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Autore: Shadeyes    14/07/2011    2 recensioni
Il terzo capitolo di questa long-fic, assieme all'extra "Angelo Bianco", si è classificato secondo al "Love Canon Contest", indetto da sweetPotterina sul forum di EFP.
Vincitore del premio Cuore, per la storia d'amore più bella, e del premio Lacrima, per la storia più commovente.

Fiction dedicata a Carlisle ed Esme, una delle coppie più romantiche di Twilight.
Non vuole raccontare nulla più che la verità. Pochi, intensi capitoli sulla storia del loro amore travagliato, dal punto di vista di Esme.
Spero di riuscire ad emozionarvi :)
Alzai lo sguardo, scrutai in quelle iridi color miele e con sgomento vi trovai un dolore represso, un sentimento che non sarei mai riuscita ad attribuirgli.
Cancellai dalla mia mente ogni cosa, ogni pensiero razionale che avrebbe potuto frenarmi.
Mi sollevai sulle punte dei piedi e poggiai le mie labbra sulle sue.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Esme Cullen
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Missing Memories'
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Carlisle and Esme









Missing Memories









Passato I









«Dunque, stasera a cena avrete l’ambito capitano Charles Evenson! Tuo padre deve avere amicizie davvero influenti per offrirti un’opportunità simile…».
Bernice continuava a parlare, mentre la mia attenzione si concentrava su diversi particolari del parco che stavamo attraversando.
Fine aprile era un periodo meraviglioso per farsi una passeggiata tra le querce centenarie del centro di Columbus. Certo, la strada che percorrevo ogni giorno da casa al mercato e ritorno si allungava, ma nulla era mai troppo per gustarsi un po’ di splendida, semplice natura.
Ricordavo che da piccola mia madre mi portava spesso in quel posto. Si sedeva sul prato fresco e tirava fuori uno dei suoi libri preferiti con la copertina logora dal tempo. Il suo lungo vestito si apriva in uno splendido ventaglio, rendendola molto più graziosa di quello che già non sembrava, e io, da bimba, sognavo un giorno di poter essere come lei e di poter indossare quegli stessi, incantevoli abiti.
In quel momento ne portavo uno simile, ma ancora dovevo riconoscere di non apparire come la donna che tanto ammiravo.
«Esme, mi ascolti o no?», mi riprese Bernice, infastidita dalla mia mancanza di educazione.
Con lei, d’altronde, potevo permettermelo… Eravamo cresciute assieme.
«Sì… certo.», mentii.
Mi guardò storto.
«No», sospirai.
Scosse la testa in un misto di espressione tra il divertito e l’esasperato, poi tornò a fissarmi.
«Ti ho chiesto quando avverranno le nozze».
«Nozze? Di chi?», chiesi sorpresa.
«Le tue, ovviamente!». 
Roteai gli occhi, stufa di sentir parlare di quell’argomento.
Erano due anni ormai che non la smettevano di assillarmi con quella storia. Evidentemente, non era solo la mia famiglia a volermi vedere maritata.
«Sposarmi, io? Suvvia, Bernice, ho sedici anni!», le risposi quasi disgustata.
«Appunto! Hai sedici anni… se aspetti ancora un po’, nessun uomo che si rispetti ti vorrà più come moglie.», cercò di rammentarmi.
Anche quello me lo dicevano sempre tutti. Nemmeno fossi una zitella trentenne!
Sbuffai.
«Io… io mi sento ancora troppo… immatura per compiere un passo così importante.»
Ed era vero.
Il capitano Evenson era un uomo di tutto rispetto, garbato e di bella presenza, ma non era ciò che realmente desideravo.
Io sognavo l’amore, l’intesa, la passione… Tutte qualità che alla presenza di Charles tendevano a nascondersi.
«Immatura? Dammi ascolto, se fossi in te non mi lascerei sfuggire un partito del genere! Dovresti ringraziare Dio per la fortuna che hai avuto invece di startene lì a ciondolare come una bambina troppo cresciuta…».
Bernice era sempre molto delicata.
Sospirai di nuovo.
«Forse hai ragione…», le concessi.
«Ma certo», mi sorrise.
In fondo, anche lei era rimasta un po’ bambina, proprio come me.
Camminammo in silenzio per un po’, ascoltando solo il rumore dei nostri passi sulla ghiaia.
«E tu?», le chiesi d’improvviso.
«Io?»
«Sì, tuo padre chi sta invitando a casa ultimamente?».
Anche se l’argomento matrimonio non mi elettrizzava granché, ero davvero curiosa di sapere a chi fosse toccata in moglie la mia esuberante amica.
«Oh… beh, il panettiere mi fa il filo», la vidi arrossire.
«Il signor Collins? Stai scherzando?», le domandai stupita.
Sì, era un bell’uomo e anche simpatico, aggiungerei, ma quarant’anni li portava tutti.
«Quale sarebbe il problema, scusa? È un tenerone! Pensa che ogni domenica fa recapitare alla mia residenza un mazzo di rose blu…», s’interruppe, sognante. «Dice che gli ricordano tanto i miei occhi!».
Scrollai le spalle. Che potevo fare se non essere felice per lei? Chi ero io per criticarla, dopotutto?
Bernice sussultò quando due bambini le corsero a fianco, urtandola e facendole rovesciare il cesto del mercato per metà.
«Ah, dannati bambini… Guardate che avete combinato!», li sgridò.
Erano proprio piccoli, non più di nove anni.
«Ci… ci dispiace, signora», mormorò uno quasi in lacrime.
«Anche a me! Ora come faccio a tornare a casa con la frutta tutta ammaccata?», gridò ancora.
Bernice riusciva davvero ad essere insopportabile quando si irritava per qualcosa… E a me iniziava a dare tremendamente fastidio il suo modo di ingigantire le cose.
«Dai, Bernice, sono solo bambini. Le arance sono buone comunque…».
La sentii grugnire mentre rimetteva tutto nel cesto.
Io mi voltai verso i due piccoli e gli sorrisi.
«Fate più attenzione la prossima volta».
«Sì, signora…», risposero all’unisono.
«Ehi, non è successo niente, su. Non c’è bisogno di piangere…», consolai quello che mi parve il più piccolo.
«No… io non piango perché l’altra signora mi ha sgridato, ma perché il mio aquilone si è incastrato tra i rami di quell’albero e non siamo riusciti a tirarlo giù…», confessò in lacrime.
«Cercavamo aiuto…», mi spiegò l’altro.
Mi voltai ed effettivamente vidi qualcosa di rosso tra le foglie di una quercia lì vicino.
«Va bene, andiamo a vedere…», gli promisi prendendoli per mano.
«Esme, che diavolo vuoi fare?», intervenne Bernice.
«Aiutarli».
«Grazie, gentile signora!», dissero loro.
La sentii sbuffare, ma mi seguì ugualmente.
«Ditemi, dov’è la vostra mamma? Non sarete rimasti tutti soli qui al parco, vero?», chiese di nuovo, stavolta ai due bambini.
«Oh, no, signora… Nostro padre ci ha accompagnati qui ed è solo andato fino dal tabaccaio a prendere i sigari».
A me quella spiegazione bastava.
Arrivammo sotto un’alta quercia, alzai lo sguardo e lo vidi impigliato tra un ammasso di foglie. Da quell’angolazione non sembrava danneggiato, una volta tirato giù sarebbe stato ancora un perfetto aquilone.
Capivo perché quel bambino vi era affezionato. Non li avevo mai visti di una fattezza così pregiata.
Mi guardai intorno, poi tornai a fissare in alto.
«Aspettate qui», dissi.
Mi piegai per fare un nodo appena sotto il ginocchio all’ingombrante gonna, in modo che non mi intralciasse, poi calciai via gli stivaletti e mi avvicinai al tronco. Avevo già adocchiato il primo ramo raggiungibile.
«Che vuoi fare, Esme? Sei pazza!», mi urlò Bernice nel tentativo di dissuadermi.
«Tranquilla. Ricordi quando ci arrampicavamo sull’albero di casa mia?».
«Sì, ma era molto più basso e… Insomma, era diverso!».
«A me non sembra…», ribattei e con una lieve spinta avevo già i piedi sulla prima fronda.
Rimasi immobile per qualche attimo, studiando il prossimo passo. Non appena lo intravidi, mi aggrappai saldamente con le mani e mi tirai su.
Accidenti, era davvero alta quella quercia!
In equilibrio, alzai la testa e lo vidi ormai a poca distanza. Serviva solo salire ancora un po’.
A sinistra, un ramo faceva al caso mio, quindi mi allungai con il braccio, ma lo sfioravo solamente, allora feci una cosa che reputai io stessa sconsiderata e mi lanciai.
Riuscii a tenermi piuttosto bene, ma avevo entrambe le gambe penzoloni e le foglie da quella stessa parte si mossero in un fastidioso fruscio.
«Esme!», sussultò Bernice.
«Sto bene…», le urlai di rimando, poi feci uno sforzo e tornai cavalcioni. Piano, riuscii a rimettermi in piedi.
Ora constatai che bastava distendersi un poco e sarei riuscita a districare l’aquilone. Lo feci, allungando il braccio più che potevo, poi mi issai sulle punte e finalmente riuscii ad afferrarlo.
Lo tirai da una parte cercando di non rovinarlo, ma uno dei rami più piccoli s’era proprio incastrato tra l’attaccatura del legno e il telo, così fui costretta a tirare dall’altra parte.
Abbracciai più saldamente il tronco e mi sporsi a destra. Ero quasi riuscita a districarlo, bastava un altro piccolo sforzo, quello che non avrei mai dovuto fare.
Ricordo solo che urlai quando mi sentii scivolare, poi le immagini scomparvero e tutto divenne buio. Non sentii nulla, davvero. Solo fruscii e un sonoro tonfo, poi probabilmente svenni.


«Non ha battuto la testa, abbiamo già fatto tutti i controlli. Aspettiamo che si risvegli, poi la portiamo in sala operatoria».
«In sala operatoria? È così grave?».
«No, signora, non vi allarmate. Normalmente avremo ingessato, ma il femore ha bisogno di un sostegno per saldare la frattura… Ci vorrà un po’, ma vi posso assicurare che sua figlia non subirà nessun danno permanente».
La voce di mia madre si mischiava a quella di uno sconosciuto dal tono gentile. Percepivo la preoccupazione e una vena di tensione nell’aria, ma mi sentivo intontita, inconsapevole di tutto.
Grugnii qualcosa per far sentire la mia presenza.
«Bambina mia…».
Aprii la bocca, ma non riuscii a parlare.
La paura di aver perso il controllo mi sovrastò. Non sapevo dov’ero né perché mia madre fosse così agitata.
D’istinto, tentai di mettermi a sedere, ma un dolore atroce mi obbligò ad abbandonare quell’idea.
Non riuscii nemmeno ad urlare, ma boccheggiai come se fossi stata sott’acqua.
«Non ti muovere», mi sentii dire dalla stessa voce di prima. Mi fece venire in mente il caramello.
«La sala operatoria è pronta, dottor Cullen».
«Bene. Fate firmare il consenso per l’anestesia ai genitori e procediamo».
Il lettino su cui ero sdraiata iniziò a muoversi ed immaginai fosse un pavimento piastrellato quello che stavo attraversando perché le rotelle continuavano a prendere piccoli sobbalzi fastidiosi.
Quando udii l’ultima porta sbattere, il lettino si fermò e la stessa voce mi parlò dopo qualche minuto.
«Fai sì con la testa se mi senti», mi ordinò.
Feci come mi aveva detto, ma non ero certa di esserci riuscita.
«Ti ha fatto male muoverla?», chiese.
Trassi un profondo respiro: «No…». Non sembravo nemmeno io talmente la mia voce era flebile. «Che… che è successo?», sentii il bisogno di chiedere, ma nessuno mi rispose. Caddi in un sonno profondo e mi sorpresi a sperare che fosse permanente.


La prima cosa che udii fu una calda, dolce risata. Avevo sognato quella voce.
«Non saprei dire se d’ora in poi odierai gli aquiloni o gli alberi…», scherzò.
Solo in quel momento fui in grado di aprire gli occhi, ma ciò che vidi non era neanche lontanamente paragonabile alla bellezza del parco di Columbus.
Non avrei potuto svegliarmi in modo migliore.
«Fino a domani potresti provare un senso di smarrimento. Ti sei procurata una bella frattura alla gamba, ma non devi preoccuparti. Sei giovane, ti rimetterai prima del previsto».
Sì, solo ora mi tornavano in mente delle immagini familiari: Bernice, del rosso, un tronco massiccio…
«Prova a parlare».
Quello era l’uomo più bello che io avessi mai visto. Il suoi occhi, così particolarmente ambrati da sembrare quasi oro liquido, fissavano i miei con un’espressione cordiale, di riverente comprensione, e il sorriso stampato su un volto scultoreo.
Non potei che attribuire a lui quella voce così deliziosa che si era impressa nella mia mente dal primo momento che l’avevo sentita.
«Chi siete?», mi sforzai di domandargli. Il tono era molto basso, ma pareva già più simile al normale.
«Mi chiamo Carlisle, sono il dottore che ti ha operato».
Carlisle. Chiaro, un uomo così distinto non poteva che essere portatore di un nome altrettanto nobile.
«Grazie», dissi e mi costrinsi a muovere la mano.
Lentamente, riuscii ad appoggiarla sulla sua ed ebbi la piacevole sorpresa di essere pervasa da un brivido fresco e inaspettato. Avrei chiuso gli occhi nel tentativo di assaporare al meglio quell’attimo, se solo non avessi avuto il timore di perdere anche solo un istante di quell’immagine così sublime.
«Non ringraziarmi…», mi disse. «È stato un onore che non avrei lasciato a nessun altro medico quello di prendermi cura di una ragazza di cuore come voi».
Le sue parole mi riempirono di una gioia immensa, una felicità che non ebbi modo di esprimere.
La sua mano si ritrasse dalla mia.
«Le infermiere ti riporteranno in camera. Sarete contenta di sapere che il vostro promesso, il capitano Evenson, è accorso qui in ospedale non appena ha saputo dell’incidente».
Due donne mi si avvicinarono e spinsero il lettino verso la porta della sala operatoria.
«Buona fortuna, Esme».
Pronunciò quelle ultime parole come se non avrei più avuto modo di rivederlo, ma in cuor mio sapevo che avrei fatto di tutto per potermi un giorno presentare davanti a lui sulle mie gambe, per sentirgli ripetere il mio nome, per provare di nuovo quella straordinaria, ignota sensazione.





Rosa blu










Allora, mie care lettrici, vi è piaciuto questo secondo capitolo tratto dal passato? :)
Come avrete capito, la storia sarà costituita da una prima parte, ossia il capitolo scorso, una serie di cinque o sei capitoli tratti dal passato, e, infine, una seconda (e ultima) parte che farà da conclusione ^^  Lo so, sono complicata... Pensate che in Infantility sto scrivendo una storia nella storia! xD  Un po' da sbatterci la testa, ma sembra che piaccia, per cui proseguo così ^^ Comunque, stavo pensando di scrivere più avanti un capitolo aggiuntivo di questa fanfiction... A parte, però, come one-shot, perché anche chi non avrà seguito questa sarà in grado di leggerla :) So già più o meno cosa ci scriverò, ma non vi svelo niente per ora :P  Perfida me v.v
Bene, abbiamo visto entrare in scena il nostro caro dottore xD  Non vi ho fatto aspettare troppo, visto? :)  Spero di aver rispettato il suo carattere ^^'
Per il prossimo capitolo, che pubblicherò molto presto, vi sto riservando qualcosa di interessante xD  Ma... non vi anticipo niente nemmeno qui xD
Ringrazio le mie carissime recensitrici e i lettori silenziosi ^^
Un bacio!


Ne approfitto per ricordarvi l'altra mia long-fic su Twilight.


Infantility
Fiction molto dura, ambientata durante le vicende di Eclipse e, in seguito, di Breaking Dawn. Non si tratta della solita storia sdolcinata, piena di amore e problemi di coppia. No, questa storia vuole ritrarre qualcosa di doloroso, di cupo e drammatico. Qualcosa di immutabile. Qualcosa che la Meyer ha giusto accennato e qualcosa di cui molti di noi si sono dimenticati.
Ci sarà passione, delusione, gelosia, rabbia e malinconia. Ci saranno lacrime, ferite, ricordi dolorosi, tradimenti.
E ci sarà lei, l’innocenza e la morte. La piccola, dolce, spietata Meredith.
Certe cose sono fatte per andare e venire, il tempo è fatto per essere passato, presente e futuro, altrimenti nulla avrebbe più davvero senso. Ma la verità è che il cambiamento era un privilegio che ci era negato e vivere iniziava a perdere di significato.
Ecco perché ci trovavamo sul tetto di un palazzo, quella notte. Stavamo dando un senso a ciò che eravamo.
Questa fanfiction si preoccupa di sensibilizzare il lettore, in maniera metaforica, sugli aspetti di una rara malattia psicosomatica: l’infantilismo.



In realtà, ne ho scritta un'altra di fanfiction su Twilight. ^^'  Sarebbe una one-shot, descrive la prima notte d'amore di Edward e Bella. Dico subito che è una storia che ho scritto molto tempo fa, andrebbe assolutamente rivisitata e corretta... E poi, sarò sincera, a descrivere certe scene proprio non sono capace xD  Se volete farci un salto, giusto per farvi due risate, cliccate su La mia prima volta. Spero non vi deluda troppo ^^'





Hilary




   
 
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