeva sgombra, davanti ai suoi occhi.
Ruotò la testa, avvertendo lo scricchiolare del collo, sollevò le braccia snodando le spalle. Prese il tempo della batteria con tutto il corpo e finalmente iniziò a correre.
A dire il vero, sentiva le gambe ancora un po’ intontite dal troppo lavoro fatto quando era andato a trovare sua madre. Non era proprio più abituato a simili attività, ma sarebbe riuscito a portare a termine quella tratta a ogni costo. Aveva detto a Yuzo che non si sarebbe mai arreso e lui era sempre stato un tipo di parola.
Mentre correva, osservando la città attorno a lui, pensò che non si era mai alzato così presto per allenarsi quando giocava a baseball. Chissà, magari era anche per quello che non erano mai andati oltre il Campionato Regionale. Se ci avessero messo maggiore impegno, forse…
Yuzo, invece, prendeva seriamente il calcio, aveva quella passione in più che era riuscito a farlo arrivare in alto.
Lui gli aveva sempre ripetuto che i Morisaki non mollavano mai, non si accontentavano, spingevano fino allo stremo e suo figlio, senza far rumore, non era venuto meno a nessuna delle sue raccomandazioni. Nel calcio, Yuzo metteva tutto sé stesso e solo allora si rese conto di come lui, invece, non ne avesse rispettata nemmeno una di quelle regole. Aveva mollato il suo sogno, si era accontentato di dirigere la ‘Golden Gun’, non aveva lottato per ciò in cui credeva davvero. Per anni aveva torchiato suo figlio, mentre lui era stato bravo solo a parlare e nient’altro.
L’amaro gli rovinò il palato, mentre scuoteva la testa: l’ennesimo fallimento da aggiungere alla lunga lista.
Ma non doveva recriminare su quelli che erano stati i suoi sbagli, erano troppi e lo sapeva, doveva concentrarsi solo sul presente, sul ricostruire, modificare il progetto e renderlo davvero unico; c’era sempre tempo per rispettare i propositi di famiglia.
Baiko tornò a sorridere, mantenendo l’andatura.
Adagio, la città iniziava a svegliarsi. Lui si guardò attorno, ma non riconobbe quella zona di Nankatsu. Oddio, non che le altre le conoscesse chissà quanto meglio, visto che non era mai andato in giro da turista o anche semplicemente per farsi una passeggiata. Le villette si susseguivano ordinate lungo la strada, giardini curati, staccionate bianche o marroni che sembravano verniciate di fresco e muriccioli di mattoni. Cespugli di rose e mimose giapponesi esplodevano con colori carichi dai giardini; alcuni erano così grandi che uscivano leggermente sulla strada. Lui passò accanto ai fiori già sbocciati sui cui petali scorse le prime api al lavoro. Per quanto non apprezzasse particolarmente gli insetti, soprattutto quelli dotati di pungiglione, gli venne da sorridere e non seppe spiegarsi perché.

 

“We’re on a road to nowhere /
Siamo sulla strada che non porta da nessuna parte.
Come on inside /
Entraci.
Takin’ that ride to nowhere /
Intraprendendo quel viaggio che non porta da nessuna parte,
we’ll take that ride /
prenderemo quel viaggio.


I’m feelin’ okay this mornin’ /
 Mi sento bene questa mattina.
And you know /
E tu lo sai,
we’re on the road to Paradise /
siamo sulla strada per il Paradiso.
Here we go, here we go /
Andiamo, andiamo.

 

Si fermò nel mezzo del nulla, ansimando per prendere fiato.
Ma quanto ancora era lontano il parco?!
Baiko non ne aveva idea, sapeva solo che lì, su quella stradina un po’ sterrata, c’erano solo lui e le sponde del fiume.
Il primo pensiero che gli era venuto in mente, nel vederlo, era stato: «Nankatsu ha un fiume? Davvero?!», lui lo vedeva per la prima volta. Poi si era guardato attorno, il quartiere residenziale con le villette era scomparso lasciando posto ad alte palazzine di periferia. Ma adesso, anche queste si presentavano a una certa distanza e lui non aveva che il rumore dell’acqua a fargli compagnia.
Tolse le cuffiette, appoggiandosi con le mani sulle ginocchia.
«Dannazione, sono troppo vecchio per queste cose!» esclamò a voce alta, inarcando un sopracciglio.
Per sua fortuna, c’era una fontanella poco distante e la conquistò in un attimo. Il fresco dell’acqua sulla pelle e lungo la gola lo fece rinascere. Assunse nuovamente una stazione eretta, portandosi le mani ai fianchi e respirando frequentemente per recuperare. Lo sguardo vagò alla strada che si era lasciato alle spalle e a quella che avrebbe ancora dovuto percorrere. Del parco nemmeno l’ombra remota in lontananza.
«E tu fai questo tutte le mattine?» domandò, passandosi una mano sulla fronte. «Tanto di cappello, figlio mio.»
E così aveva scoperto un’altra caratteristica da associare a Yuzo: la perseveranza(2). Se cominciava una cosa, la portava a termine con costanza e continuità. Si era prefisso di correre ogni mattina prima di andare a scuola? E allora lo avrebbe fatto, senza farsi vincere dalla pigrizia. Questa era Passione, con la lettera maiuscola.
Baiko inspirò a fondo guardando la lunga strada che si perdeva davanti a lui. «In marcia.»
E in marcia si mise: infatti camminò, che di correre non se ne parlava proprio.
A passo svelto si mosse seguendo il fiume e godendo dall’aria umida e dell’odore di terra bagnata. Era un mormorio rilassante e se Yuzo lo sceglieva come suo percorso abituale doveva piacergli in modo particolare.
Una libellula gli volò davanti, andando a nascondersi nell’erba alta. A quell’ora non c’era ancora nessuno lì, non sembrava una strada particolarmente trafficata. In alto, il cielo iniziava a schiarirsi.
Baiko lo guardò un po’ accigliato: doveva muoversi o non sarebbe mai arrivato in tempo a destinazione. Così aumentò il passo.
Vide il fiume allontanarsi dalla strada per cambiare percorso e immergersi in direzione delle campagne. Al suo posto comparvero distese di grano altissimo che nascondevano ciò che si celava dietro di loro. Poi, spuntò il campo da calcio.
Quando lo vide, Baiko rallentò fino a fermarsi. Era la prima volta che ne vedeva uno da vicino. A lui non era mai interessato, aveva sempre avuto il baseball, e inoltre la sua scuola non aveva nemmeno una squadra. Lo fissò dall’alto, mentre la brezza ancora fresca gli carezzava il viso e i capelli. Era perfettamente calato nel verde e solo le strisce bianche spiccavano, assieme alle porte.
Chissà se Yuzo ci aveva mai giocato lì, proprio in quel campo.
Se lo domandò, avvicinandosi piano alle scalette che portavano giù, indeciso sul da farsi. Voleva vederlo meglio, iniziare a prendere confidenza con quel luogo che era il posto dove Yuzo aveva deciso di stare fino a che il fisico gliel’avrebbe permesso, però si sentiva inopportuno, come se stesse invadendo uno spazio privato, il più intimo. Nemmeno verso la camera di suo figlio si era sentito tanto insicuro; lì era stato cacciato, o almeno così gli era sembrato, mentre adesso gli pareva quasi di violare un luogo sacro verso il quale aveva sempre avuto parole di disprezzo. Si sentiva ipocrita, ma anche quello faceva parte della sua ricerca, del capire sempre di più, fino in fondo, suo figlio.
Tirò un profondo sospiro e si decise a scendere. Avanzò uno scalino alla volta, adagio, e più la distanza diminuiva, più il campo gli appariva nitido. La sua reale estensione, il colore dell’erba, il modo in cui era tagliata e curata, la consistenza dei pali e la rete.
Baiko mise piede sull’erba che fece un suono piacevole sotto le suole. Camminò piano in direzione della porta, continuando a guardarsi attorno con attenzione, quasi avesse paura di disturbare. Chi o cosa lo sapeva solo lui, visto che non c’era nessuno, nemmeno un’anima solitaria. Alle sei del mattino era un po’ difficile sperare di trovare qualcuno; forse, giusto un tipo come suo figlio.
Sorrise nel raggiungere finalmente l’area di rigore. Quello che era il regno di Yuzo. Solo allora si fermò, osservando interamente la porta. Toccò il legno del palo, avvertendo il ruvido dove era stato più spesso colpito dalle pallonate. Yuzo ci si doveva essere appoggiato infinite volte, mentre dava disposizioni alla difesa.
Baiko si mise a cavallo della linea di porta e si girò; ora poteva vedere l’intero campo dal punto di vista di suo figlio.
Beh, a esser grande era grande. Un po’ gli ricordava l’estensione del diamante, anche se quest’ultimo era più vasto. Appoggiandosi al legno socchiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni; il vociare confuso dei tifosi che aveva sentito nei video visti a casa iniziò a farsi spazio nel silenzio assieme alle grida concitate degli altri giocatori che correvano da una parte all’altra. Era questo il mondo in cui Yuzo viveva, per cui aveva lottato fino all’ultimo e non si era piegato. Il calore che avvertiva era lo stesso di quando lui si trovava sul monte di lancio, l’adrenalina anche. Il lanciatore era sul dischetto dei nove metri, mentre lui si trovava al posto del battitore.
Il sorriso divenne divertito, mentre si allargava fino a snudare i denti. Allora, suo figlio era un hitter.
Erano sempre stati più vicini di quanto entrambi avessero mai creduto o anche solo pensato. Molto, molto di più.
Baiko riaprì gli occhi e il campo era ancora deserto. I cori si dissolsero, assieme ai fischi dell’arbitro e alle grida dei compagni. Si volse, alla propria destra, e all’altro capo della porta gli parve di vederlo: Yuzo era appoggiato al palo, proprio come lui, e indossava una divisa nera e bianca, con uno stemmino arancione e blu ricamato sul petto(3), poco più sopra del cuore. Lo vide girarsi nella sua direzione e sorridergli, prima di dissolversi nella bruma del mattino che, rada, sostava sull’erba.
«E’ qui che vorresti essere, vero?» gli domandò, ma non c’era nessuno a rispondergli se non la foschia. «E’ qui che tornerai. Ne sono sicuro.» perché i Morisaki non si arrendevano mai.
E, a pensarci, si ricordò di avere anche lui una cosa fare e poco tempo a disposizione, ma non si sarebbe arreso. Le gambe sembravano essersi un po’ riprese e anche il fiatone, ormai, era scomparso.
«Gambe in spalla!» si disse, prima di lasciarsi alle spalle il campo da calcio e riprendere a correre.

 

“Maybe you wonder where you are /
Forse fantastichi su dove ti trovi.
I don’t care /
Non mi importa.
Here is where time is on our side /
Qui è dove il tempo è dalla tua parte.
Take you there... take you there /
Raggiungilo… raggiungilo.

 

«Dai, nonno, che sei solo!»
Gli urlò un ragazzino in bici che consegnava i giornali, scoppiando a ridere.
Baiko sentì il fuoco avvamparlo come un tizzone.
«Nonno?! A chi?!» gli urlò di rimando, agitando minacciosamente un pugno in aria.
Ora sì che cominciava a incontrare un po’ più di vita.
Il percorso l’aveva riportato in un quartiere abitato e non sapeva nemmeno dove diavolo fosse o quanti chilometri avesse percorso, sapeva solo che alla fine di quella giornata si sarebbe trovato ancora una volta morto di stanchezza.
Ma anche quello era un modo per sentirsi più vivi; percepire il proprio corpo sottosforzo e poi trovarlo stremato mentre si riprendeva lentamente. Sentire tutti i muscoli in movimento e contrazione, i tendini che si allungavano, la pelle che si increspava per il venticello più fresco o che avvertiva il calore del sole, i capelli che la brezza smuoveva, il sudore sulla fronte.
Baiko era sicuro di voler ritrovare in ogni minima cosa il senso di quella vita che aveva lasciato scorrere per troppi anni nell’indifferenza; attraverso essa avrebbe recuperato anche suo figlio. E sentiva di essere sulla strada giusta, aveva scoperto così tante cose di lui, la maggior parte delle quali non le aveva minimamente sospettate. A tal proposito, le fotografie di Yuzo e Mamoru, insieme, gli scorsero davanti agli occhi d’improvviso, facendolo sospirare.
Sì, quella era la più… la più… difficile da assimilare. Cioè, non proprio difficile… ma che richiedeva un po’ più di tempo. E poi, chissà, magari si era sbagliato. Non poteva dire d’averle guardate con attenzione, quindi poteva aver frainteso…
Baiko si batté una mano sul viso, scuotendo il capo.
- Frainteso un cazzo. - azzeccò il paragone, prendendosi a pugni la testa per scacciare orride immagini da porno-gay di serie zeta.
«Basta! Sarò in grado di affrontarlo! Ce la posso fare!» esclamò, con le mani strette, e svoltando a un incrocio.
Un fioraio lo seguì con gli occhi senza dire una parola, allungando leggermente il collo. «I pazzi…» sospirò infine, tornando al suo lavoro.
Nel frattempo, Baiko era riuscito finalmente a scorgere l’ingresso del Parco Hikarigaoka.
Sul viso gli si disegnò l’espressione più estatica che avesse potuto fare: ce l’aveva quasi fatta! Mancava poco!
Spostò lo sguardo al cielo e il chiarore preannunciava l’alba ormai imminente.
«Oh, merda!» sbottò, aumentando il passo e spingendo fino all’ultimo per dare fondo a tutte le energie rimastegli.
Divorò l’asfalto che lo separava dall’ingresso in un attimo e si inerpicò per il sentiero che conduceva alla collinetta, e non era un sentiero qualunque. Per chiudere in bellezza e per far comunque onore ai suoi vecchi tempi, non poteva che esserci una sana salita. Certo, non era irta e infida come la Scavezzacollo, ma poteva essere considerata la sua sorellina minore.
Baikò tirò giù tutte le volgarità di cui era a conoscenza quando si ritrovò quasi ad arrampicarsi, tenendosi aggrappato al corrimano in legno del sentiero. Quella era la volta buona che gli sarebbe venuto un infarto, poi pensò che se non gli era venuto il giorno in cui Yuzo si era sparato, non poteva certo venirgli per una simile stronzata. Così digrignò i denti e continuò, un occhio alla cima della salita, un altro al cielo: la luce dorata stava per lambire la sommità delle montagne a Est e nella sua testa pulsava il sangue e il suono della batteria che proveniva dalle cuffie.
Raggiungere il pianale fu una liberazione.
Baiko si trascinò fino al bordo del belvedere e si lasciò cadere al suolo come una medusa spiaggiata sotto il solleone. Le cuffiette scivolarono dalle orecchie.
«Sono… morto…» biascicò con la bocca pastosa e il respiro talmente affannato che anche parlare gli risultò difficile, se non impossibile. «…spero… spero che ne… valga davvero… davvero la pena… figliolo…»
Perché se Yuzo si faceva quella sfacchinata tutte le mattine solo per vedere l’alba, allora doveva essere minimo minimo uno spettacolo immenso.
Baiko fece forza con le braccia, forse l’unica parte del corpo in cui gli era rimasta un po’ di energia, e si tirò a sedere. Le gambe distese, l’aria sfatta e le mani al suolo per reggersi e non crollare.
Solo allora, timidamente, il sole cominciò a fare capolino colorando di oro intenso i profili montuosi che affiancavano il Fuji-san. L’indaco della sera morente si dissolse nel rosa dell’alba e nel giallo che brillava attorno all’astro in ascesa.
C’erano solo lui e il bosco e il silenzio che si interrompeva nei rumori della natura, vicini, e in quelli ovattati della città, che lì giungevano quasi come un’eco piacevole. La foschia si sollevava adagio, come una coperta che veniva tolta alle prime luci del mattino perché era ora di svegliarsi.
Quando il primo arco di sole spuntò, lo accecò per un attimo; anche se la sua luce non era affatto forte, a lui parve sfavillare, ma non smise di fissarlo magicamente rapito da quello spettacolo di riverberi che cominciavano a traboccare dagli argini delle montagne: una colata di oro che si riversava su Nankatsu.
«Sì, ne valeva la pena…» disse con un sorriso.
E, vaffanculo!, ce l’aveva fatta.
Ce l’aveva fatta davvero!
Aveva corso senza arrendersi; anche se si era sentito distrutto, era arrivato sulla cima. Non aveva mollato. Per la prima volta si sentì davvero un Morisaki.
Non era mai troppo tardi.
Non lo era mai, mai, mai.
E lui poteva finalmente esultare.
La sua risata si levò nel silenzio del parco assieme al sole.

 

“There’s a city in my mind /
C’è una città nella mia mente,
come along and take that ride /
vieni e intraprendi il viaggio.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

And it’s very far away /
Ed è molto lontana,
but it’s growing day by day /
ma sta crescendo giorno dopo giorno.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

They can tell you what to do /
Loro possono dirti cosa fare,
but they’ll make a fool of you /
ma ti prenderanno in giro.
And it’s all right, baby, it’s all right /
E va tutto bene, tesoro, va tutto bene.

Talking HeadsRoad to nowhere

 

*

Nankatsu si era svegliata del tutto.
Baiko era rimasto a godersi il sorgere del sole in piena tranquillità. Aveva atteso che emergesse completamente da dietro le montagne e poi si era alzato, per tornare a casa.
Le gambe gli facevano un male cane, ma stava recuperando più velocemente dei giorni precedenti, voleva dire che il suo corpo si stava di nuovo abituando a fare attività sportiva. Certo, passare da uno stato di rilassamento totale a uno di stress estremo era stato un po’ eccessivo, ma alla fine era stato come non avere scelta. E non se ne pentiva neanche un po’.
Il fresco della mattina si era asciugato nei raggi del sole che, nonostante fossero solo le otto passate da pochi minuti, picchiavano sulle teste degli abitanti che correvano a prendere l’autobus o la metro, e che affollavano le strade per andare a lavorare.
Baiko li osservava mentre camminava a passo svelto lungo il marciapiede. La gente gli passava attorno, quasi non esistesse, ognuno preso dal proprio piccolo mondo che girava in un senso unico ed esclusivo, diverso da quello degli altri. Anche il suo mondo girava in maniera diversa e forse l’unica differenza che aveva col resto di quelle persone che seguitavano a correre verso le loro destinazioni era che ne fosse consapevole.
D’un tratto un rumore di clacson riuscì a penetrare la musica delle cuffiette che stava indossando e che gli faceva compagnia nella sua passeggiata di ritorno. Più avanti, al centro della strada, le macchine si stavano leggermente impilando, suscitando le prime proteste degli automobilisti.
Baiko allungò il collo per vedere cosa stesse accadendo e scorse un’auto ferma e il proprietario che sbraitava in parte al telefono e in parte con chi gli stava dietro e non poteva passare.
«Ma che ne so! Questa stronza si è piantata e non vuole saperne di ripartire!» lo sentì sbraitare dopo essersi avvicinato al marciapiede. «Sì, sì… farò tardi… ma che ne so, cazzo! Il tempo che arrivi il carro attrezzi. ‘Mitsubishi mi stupisci’(4), eccerto! Funzioni come un culo! Certo che mi stupisco!» I clacson strombazzarono ancora e l’uomo si girò di scatto, inferocito come una iena. La bassa coda di cavallo oscillò al movimento stizzito. «Non parte, idiota! N-o-n p-a-r-t-e! Devo farti un disegno? Piantala di suonare! Anche io devo andare a lavoro, che credi?!» poi scosse il capo, chiudendo la conversazione telefonica.
«Le serve una mano?»
Il proprietario dell’auto lo guardò con un sopracciglio inarcato, sembrava quasi avesse voluto morderlo tanto era arrabbiato, ma alla fine sospirò e agitò una mano. «No, amico. Questa s’è piantata. Non fa nemmeno contatto.»
«Possiamo provare a spingerla a lato, così almeno la smetteranno di sbraitare in quel modo.» Baiko indicò la fila di auto che si allungava sempre di più, mentre qualcuno prendeva a superarli lentamente dicendone di tutti i colori.
L’altro ruotò gli occhi con noia alla valanga di insulti che gli arrivarono alle spalle e poi sbuffò. «E sia, credo che lei abbia ragione. Vediamo di toglierla da qui.»
Si posizionarono ognuno alle rispettive portiere anteriori e iniziarono a spingere fino a che la Mitsubishi non si mosse, vincendo l’attrito.
Gli altri automobilisti fecero loro un sarcastico applauso per essersi tolti dai piedi. Baiko accennò un divertito sorriso di sufficienza, mentre il proprietario dell’auto, invece, non sembrava disposto a restarsene in silenzio.
«Grazie, eh! Avreste anche potuto scendere voi a dare una mano, grand’uomini!» gesticolò animatamente, sbuffando dietro alle vetture che avevano ripreso a muoversi più velocemente, snellendo il traffico. «Ugha chaka, ugha chaka. Volere clava. Tsk! Trogloditi.»
«La mattina sono tutti di pessimo umore. Non se la prenda.» Gli sorrise Baiko, appoggiandosi alla portiera aperta. Lo sconosciuto con codino – a occhio e croce forse doveva essere leggermente più giovane di lui – sospirò, facendo il giro per raggiungerlo.
«Non lo metto in dubbio, ma questa città sta diventando ogni giorno più invivibile. Dove diavolo è la tranquilla Nankatsu che conoscevo io, mi dico.»
«Sarà che siamo noi quelli fuori moda, ma non è poi così male se si capisce come prenderla.»
Il suo interlocutore ridacchiò. «Mi piacerebbe capire come si fa.»
«Papà! Ma che diavolo hai combinato?»
Una terza voce si unì a loro e quando Baiko vide che era Mamoru, quel Mamoru, si irrigidì sentendosi improvvisamente a disagio, più che altro per lo sguardo pesante con cui il giovane lo stava fissando. Era ghiaccio. Un lastrone alto cinquanta metri e spesso dieci. E la cosa più assurda in tutta quella situazione era che lui, tra tutte le migliaia di persone che popolavano la città… aveva aiutato proprio suo padre.
«Ah! Figliolo! Per fortuna che non ti dovevo accompagnare in stazione, non ci saresti mai arrivato: la macchina è andata. Meno male che questo signore-»
«Buongiorno, signor Morisaki.»
Mamoru lo sibilò con un tono così tagliente che se avesse potuto farlo a pezzi, non sarebbero rimaste che fettine sottilissime di lui.
Baiko tirò un sorriso, accennando col capo. Mamoru non smise di fissarlo.
Taikan spostò velocemente lo sguardo da suo figlio allo sconosciuto, realizzando solo in quel momento le parole di Mamoru.
«Lei è il padre di Yuzo?!» esclamò, l’espressione spiazzata.
«Sì.»
«Oh! Per la miseria, io… io non lo sapevo, non avevo idea! Che maleducato! Sono Taikan Izawa.» Si giustificò, seriamente mortificato per non averlo riconosciuto. Allungò una mano che Baiko strinse con cortesia. «Mi perdoni, è che non l’avevo mai vista…»
«No, non si preoccupi. Anche io non sapevo che fosse il padre di uno degli amici di Yuzo.»
«Tsk. Che novità.»
Baiko incassò la stilettata di Mamoru senza replicare; nei suoi occhi lesse uno sguardo accusatorio.
«Mamoru!» tuonò Taikan, minaccioso, e il giovane sembrò comprendere il monito. Distolse lo sguardo con fastidio pur mantenendo le labbra arricciate.
Il signor Izawa tornò a rivolgersi a Baiko. «Mi dispiace molto per Yuzo. Ci sono novità?»
Lui si strinse nelle spalle, trovandosi a disagio a parlare in presenza del terzino, visibilmente astioso. Se avesse potuto, quel ragazzo sarebbe esploso ed era solo per la presenza del padre che cercava di contenersi, ma non sapeva fino a che punto ne sarebbe stato capace.
«Non al momento. Si mantiene stabile…»
«Avrebbe potuto star bene» di nuovo, tono tagliente e occhi gelidi. «Avrebbe potuto essere a Shimizu per realizzare i suoi sogni. È felice di quello che ha fatto?!»
Per la seconda volta, Baiko incassò e Taikan lo precedette prima che potesse anche solo tentare di replicare.
«Mamoru! Che modi sono questi?! Scusati immediatamente!»
«No, signor  Izawa, lasci stare» -…ha ragione lui…- «non importa…»
«Sì, invece!» era irremovibile e furente. «Datti una mossa e scusati. Adesso.»
Baiko vide il giovane tacere con orgoglio e stringere con rabbia il manico del borsone. Percepiva in maniera tangibile tutto il suo rancore. Lo odiava in un modo diverso rispetto ad Haruko: quello era l’odio solido e sordo di una madre, questo era l’odio feroce e cieco di chi… di chi amava e non aveva scampo. O, almeno, a Baiko così parve. Forse era solo frutto della suggestione. Forse le cose che aveva capito o creduto di capire lo stavano portando a vedere comportamenti che non esistevano. Non avrebbe saputo dirlo.
«Avanti!» Taikan incalzò, spazientito, il proprio figlio e quest’ultimo fu costretto a capitolare.
«Mi scusi» sibilò d’un fiato; senza attendere nemmeno una replica volse le spalle a entrambi e se ne andò a passo svelto. In un attimo scomparve nel via vai del marciapiede. A nulla valsero i richiami del padre.
«Mamoru! Mamoru, per la miseria! Accidenti che dannata testaccia! Tutto sua madre! Ah, ma stasera mi sentirà eccome» sospirò, passandosi una mano sulla fronte in un gesto stizzito. «Lo perdoni, signor Morisaki, di solito non si comporta così ma quello che è successo a Yuzo lo ha stravolto. Sono mortificato.»
Lui scosse il capo, il sorriso si fece più sincero e rilassato, anche se mesto.
«Va tutto bene, davvero, non importa. Sono molto amici, è normale. Per favore, finga che non sia successo nulla e non lo rimproveri.»
Taikan lo osservò ma non seppe che rispondere. A dire il vero era sorpreso perché non era affatto così che aveva pensato che fosse il padre di Yuzo. Era convinto che si sarebbe trovato davanti un uomo più intransigente e severo, e invece… Dopotutto anche lui ne sarebbe uscito sventrato se suo figlio avesse fatto la stessa cosa. Si poteva esser forti quanto si voleva, ma a tutto c’era un limite.
«Sta arrivando il suo carro attrezzi.»
Baiko indicò il furgoncino che procedeva spedito nel traffico e aveva già messo la freccia per accostare.
Taikan gli sorrise. «La ringrazio dell’aiuto. È stato un piacere conoscerla. Sono sicuro che Yuzo si riprenderà presto.»
«Lo credo anche io. Buona giornata.»
Fece un accenno di inchino e se ne andò, lasciando che i pedoni inghiottissero anche lui come era stato con Mamoru.
Rimasto fermo presso la Mitsubishi, Taikan lo seguì con gli occhi fino a che non scomparve.

 

“When you try your best but you don't succeed /
Quando fai del tuo meglio, ma non hai successo.
When you get what you want but not what you need /
Quando hai ciò che vuoi, ma non ciò di cui hai bisogno.
When you feel so tired but you can't sleep /
Quando ti senti stanco ma non puoi dormire.
Stuck in reverse /
Bloccato in un porblema.

 

Baiko camminò a passo deciso fino a casa.
Non era stata sua intenzione camminare quasi di fretta eppure, appena richiuse la porta di ingresso alle spalle, avvertì la necessità di essere tornato in quel posto il prima possibile. E non per nascondersi.
Mamoru gli aveva mostrato forza e convinzione, attraverso gli sguardi di odio, che l’avevano colpito a tal punto da desiderare di capire se ciò che aveva intuito fosse vero. Tanto poteva tergiversare e illudersi quanto voleva, la realtà avrebbe continuato a rimanere la stessa e allora poteva anche smetterla di tenerla a distanza, non sarebbe mai cambiata.
Qual era la reale genesi dietro la rabbia dell’amico di suo figlio? Davvero era solo frutto dell’amicizia, oppure…
La scala che portava al piano di sopra restava immobile quasi lo stesse aspettando e Baiko si ritrovò a salire i gradini senza nemmeno accorgersene.
Aprì la porta della stanza di Yuzo con una confidenza che sembrava appartenere ad anni di pratica, come se conoscesse quel luogo da una vita e non da una manciata di giorni.
Gli album di fotografie erano lì, dove li aveva lasciati, doveva solo sfogliarli e capire.
Capire la verità e accettarla per quella che era, perché apparteneva alla vita di suo figlio.
Ne prese alcuni e si appoggiò al davanzale della finestra per avere tutta la luce del mattino sempre più luminosa e calda.
Li aprì, osservò. Si soffermò a lungo su ogni singolo scatto, su ogni singolo sguardo o gesto.
Chissà se Yuzo si era mai accorto di come Mamoru cercasse costantemente il contatto fisico con lui. In ogni foto in cui erano insieme, il terzino o lo abbracciava o gli cingeva il collo o gli toccava la spalla, il braccio, la gamba, gli spettinava i capelli. Mamoru lo toccava, anche se in maniera discreta, sembrava quasi volesse inconsciamente sottolineare un senso di possesso, proprietà.
Lui è mio.
Mentre Yuzo… eh, Yuzo. Il suo sguardo non poteva mentirgli in nessun modo, ormai. Troppo evidente per lui che era suo padre. Baiko sospirò.
«Io non avevo mai capito niente di te. Mai. Ti ho proprio messo a dura prova.»
Stranamente, nonostante all’inizio la sola idea l’avesse spaventato a morte, in quel momento fu un sorriso quello che gli tese le labbra. Un sorriso comprensivo, di affetto. Paterno.
«Non ho mai pensato che potessi essere omosessuale. Sul serio. Tua madre dovrà rassegnarsi al fatto che non diventerà mai nonna, e anche io.» Inspirò a fondo, sollevando il capo per appoggiarlo contro il muro. Il soffitto entrò nel suo raggio visivo. «Ci pensi? Sarai l’ultimo Morisaki di questo ramo della famiglia, è una grande responsabilità, dovrai chiudere in bellezza.» Rise sottilmente, tornando a guardare la fotografie. Chissà se Mamoru lo sapeva. A una prima occhiata sembravano entrambi all’oscuro dei sentimenti dell’altro. «E’ normale che mi disprezzi così tanto, allora» concluse, richiudendo l’album.
Fu nel rimetterlo a posto che una fotografia cadde dall’ultima pagina. Baiko la raccolse per posarla, ma girando le pagine  dall’inizio alla fine si accorse che non c’era nessuno spazio vuoto. Forse era stata messa dietro un’altra foto.
L’uomo la girò e riconobbe sé stesso, un piccolo Yuzo e un castello di sabbia. Nessuno dei due stava guardando in camera, troppo presi da quello che stavano facendo, da quello che insieme stavano costruendo. Doveva avergliela scattata Haruko di nascosto perché non la ricordava affatto.
Un frammento di memoria in cui erano stati felici.
Gli parve d’aver trovato un tesoro inestimabile.
«L'hai... conservata per tutto questo tempo?» anche Yuzo, ben prima di lui, aveva tentato di tenere stretto ciò che restava di 'loro', per non perderlo del tutto. Adesso stava a lui continuare a lottare e a tener vivo il ricordo affinché un giorno avessero potuto finalmente condividerlo, insieme, nello stesso attimo. «Questa finisce in cornice» decretò, preda dell’entusiasmo. Rapidamente lasciò la stanza e scese in fretta le scale per recuperare un portaritratti. Ricordava di averne uno nello studio che sembrava proprio fare al caso suo.
Afferrò la maniglia…
Senza pensare, troppo felice.
…fece scorrere l’anta.
La penombra delle tende chiuse, l’odore della polvere da sparo paradossalmente ancora sospesa nell’aria, il sangue rappreso, le armi che incombevano ovunque.
Ti odio.
Il rumore dello sparo.
Baiko si bloccò, preda di un terrore che gli gelò i piedi, le caviglie, le ginocchia. Rivisse la scena in una sequenza folgorante. L’entusiasmo sciolto nell’acido, il sorriso annientato, la sicurezza che si sgretolava come sabbia essiccata dal sole. E panico.
Panico ovunque, sotto la pelle, dentro i suoi occhi, nei globuli rossi, nei rantoli d’aria che cercava di far entrare nei polmoni.
Richiuse lentissimamente quella porta girandole le spalle. Vi si appoggiò contro e poi scivolò piano fino a sedersi al suolo. D’improvviso si rese conto che quella stanza era divenuta anche per lui l’antro dell’orco, sconosciuta. E gli faceva paura.
Inspirò, la testa cercò sostegno nella mano e una consapevolezza si fece spazio nel diradarsi del panico: per ogni passo avanti che faceva, un muro si ergeva a sbarrargli la strada.

 

“And the tears come streaming down your face /
E le lacrime scendono sul tuo viso.
When you lose something you can't replace /
Quando perdi qualcosa che non puoi sostituire,
when you love someone but it goes to waste /
quando ami qualcuno ma va tutto sprecato,
could it be worse? /
potrebbe andare peggio?

ColdplayFix you

 


[1]: citazione da ‘La Grande Trilogia del Mare, Ai Confini della Terra – Libro I: Riti di passaggio, Capitolo GAMMA’. :3 i miei amori cosmici.

[2]: il significato del nome ‘Baiko’ è ‘fiore di pruno’. I giapponesi ne ammirano la sua resistenza al freddo ed è quindi visto come un simbolo di perseveranza nell’affrontare le avversità. :3 Un’altra piccola cosa che padre e figlio hanno in comune.

[3]: è la divisa della Shimizu S-Pulse della stagione corrente, 2010-2011. :3 (Dopo un inizio di campionato turbolento a causa dello tsunami, finalmente i bambini stanno recuperando ç_ç. Ancora un pochino e recuperano addirittura il Jubilo! Speriamo! *_* Nel frattempo, sorpresona: i Marinos sono secondi in classifica!!! YAY! *-*)

[4]: XD essendo un pubblicitario, ci voleva la citazione ‘spottosa’! ‘Mitsubishi mi stupisci’ era la battuta di un vecchissimo spot XD che dovete assssssolutamente vedere: *clicca qui*


 

Le canzoni del capitolo:

- Changes (David Bowie): non era in programma, lo giuro solennemente. Il problema è che mi sono ritrovata con una canzone mancante e ho praticamente passato giorni interi a cercare quella più adatta. Poi alla fine mi sono detta: “Ma andiamo a pescare qualcosa da Bowie”. XD Ed ecco ‘Changes’. Bowie ha sempre la soluzione a tutto! X3 Ho scelto quel video perché… *-* trovo che Bowie sia fighissimo lì! *squee*

- Thursday’s Child (David Bowie): a differenza di ‘Changes’, questa era perfettamente in programma. :3
E’ bellissima, e il testo mi piaceva molto perché si avvicinava tantissimo a Yuzo e al suo modo di sentirsi fuori luogo con suo padre, di aver lottato per cercare di non essere invisibile ai suoi occhi, fallendo. Mentre con Mamoru le cose sono diverse, perché lui è l’unica persona con cui si è sempre sentito perfetto così com’era.

- Road to nowhere (Talking Heads): questa canzone l’ho scoperta per caso, mentre guardavo uno spot e me  ne sono innamorata all’istante, tanto da andarmela a cercare. *-* Fortuna ha voluto che non solo il testo fosse perfetto, ma che anche la musica mettesse una carica addosso da calzare a pennello a Baiko durante la sua corsa. Asoltatela, ne vale davvero la pena! *_*

-  Fix you (Coldplay): ammetto che non sono una delle mie band preferite e tra le canzoni che più apprezzo non c’è “Fix you”, però è innegabile che ci stesse bene per questo momento XD.

 

Incredibile ma vero, anche per questo capitolo è tutto!
Ringrazio di cuore chi continua a seguire questa storia, ormai siamo a pochi passi dalla conclusione. :)
Forse il capitolo 11 non arriverà puntuale lunedì prossimo, perché è ancora in fase di stesura, ma di sicuro arriverà nel corso della settimana :D
Il countdown continua: -2! :D

   
 
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: Melanto