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Autore: Melanto    18/07/2011    7 recensioni
«Noi non ci troveremmo mai, nemmeno se ci cercassimo per cent’anni. Anche quando siamo l’uno di fronte all’altro: ci guardiamo, ma non ci riconosciamo.»
E Yuzo e suo padre hanno smesso di cercarsi.
Si sono persi negli anni, negli obiettivi opposti, nelle spalle girate e nelle porte chiuse. Nelle strade dritte e concrete della famiglia Morisaki, mentre quelle di Yuzo inseguono le linee curve di un pallone; una scelta che suo padre non è disposto ad accettare.
Ma la guerra è fatta di vittime, e mentre si tenta di rimettere insieme i cocci delle certezze in frantumi, ognuno cercherà anche quello che ha perso.
...perché anche le cose perdute si trovano, basta solo saperle cercare.
[lo Shonen-ai è un elemento marginale]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo sonno della Lucciola
- Part XI: The (1)Oni’s fall -

 

“Anda ya /
Vai ora,
(ten cuidao’) /
(stai attento)
y no me digas que no puedes más /
e non dirmi che non puoi più.
(relaja) /
(rilassati)
 Mentira /
Menti.
Anda /
Vai,
(ten cuidao’) /
(stai attento)
que no te toque la fatalidad /
che non ti tocchi il destino.
(relaja) /
(rilassati)
Camina /
Cammina.

 

«Bene. Arriva sempre nella vita di ogni uomo il momento in cui bisogna affrontare anche te» Baiko aveva le mani ai fianchi e il tono solenne. «Confido che andremo d’accordo, siamo entrambi adulti e troveremo un modo per venirci incontro. Io non ti vorrei utilizzare, sia chiaro, ma è una necessità. Cerca di capirmi: devo fare il bucato!»
L’oblò della lavatrice lo guardava con condiscendenza, come si fa con i pazzi.
Baiko sospirò; di fianco, i panni abbandonati nella cesta sembravano supplicarlo di lasciarli sporchi, ma lui, ormai, era deciso. Anche quello era un modo per vivere la propria casa; le mura della lavanderia avrebbero registrato in maniera invisibile le lotte con la lavatrice.
Senza indugiare oltre, l’uomo si inginocchiò, iniziando a infilare gli abiti nel cestello.
Il tempo era passato così velocemente, tra le cose da fare, che gli era sembrato fosse trascorsa una vita intera, e invece non erano che nove giorni da che Yuzo era entrato in coma. Baiko li segnava sul calendario per non perdere il contatto con la realtà e vivere il più possibile tutte le ventiquattro ore di ogni singolo giorno. Trascorreva buona parte del tempo nella stanza del figlio, sia quella di casa che dell’ospedale, vivendo tra le sue cose, la sua musica, i suoi libri. Ascoltava quotidianamente più CD diversi e aveva fatto in modo che la corsa mattutina per vedere l’alba divenisse anche una sua abitudine, aveva studiato percorsi alternativi che avrebbe mostrato a Yuzo e aveva iniziato a conoscere di più Nankatsu.
Al pomeriggio si presentava all’ospedale un minuto prima ogni giorno, per riuscire a incontrare Haruko e poter scambiare con lei almeno due parole, dimostrandole in quel modo di non essere disposto ad arrendersi. Certo, non era semplice perché lei restava sempre sulle sue, ma nemmeno lo allontanava con disprezzo. Poteva essere un buon compromesso da cui partire.
Baiko richiuse con forza l’oblò che, sulle prime, non aveva voluto saperne.
Forse l’aveva riempita troppo? Si era domandato in un guizzo riflessivo, ma poi aveva agitato una mano riuscendo a vincere la reticenza dello sportello.
«Naaaa!»
Lì accanto c’erano flaconi e scatole di tutti i tipi: per i capi bianchi, per i colorati, per i neri. Diede un’occhiata attraverso il vetro per valutare, effettivamente, cosa avesse messo dentro la lavatrice: c’era un po’ di tutto e allora tanto valeva fare un mix anche dei detersivi; che male avrebbero potuto fare? Aprì le varie confezioni versando mezzo misurino di ciascuno.
«Ammorbidente?» Si strinse nelle spalle. «Massì, melius abundare quam deficere!» e via, anche mezzo tappo di ammorbidente nella mischia di colori e profumi. Richiuse il tutto e poi rimase a fissare tasti e manopole. Oh, beh, quella era un po’ la parte facile: bastava premere a caso, qualcosa avrebbe finito con l’accendersi, prima o poi. Con disinvoltura pigiò ora questo, ora quel bottone, girando le manopole ‘a intuito’.
«Uno-due-tre… e questo a che serve? Boh, mettiamolo al massimo. E questo? 600… 800… sarà la potenza. E quest’altra? Ma non bastava una sola per tutto?! Perché non li fanno un po’ più semplici questi affari? Che so, a prova di maschio?! 30… 90… ah, sì! La temperatura. Mh, trenta è troppo basso, ma novanta è troppo alto… in medio stat virtus. Santi latini, hanno sempre una soluzione a tutto.» Scelse sessanta gradi e non se ne parlò più.
La lavatrice cominciò a rullare e poi il fruscio dell’acqua gli disse che stava caricando.
Baiko incrociò le braccia al petto. Si sentiva soddisfatto.
«Oh, tutto qui? E io che pensavo fosse più difficile!» caricare una lavatrice non era poi l’impresa titanica che aveva sempre creduto. Annuì con convinzione e lasciò la lavanderia, per dirigersi in cucina dove avrebbe iniziato a pensare a cosa avrebbe potuto cucinare per pranzo. Da che aveva scoperto che su YouTube si potevano trovare anche i video di ricette, gli incidenti in cucina – pasti che prendevano fuoco, condimenti eccessivi – si erano ridotti ai minimi storici. Certo, aveva ancora qualche problema con i coltelli, ma insomma, se andava piano piano riusciva anche a non affettarsi le dita. Quel giorno si era messo in testa di voler tentare le okonomiyaki. A Yuzo piacevano tanto e lui avrebbe potuto cucinargliele una volta. Di sicuro, suo figlio sapeva farle meglio di lui, anche perché a quanto pareva era molto più autosufficiente. L’aveva scoperto guardando le famose fotografie; ne aveva trovata una dove, assieme al colosso – Shingo? Sì, Shingo –, l’aveva visto impegnato ai fornelli e, a giudicare dall’aspetto, quello che avevano preparato doveva essere anche ottimo. Mentre di sé si era reso conto di essere più incapace di quello che dava a vedere. Doveva rimediare.
Seduto al tavolo, Baiko sgranocchiava grissini mentre guardava video su video, annotava gli ingredienti che gli sarebbero serviti e si domandava perché diavolo, fatto dagli altri, sembrava sempre tutto così semplice.
Forse perché lo era.
Ogni cosa era semplice, anche se a lui appariva complessa come un cubo di Rubik. Il tutto stava nel modo in cui ci si poneva per affrontarla, per viverla. Non esistevano scelte difficili, anzi, non c’era niente di più facile che scegliere. Era dire ‘sì/no’, era dire ‘lo faccio/non lo faccio’, era dire ‘questo/quello’. Di davvero difficile, c’erano le conseguenze, perché potevano portare gioia, ma anche dolore e paura. Paura di sbagliare e trovarsi a soffrire come un cane, ad esempio. Ma era pur vero che se non si sceglieva, non si poteva nemmeno dire di vivere, perché la vita era una scelta quotidiana.
E lui? Aveva altro da scegliere?
Mentre guardava mani agili ed esperte rigirare una bella okonomiyaki che sfrigolava sulla piastra, Baiko non seppe rispondersi. Era convinto di aver ormai preso tutte le decisioni importanti della sua vita, non gli restava altro da fare che continuare a passare attraverso le conseguenze, qualunque esse sarebbero state, da lì in avanti.
Baiko sospirò, guardando il video successivo. Usavano tutti metodi differenti e lui cercava quello più adatto al suo livello di ‘principiante’. Stiracchiò le braccia e allungò le gambe sotto al tavolo che fecero uno strano ‘sploch’ appena toccarono di nuovo terra. E cos’era quella cosa in cui aveva appena affondato i piedi?
Spalancò gli occhi, aggrappandosi al tavolo e restando per un attimo immobile. Tastò adagio un altro paio di volte. Puff, sploch, sploch.
La testa saettò sotto al ripiano e quella enorme, strisciante, mostruosa e morbida massa di schiuma si avvicinava sempre di più, minacciosa. Si gonfiava, cresceva bolla dopo bolla.
Baiko balzò in piedi, rischiando di scivolare sull’acqua saponata che ormai si era infilata in buona parte della cucina. La schiuma la seguiva più lentamente. Con gli occhi cercò di capire da dove venisse, ma la risposta era chiara: dalla lavanderia.
«La lavatrice!» sbottò, girando attorno al tavolo senza perdere tempo. La suola della ciabatta prese il volo sull’effetto acqua-soap-planning e lui per un pelo non si ritrovò spalmato a terra, ma aggrappato allo stipite della porta. La ciabatta era stata fagocitata dalla schiuma, più avanti, che adesso gli arrivava al ginocchio.
«Bastarda! Maledetta bastarda!» ringhiò, tentando di farsi largo e camminando su un piede solo. «Avevamo un accordo, noi due! Giuro che ti spacco quel fottuto oblò! Te lo spacco in mille pezzi!»
In quel momento, con la schiuma che gli si era appiccicata ai vestiti, alle braccia e pure ai capelli – non si domandò nemmeno per un attimo come diavolo avesse fatto a volare fin lì – il citofono trillò, bloccandolo a metà del corridoio a cavallo tra il desiderio di ignorare chiunque lo stesse cercando e fuggire da quel mostro che sembrava uscito da ‘Blob – il fluido che uccide’(2).
Optò per la seconda ipotesi, ma in misura meno drastica. Recuperando una sorta di contegno, si precipitò, saltellando sull’unica ciabatta rimastagli, fino alla porta. L’aprì di uno spiraglio, facendo emergere giusto la testa, ripulita alla buona.
«Sì?»
«Baiko?»
«Ah! Papà!» - Oh. Merda. -
Kyoshi era fermo fuori dal cancelletto chiuso da dove lo guardava con un sopracciglio inarcato e l’aria dubbiosa. «Va tutto bene… figliolo…?»
Baiko mostrò un sorriso di plastica. «Sì! Tutto benissimo, papà. E tu?»
«Bene… ehm… mi apri?»
- Finito! Sono un uomo finito! - «…sssssì! Certo.»
Il meccanismo scattò in un attimo e Kyoshi entrò, avanzando lungo il vialetto. Sul volto aveva il solito sorriso cordiale che spuntava da sotto i baffi. Era passato per fargli un saluto ma, soprattutto, per provare a parlargli di Haruko. Da quando aveva scoperto che sua figlia voleva divorziare era rimasto spesso a osservarli, quando si trovavano insieme. A volte si illudeva che fosse tutto normale, e magari a occhi esterni tale sarebbe parso, ma lui sapeva che non era così. Eppure nessuno aveva più tirato in ballo l’argomento, almeno non con lui. Sapeva che non avrebbe dovuto intromettersi, ma non poteva restare a guardare mentre finivano con il distruggersi lentamente a vicenda. Haruko non lo odiava davvero, di questo era certo, così come era certo che Baiko non avrebbe mai smesso di amare sua figlia. Per questo, aveva deciso di provare a parlarne direttamente con lui. Solo che, una volta sulle scale, inarcò un sopracciglio nel vedere il genero che seguitava a restare solo con la testa oltre la porta, senza aprirla o farsi avanti.
«E allora, come mai da queste parti, papà?»
L’uomo si strinse nelle spalle, mantenendosi sul vago. «Passavo.»
Un silenzio imbarazzato cadde tra loro. Baiko non si mosse e Kyoshi tossicchiò.
«Ti ho… disturbato?»
«Sì! Cioè no!» il rumore della lavatrice diveniva sempre più gorgogliato e forte alle spalle dell'uomo più giovane. Quest’ultimo tirò il sorriso fino allo stremo sperando di riuscire a convincerlo. Per tutti gli Dei, non poteva fargli vedere il casino che aveva combinato, sarebbe stato troppo imbarazzante! «Stavo dedicandomi alle pulizie!»
«Ah, bene! Hai bisogno di aiuto?»
«No!» s’affrettò a rispondere, forse un po’ troppo bruscamente vista l’espressione perplessa che fece Kyoshi. «No, non ce n’è bisogno, papà. Non voglio farti stancare, con questo caldo poi…»
Ma quella bolla di sapone che volò oltre le loro teste lasciò entrambi in silenzio, di nuovo. Spuntò da dietro Baiko e fluttuò nell’aria per qualche momento prima di esplodere. Suocero e genero si guardarono a lungo.
«Stai… per caso facendo la lavatrice?» domandò il primo, il secondo tentò un’ultima volta di sorridere prima di capitolare definitivamente chinando il capo. Sputtanato in un attimo.
«Sì… e sta vincendo» affermò con mestizia.
Kyoshi rise. «Mi fai accomodare?»
Baiko aprì di più la porta, ma il suo corpo seguitava a coprire la visuale del corridoio, però i pezzi di schiuma che aveva attaccati al calcagno si videro benissimo.
«Non spaventarti, non sta succedendo la Terza Guerra Mondiale, anche se può dare quell’impressione.» Lentamente si spostò e il padre di Haruko sgranò gli occhi nel vedere l’enorme massa spumosa che continuava a gonfiarsi.
«Ossanti Numi!»
«La lavatrice è impazzita.»
«Lo vedo!»
Il padrone di casa si fece da parte per permettere all’uomo di entrare.
«Bisogna spegnerla subito!»
«E’ quello che stavo per fare… ma prima bisogna riuscire a guadare quella muraglia di sapone.»
Kyoshi ridacchiò, togliendosi le scarpe; i propositi di parlare di cose più importanti messi da parte, almeno per il momento. «Di’ la verità, è meglio lavorare in azienda che occuparsi delle faccende domestiche, vero?»
«Già» rise l’altro di rimando quando, d’improvviso, la smorfia allegra scivolò via dalle sue labbra. Baiko si fermò nel mezzo del corridoio. «…l’azienda…» boccheggiò, gli occhi che divenivano enormi. «…l’azienda!»
Il padre di Haruko avanzò di qualche altro passo, ma poi si fermò e lo guardò con perplessità. Quel momento di silenzio, tra loro, si dilatò in maniera infinita e l’unico rumore udibile fu solo quello della lavatrice impazzita e della schiuma che lievitava felice.
Poi. Esplose il panico.
«L’azienda! I clienti! La riunione!» Baiko sprofondò le mani nei capelli. «Oddio! Era per oggi! L’ho dimenticata! Ma come ho potuto?!»
L’espressione di Kyoshi era ancora più sgomenta, non sapeva se essere divertito dalla lavatrice o sconvolto perché Baiko, proprio Baiko, si era dimenticato di una riunione di lavoro. Nell’indecisione, scoppiò a ridere.
«Non preoccuparti della casa. Penso io alla lavatrice, tu vai a cambiarti.»
«Sì, papà! Grazie, papà!» corse, per quanto possibile e senza cadere, per arrivare alle scale. «Maddove ho la testa?! Shunsuke sarà una belva!» Si cambiò alla velocità della luce, pescando alla rinfusa un completo qualunque dall’armadio, calzini spaiati e cravatta che non riuscì ad annodare ma si avvolse disordinatamente attorno al collo a mo’ di foulard.
Nel frattempo, Kyoshi era riuscito a domare la lavatrice che aveva finito di fare il rodeo.
«Mi raccomando, va’ piano sulla strada» gli disse, quando lo vide scapicollarsi al piano di sotto, saltare la schiuma, afferrare le chiavi e infilarsi il primo paio di scarpe accanto alla porta che gli capitò sottomano. E la valigetta?! Dove l’aveva messa?!
«Ok, stai tranquillo. Te l’ho già detto grazie
«Sì, sì. Me lo hai detto. Buon lavoro.» Kyoshi aspettò che si richiudesse la porta alle spalle prima di ridacchiare. «Ma si sarà accorto di essersi messo le scarpe da ginnastica?»

 

“Dicen que los hombres no se miden por las veces que se caen sino por las que se levantan /
Si dice che gli uomini non si misurino per le volte che cadono, ma per quelle che si rialzano.
Tú no tengas miedo a aprender a comenzar otra vez aunque el hecho de hacerlo espanta /
Tu non hai paura di imparare a ricominciare un’altra volta, sebbene il farlo ti spaventi.
Viste escucha el dicho: en esta vida todo es sacrificio y tu misión es tu salvación /
Ascolta il detto: in questa vita tutto è sacrificio e la tua missione è la tua salvezza.

 

«Le scarpe da ginnasticaaaaah!»
Baiko lo ululò quando ormai era già sulla strada che portava a Shizuoka City.
«Ecco perché erano così comode!»
Le aveva indossate senza nemmeno accorgersene. Adesso sì che sarebbe sembrato un presidente credibile, come no.
Mentre scivolava nel poco traffico, perché ormai erano già tutti al lavoro a quell’ora, si mise a fare l’equilibrista: con una mano guidava, con l’altra cercava di infilare la camicia nei pantaloni, con un occhio guardava la strada e con l’altro si guardava nello specchietto per capire quale sarebbe dovuta essere la mossa successiva per rendersi presentabile. A complicare la situazione, il cellulare prese a suonare. Lui era passato al colletto della camicia e alla cravatta, sempre da annodare con una mano sola e con un lembo tra le labbra. Mollando il volante riuscì a prendere il telefono e a rispondere, tenendolo tra spalla e orecchio.
«Profto?»
«Presidente?!» il tono di Shunsuke gli fece capire che era a un passo da una crisi di nervi. «Ma dov’è?! Doveva essere qui un’ora fa! Gli acquirenti sono arrivati, la riunione doveva già essere cominciata!»
«Fto arrifando! Fono fulla ftrada! Foi inifiate!»
«Cosa?! La sento male, ma che è successo? Che devo dire ai clienti?!»
Baiko sputò il lembo di stoffa decidendo che l’avrebbe annodata una volta arrivato a destinazione.
«Digli che mi è impazzita la lavatrice!»
All’altro capo, Shunsuke divenne cinereo. «La… lavat-… Presidente? Presidente?!»
Ma Baiko aveva già riagganciato.

 

“Se que es difícil el paso no puedes perder. Detrás yo no te quiero ver /
So che è difficile, non puoi perdere il passo. Non voglio vederti indietro.
Camina, que te pasa? /
Cammina, che ti succede?

 

Percorse il tratto nel più breve tempo possibile con l’acceleratore costantemente a tavoletta, tanto che fu sicuro che, presto, gli sarebbe arrivato il più alto multone della storia. Magari anche con i complimenti della stradale.
Baiko inchiodò, parcheggiando davanti all’ingresso della ‘Golden Gun’ e occupando ben tre posti auto. Scese di corsa e non chiuse la macchina.
Aveva la cravatta ancora sciolta, la camicia in disordine e i capelli sconvolti. Per fortuna che erano corti.
Salì le scale che portavano all’ingresso dove il portiere dell’edificio lo guardò prima con severità e poi con due occhi tondi come biglie appena lo riconobbe.
«Ti spiacerebbe spostarla?» Baiko gli lanciò le chiavi.
L'interpellato non riuscì nemmeno a rispondergli e si limitò a guardarlo entrare in tutta fretta nell’edificio. Attraverso i vetri, lo vide letteralmente correre per l’atrio, farsi in scivolata l’ultimo tratto e fermare col piede le porte dell’ascensore. Scosse il capo, sbattendo le palpebre velocemente. No, quello doveva esserselo immaginato di sicuro. Dentro l’atrio, però, nessuno avrebbe dimenticato quel: «Fermaaaa!» belluino che, in confronto, ‘L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente’ sarebbe sembrato il vagito di un neonato. Ma, più di tutti, non l’avrebbe dimenticato l’addetto dell’ascensore che si era visto arrivare la sua figura in corsa quando ormai le porte si stavano già chiudendo. Così come non avrebbe dimenticato quella scarpa da ginnastica blu e arancione spuntata all’improvviso da sotto un completo di Ermenegildo Zegna.
E dell’aspetto del presidente che dire stravolto era fargli un complimento?
No, non avrebbe dimenticato neanche quello, così come nessuno, presente in quell’ascensore, avrebbe dimenticato i successivi momenti di pura irrealtà.
«Per un pelo!» sbuffò Baiko, una volta dentro. Esibì un sorriso smagliante che terrorizzò tutti, e tentò per l’ennesima volta di annodarsi la cravatta, alla cieca. «Scusate l’entrata poco ortodossa.»
«B-buongiorno, Presidente.»
«Buongiorno…»
«Buongiorno, signore.»
«Si… si figuri, signor Presidente…» tentennò l’usciere «A che piano la porto?»
«Al solito… mavvedi se questa maledetta-!» continuò a litigare con la cravatta sotto le occhiate perplesse dei dipendenti che non ebbero il coraggio di far volare una mosca. Baiko si guardò attorno, poi inarcò un sopracciglio, contrariato. «Certo che si potrebbe far mettere uno specchio qui dentro.»
«Sì, signore.»
«Certo, Presidente. »
«Ha ragione.»
«Assolutamente.»
Baiko sospirò. Rinunciò alla cravatta e la eclissò alla rinfusa nella tasca della giacca. L’orologio gli disse che aveva un'ora di ritardo. Non ne aveva mai fatto in tutta la sua vita lavorativa. Nemmeno una volta. E non aveva nemmeno letto la relazione che gli aveva preparato suo nipote, ignorava chi sarebbe stato presente e ignorava quale fosse l’ordine del giorno. Tamburellò nervosamente il piede al suolo, facendo un po’ mente locale: andava a una riunione impreparato, in ritardo, con le scarpe da ginnastica e senza cravatta. Un disastro.
Eppure, perché invece di arrabbiarsi stava… sorridendo?
Il ‘plin’ indicò il raggiungimento del piano. Le porte si aprirono e lui si defilò.
«Buona giornata» augurò. Cosa che non faceva mai.
«Grazie signore, altrettanto.»
«Grazie, signor Presidente.»
«Anche a lei…»
Baiko si volse un’ultima volta, facendoli restare sull’attenti e con i fiati trattenuti.
«Non c’è bisogno che siate così rigidi. Rilassatevi. Non mordo mica.»
Alle sue spalle, le porte si richiusero sulle facce sgomente dei poveri dipendenti che erano convinti di aver appena vissuto in un episodio de ‘Ai confini della realtà’.

 

“Yo lo presentí. Para ganar hay que saber /
Io lo presagivo. Per guadagnare devi sapere
por donde tienes que salir /
per dove devi uscire,
si tienes que moverte por casualidad /
se devi muoverti a caso.

 

Gli ultimi metri li percorse nemmeno stesse gareggiando per i cento metri piani.
Vedeva la porta della sala riunioni farsi sempre più vicina e non accennò a rallentare.
Fu anche per questo che entrò spalancando la porta e facendo sobbalzare i presenti. I clienti, tra cui anche il Ministro della Difesa e il Capo della Polizia, restavano seduti al tavolo ovale con le espressioni sorprese di chi non si sarebbe aspettato quell’ingresso di prepotenza. Shunsuke, invece, restava in piedi accanto al tabellone delle proiezioni dove stava spiegando le caratteristiche dei nuovi proiettili calibro nove che avrebbero lanciato sul mercato. Se di primo acchito il suo sguardo si era illuminato, dopo che l’aveva guardato meglio, aveva spalancato talmente tanto la bocca da farsi quasi cadere la mascella.
«Scusate il ritardo!» esclamò lui candidamente, riprendendo fiato e agitando una mano. «Prego, continuate. Non fate caso a me» come se fosse facile: in mezzo a tutti quei colletti inamidati e in perfetto ordine, tutti notarono le sue scarpe e quella coda di cravatta che spuntava dalla tasca.
Baiko richiuse piano piano la porta; con un cenno lasciò intendere a suo nipote di andare avanti, mentre lui raggiungeva il proprio posto all’estremità dell’ovale.
Il giovane tossicchiò e tentò di recuperare l’attenzione di tutti, riprendendo il filo del discorso.
«…e quindi, dicevamo, la testa rinforzata dei proiettili da nove millimetri…»
Baiko si sedette e iniziò a sfogliare la relazione di sintesi che tutti avevano davanti. Con fare distratto buttò un occhio a chi gli stava accanto per capire a che pagina erano arrivati quando il Ministro della Difesa, alla sua destra, si sporse parlando a voce bassa per non disturbare ulteriormente la riunione.
«Tutto bene, Presidente? Ti stavamo dando per disperso…»
Baiko cercò di sistemarsi alla meglio, ma tanto era irrecuperabile. «Ammetto di esser stato sulla buona strada.» Sorrise, riuscendo a pescare la pagina giusta. «Lo vuole un consiglio?» aggiunse, tastando alla cieca nelle tasche. Aveva dimenticato gli occhiali da vicino. Fanculo alla presbiopia!
Il Ministro Tada, nonostante avesse venti anni in più, si fece attento e interessato, il viso poggiato in una mano e gli occhi che saettavano di tanto in tanto verso Shunsuke.
«Non provi a fare una lavatrice senza la supervisione di chi ne sa più di lei: perché se penserà che riempirla come un uovo dimezzerà i tempi e che abbondare col detersivo pulirà meglio, si ritroverà la casa fagocitata da una massa di schiuma impazzita che le farà dimenticare di avere una riunione di lavoro e le farà mettere le scarpe da ginnastica sotto un completo scuro.»
Il Ministro tossì con forza per coprire la risata che gli esplose tra le labbra all’improvviso e che si attirò le occhiate fugaci delle altre teste di serie e quella rassegnata di Shunsuke, consapevole di stare parlando a vuoto.

 

“Síguelo, fatígate, suda, avanza, lucha, sacrifícate /
Inseguilo, stancati, suda, avanza, lotta, sacrificati.
Tu sabes que la vida es dura, pero si no te apuras la puedes perder /
Sai che la vita è dura, però se non ti affretti la puoi perdere.


L’aereo impiegò sei secondi circa per effettuare la virata e poi allontanarsi seguendo una linea retta.
O, almeno, lui tanti ne contò mentre restava a osservare come, fuori dalla finestra, il tempo continuasse a scorrere mentre lì dentro sembrava immobile, chiuso in trappola.
La sfera.
Era stato convinto di essersene liberato, d’aver spezzato la ciclicità della sua strada e invece sentiva di essere ancora bloccato in limiti chiusi dove il tempo si rincorreva nelle ore trascorse nelle parole di Shunsuke, nelle domande dei clienti, nei fogli che aveva girato meccanicamente, nel click-click della penna che aveva fatto scattare a vuoto infinite volte.
Non aveva ascoltato mezza parola, non ne era nemmeno interessato. Di sicuro l’aereo in virata era uno spettacolo più edificante.
Si stava annoiando.
Fino a una settimana prima non si sarebbe mai sognato di pensare una cosa simile. Era il suo lavoro, era imperdonabile che si distraesse così. Ma era imperdonabile anche l’essersi dimenticato di una riunione e l’essere arrivato in ritardo.
Tante cose erano imperdonabili, ma lui non poteva farci niente: si stava annoiando.
Percepiva il tempo, di fuori, che scorreva e quello che lui, dentro, rinchiuso, stava sprecando.
Abbassò per un attimo lo sguardo sugli istogrammi colorati che riempivano la pagina: si erano a mano a mano trasformati nello scorcio di una strada, palazzi, lampioni e un risciò portato a braccia. Sorrise. Non aveva più disegnato per anni ed era stato convinto d’aver perso la mano. Invece aveva scarabocchiato come se non avesse mai smesso di farlo, trovandosi a suo agio con la penna come fosse stata una micromina.
Gli occhi si spostarono sulla figura di suo nipote valutandone impegno e serietà. Per fortuna che c’era stato lui. Aveva fatto un lavoro perfetto, la relazione era precisa fin nei minimi dettagli, così come le slide che accompagnavano le sue spiegazioni. L’aveva caricato all’improvviso di responsabilità ed era stato impeccabile. A lui sì che piaceva quello che faceva.
Gli venne da sorridere.
- Almeno uno, in famiglia. -
Tornò a guardare gli istogrammi corredati di finestre che si perdevano nella prospettiva di un punto di fuga immaginario.
E a lui?
A lui faceva schifo.
Anche quello non l’aveva mai ammesso a voce alta, nonostante ne fosse sempre stato consapevole.
Quell’azienda era stata una maledizione per suo padre, per lui e per suo figlio. Un fardello enorme che nessuno dei tre aveva mai voluto. Ma lui, ormai, a cinquant’anni non poteva di certo uscire fuori dai binari e deragliare.
O virare?
Come l’aereo fuori dalla finestra. Curvare la linea, spezzare la sfera.
Strappò uno dei fogli della relazione dalla spirale. Il rumore sottile della carta attirò l’attenzione del Ministro Tada che, con perplessità, osservò i suoi movimenti.
Baiko ne ripiegò i lati con cura e attenzione fino a formare un triangolo, poi un altro, poi lo ripiegò a metà.
Di sfere in cui si era rinchiuso ce n’erano tante, come una matriosca, quella affettiva era solo una, la prima, quella più vicina alla sua persona, e ogni sfera racchiudeva un limite oltre cui non era mai andato. Ora era rimasta quella che lo separava dalla libertà vera e propria, definitiva. E non sembrava più così difficile mandarle in pezzi, anzi. Bastava fare una scelta, l’ultima davvero importante a essergli rimasta. Significava stravolgere tutto, terminare il progetto, significava ripiegare ancora la carta fino a renderla davvero un aereo. Un aeroplanino.
«E quindi, come potete vedere da quest’ultimo grafico, le prestazioni dei nostri mortai sono aumentate del venti per cento, pur mantenendo bassi i costi di produzione e vendita.» Shunsuke terminò la frase con soddisfazione, ma quando si volse e vide quell’aereo di carta completare un paio di volute nell’aria prima di precipitare al suolo in maniera elegante, non riuscì a fare altro che seguirlo con gli occhi.
Una volta alzato lo sguardo, scorse suo zio che sorrideva felice come un bambino cui avevano appena regalato il gioco più bello del secolo e a lui non rimase che esibire un tiratissimo sorriso di circostanza, mentre sentiva la vena sul collo pulsargli con insistenza.
«Domande?» Nessuno fiatò. «Bene, direi che possiamo chiudere qui per oggi e aggiornarci al mese prossimo per eventuali novità. Grazie per essere intervenuti.» Shunsuke si profuse in un rigido inchino mentre gli acquirenti si alzavano a propria volta per lasciare la sala.
«Un’ultima cosa, Presidente.» Isamu Tada si sporse verso Baiko, parlando in tono più basso. «Devo ammettere che oggi mi sei sembrato davvero diverso dal solito, ma se devo essere sincero, non t’avevo mai visto così bene.»
L’interpellato sorrise, accompagnando il politico alla porta.
«In effetti, non sono mai stato meglio.»
«Vedo, vedo»
«Shunsuke, accompagna i nostri ospiti all’uscita della ‘Golden Gun’. Così, nel tragitto, potrai rispondere a eventuali domande.»
«Certo, Presidente.» Il giovane fece un rigido cenno del capo e attese che i clienti fossero tutti usciti prima di sussurrare quel teso: «Devo parlarti.»
Baiko sorrise, dandogli una pacca sulla spalla. «Anch’io. Ti aspetto in ufficio.»
L’ultima sfera era andata in frantumi.

 

“Pasa, todo pasa. El tiempo en el reloj solo se atrasa /
Passa, tutto passa. Si attarda solo il tempo nell’orologio.
Rasa. Hoy que pasa? La fuerza de voluntad es la que traza /
Fai tabula rasa. Oggi che succede? E’ la forza di volontà quella che trascina.

 

Raggiunse l’ufficio adagio, camminando con le mani nelle tasche dei pantaloni e guardando, forse per la prima volta, ciò che lo circondava con la dovuta attenzione. In passato, aveva sempre percorso quei corridoi di fretta, conversando al cellulare o con il dipendente di turno; gli occhi che vedevano già al giorno successivo. Adesso, invece, voleva camminare con calma, non c’era più bisogno di correre e forse non ce n’era mai stato.
Il corridoio era tappezzato di foto in bianco e nero in cui era raccontata la storia della ‘Golden Gun’. I Morisaki che vi erano rimasti intrappolati come lui erano quelli che non sorridevano, ma puntavano l’obiettivo con sguardo severo e inflessibile. Rimase stupito nell’accorgersi che quelli sorridenti erano meno del previsto.
«Troppi sognatori in famiglia» affermò ai loro volti bloccati nel tempo. Si fermò quando vide sé stesso e suo padre e nessuno dei due sorrideva.
«Quanta allegria, papà» sghignazzò, ma nella foto successiva c’era davvero chi sorrideva con orgoglio. Ricordò che, all’epoca, Shunsuke era stato appena promosso Vice Presidente.
Riprese a camminare e sentiva un senso di leggerezza che partiva da sotto le piante dei piedi, risaliva le gambe, faceva fluttuare stomaco, polmoni, cuore e cervello.
«Buondì, miss Chiba» salutò la sua segretaria personale e la donna si alzò subito, profondendosi in un inchino reverenziale. Lo guardò di sottecchi e sbatté le palpebre, però non si azzardò a dire nulla.
«Buongiorno a lei, signor Presidente.»
«Sto aspettando mio nipote. Quando arriva, gli dica pure di entrare senza farsi annunciare.»
«Sì, signore. »
Baiko aprì la porta e vi si appoggiò di schiena, entrando all’indietro. «Ah, miss Chiba, sempre efficiente. Ma che avrei fatto senza di lei?»
La segretaria arrossì fino alla punta dei capelli. Il presidente non le aveva mai rivolto un complimento. Anzi, era sempre stata convinta che non si ricordasse nemmeno che faccia avesse. «G-grazie, signore.»
Lui, nel frattempo, aveva richiuso la porta alle proprie spalle e lì stette, appoggiato al legno, fissando l’ufficio.
Era enorme e spoglio. Di fronte c’era la scrivania illuminata dalla vetrata posta dietro la grande poltrona. A destra vi erano divano e poltroncine dove di solito intratteneva i clienti con un bicchiere di liquore; il mobile bar costeggiava la parte bassa della parete mentre in alto, in bella mostra contro il muro, era stato sapientemente collocato il modello della prima arma prodotta dalla ‘Golden Gun’, risalente al 1663.
Baiko osservò tutto con calma e attenzione prima di iniziare a muoversi. Si avvicinò alla scrivania e guardò la relazione che Shunsuke gli aveva preparato in vista della riunione. Sospirò, abbozzando un sorriso colpevole, poi si avvicinò all’imponente vetrata che occupava buona parte del muro. Il cielo limpido invadeva la quasi totalità del suo campo visivo e gli parve ancora più infinito di quello che era. Lui, lì dentro, poteva solo credere di poterlo toccare perché in realtà sarebbe sempre stato troppo lontano; limiti inarrivabili. E non ne aveva più paura.
Sorrise con un profondo senso di liberazione e si diresse al divano, fece scivolare adagio la mano sulla pelle del rivestimento e infine raggiunse il mobile. Osservò per un lungo momento l’archibugio calibro diciotto, Morisaki Gōruden, perfettamente conservato tanto da sembrare appena uscito dalla fabbrica, e infine fece scorrere la mano lungo il bordo della teca in cui era chiuso. Trovò il piccolo bottone nascosto. La parte di muro contro cui era poggiata la teca si schiuse con un leggero ‘tac’; dietro di sé celava la cassaforte.
Baiko digitò il codice e lo sportello in ferro si aprì. Al suo interno vi erano tutta una serie di carte e CD Rom. I progetti delle armi già in commercio, i prototipi, e quelli ancora da realizzare. I contratti.
Una cartellina blu.
Lui prese proprio quella e chiuse la cassaforte per tornare alla scrivania. Si accomodò nella poltrona che per anni era stata il suo scranno del potere e appoggiò con un leggero tonfo la cartella sulla lucida superficie. Quando la aprì, i documenti erano presenti in triplice copia da compilare e firmare. Non li aveva più toccati da che erano stati stilati, circa sei anni prima. Li rilesse un’ultima volta e poi afferrò la stilografica dal supporto sulla scrivania.
Il primo nome che scrisse, per tre volte e senza indugio, fu quello di suo nipote.
Shunsuke Morisaki. La grafia perfetta e leggibile.
Poi scorse il foglio fino alla fine e guardò lo spazio bianco. Lì, su quella invisibile linea vuota, avrebbe lasciato morire trent’anni di vita.
La soddisfazione si fece più evidente nella piega delle labbra.
Poco male, ne aveva ancora altri cinquanta da vivere al meglio.
Baiko Morisaki.
Lo firmò una, due, tre volte.
I vincoli abbattuti, le sfere in mille pezzi, il cielo infinito e migliaia di linee curve.
Posò la penna e chiuse la cartellina. Si rilassò contro lo schienale della poltrona, il gomito puntellato su un bracciolo, avambraccio disteso sull’altro. La fece ruotare da un lato e dall’altro ancora una volta, mentre continuava a sorridere. Libero.
«Se ne sono andati» esordì Shunsuke, varcando la soglia dell’ufficio come una furia. Il tono teso e i gesti che cercavano di contenere il nervosismo, con pessimi risultati.
«Oh, bene. E’ stata un successo, no? I clienti mi sembravano soddisfatti.»
Shunsuke sbatté meccanicamente le palpebre, strozzando quel: «Un successo?!». Disperato, si portò due dita alla fronte per massaggiarla e prendere ampi respiri.
«Posso essere franco?»
«Certam-»
«Che diavolo ti è preso?!» abbaiò inferocito e con gli occhi che stavano per schizzare fuori dalle orbite. «Vada per le scarpe da ginnastica, l’abbigliamento fuori posto e la barba sfatta, ma non hai ascoltato niente di quello che è stato detto!»
«Sì, lo ammetto, ero un po’ distratto.»
«Un po’?!» Shunsuke sembrava sull’orlo delle lacrime. «Zio, ti sei messo a fare aeroplanini di carta!»
«Oh, sì! Volavano che era un piacere!»
«Oddio… ma si può sapere che ti sta succedendo? Tu… tu eri… uno squalo! Un incantatore di serpenti! Te li saresti mangiati a colazione, pranzo e cena! Li avresti convinti a comprare qualsiasi cosa da te, qualsiasi! Saresti stato capace di vendere armi perfino a Gandhi!»
Baiko gongolò drizzando la schiena. «Davvero? Oh, grazie. Questo è il più bel complimento che abbia ricevuto negli ultimi trent’anni.»
Peccato che Shunsuke non fosse altrettanto soddisfatto. Espirò lungamente e scosse il capo.
«Io… io capisco che stai passando un momento molto difficile per quello che è successo a Yuzo, ma hai la responsabilità di questa azienda e delle centinaia di persone che ci lavorano e… e non…» ma nell’osservare il sorriso calmo e tranquillo di suo zio, Shunsuke comprese che era inutile continuare. Sospirò con forza e si appoggiò allo schienale della poltrona posta dal suo lato di scrivania.
«Io ci penso, infatti.» Baiko si alzò adagio. «Perché non ti siedi? Però non lì. Qui.» Si fece da parte, portandosi alle spalle del suo scranno.
«La tua poltrona?» Shunsuke lo guardava con aria rassegnata e sopracciglia aggrottate.
«Sì! E’ comoda, sai? Provala.»
L’altro sospirò, obbedendo passivamente. Oramai non sapeva più come far fronte alle sue stramberie. Si trascinò spalle basse fino a lui e si sedette come gli era stato chiesto.
Baiko si appoggiò di schiena alla scrivania, lì accanto. L’espressione sorridente.
«E allora? Avevo ragione?»
«Ssssì» sospirò Shunsuke con condiscendenza.
«E’ tua.»
«Vuoi cambiare arredamento?»
Baiko rise, scosse il capo. «No, no. Volevo dire che… che è tua. L’intero ufficio lo è.»
«Allora ti vuoi trasferire in un’altra stanza?»
Suo nipote continuava a non capire e non poteva biasimarlo. Lui gli poggiò una mano sulla spalla, assumendo un’espressione seriosa, ma ugualmente serena.
«Ti lascio questa poltrona, l’ufficio… l’intera azienda. La ‘Golden Gun’ è tua. Io mi ritiro»
Shunsuke lo guardò con perplessità, ma appena comprese il significato delle sue parole spalancò insieme occhi e bocca. Tentò di balzare in piedi, ma Baiko lo costrinse a rimanere seduto.
«Ma-ma-ma c-c-che stai dicendo?! La ‘Golden Gun’ spetta a Yuzo! è lui che-»
«Se Yuzo ha tentato il suicidio è stato proprio a causa della ‘Golden Gun’. Volevo costringerlo a prendere a tutti i costi il mio posto e lui si è ribellato con ogni mezzo, capisci? È stata colpa mia.» Spostò lo sguardo all’esterno. «Lui non c’entrava nulla con tutto questo, così come non c’entravo io anni fa, ma quando mio padre mi obbligò a divenire il presidente io non mi ribellai. Non ero abbastanza forte per farlo.» Baiko tornò a guardarlo. «E adesso mi sono reso conto che mettere Yuzo a capo dell’azienda sarebbe stato ingiusto anche per te. Ti saresti accontentato di rimanere in eterno il Vice Presidente? Dopo tutto quello che hai sempre fatto per la ‘Golden Gun’
«E’… è il mio ruolo…»
«I ruoli possono cambiare. E sono sicuro che te la caverai alla grande. Lo hai già dimostrato, quest’oggi, trattando praticamente da solo con tutti i nostri maggiori clienti. A te è sempre piaciuto lavorare qui, hai la passione che serve per rendere ancora più prospera quest’azienda. Non potrei affidare la ‘Golden Gun’ in mani migliori.»
«Ma… ma ho ancora un sacco da imparare-»
«E’ ovvio che ti aiuterò, se avrai bisogno di me. Potrai chiedermi tutto quello che vorrai.» Gli diede un paio di colpetti affettuosi e si allontanò dalla scrivania. «In quella cartellina troverai gli atti di passaggio già firmati. Serve solo la convalida del notaio, niente che una telefonata e dieci minuti non possano risolvere.» E, detto questo, girò attorno al tavolo per camminare in direzione dell’uscita.
«Zio, ma… fai sul serio?» Shunsuke non poteva crederci, eppure la firma era lì, nera su bianco.
Baiko si limitò a sorridere. «Fossi in te, mi terrei stretta Chiba-san. È una segretaria fantastica.»
«E che farai adesso?»
Baiko si fermò, rimanendo a osservare la maniglia davanti a lui per un istante. Vi fece scivolare sopra le dita, prima di stringerla in maniera salda.
Stava voltando le spalle a tutto, gli era rimasta solo una cosa.
«Avanzo un sogno di gioventù.»
Il rumore della porta che si chiudeva sui suoi passi assomigliò al vetro di una sfera che andava in frantumi, liberando l’aria al suo interno. E quell’aria era lui. Era fuori, ormai poteva dirlo. Era fuori dalla ‘Golden Gun’, fuori da quella vita non sua, dal rigore imposto, dai completi scuri, dalle armi. Fuori dai binari stabiliti e dalle vie dritte per dedicarsi solo a quelle curve che aveva sempre avuto nella mente.
Pescò la cravatta arrotolata da dentro la tasca e la buttò nel primo cestino che incontrò senza nemmeno pensarci. Tolse la giacca e se la risvoltò sulla spalla.
Per la seconda volta, l’usciere dell’ascensore si vide fermare le porte da un piede in scarpa da ginnastica.
«Non prendermi per rompiscatole» scherzò Baiko al sempre più sconvolto dipendente che non seppe che rispondere, soprattutto a quel ‘grazie mille’, con tanto di pacca sulla spalla, quando arrivarono al pianterreno e il presidente lasciò l’ascensore. Gli sembrava così… felice. Forse doveva aver concluso un affare molto importante, ma il giovane non poteva nemmeno immaginare che fosse quello della vita.
E dire che quella stessa mattina, Baiko era stato convinto di non avere più scelte importanti da compiere, ma si era sbagliato perché ogni scelta era importante e non si era mai troppo vecchi per ricominciare da capo.
Non era mai troppo tardi.
Era divenuto il suo mantra e Baiko si rese conto di quanto l’avesse fatto suo solo mentre avanzava per l’atrio, osservando alcuni dei suoi dipendenti, uomini e donne, che entravano e uscivano, rispondevano al telefono, parlavano con probabili clienti al banco delle informazioni, discutevano tra loro delle scelte da prendere nei propri ambiti di competenza. Ognuno lavorava al cento per cento delle proprie possibilità e con molti dei presenti non aveva mai scambiato mezza parola. Anche per quello non era mai troppo tardi.
Passò tra loro che lo salutarono ossequiosamente e con un certo timore. Rispose a ognuno con un sorriso e nessuno nascose la perplessità nel vederlo così affabile.
Baiko si fermò sulla porta a vetri che lo separava dalla libertà e si guardò indietro. La testa ruotò adagio, mentre gli occhi correvano lungo l’ultima immagine che avrebbe conservato di quel luogo. Gli altri si fermarono a loro volta, non sapendo che aspettarsi.
E in effetti, quello, non se lo aspettarono affatto.
«Grazie per tutto il lavoro che avete svolto fino a oggi. La ‘Golden Gun’ non sarebbe dov’è ora senza ognuno di voi. Continuate così.»
Furono le sue ultime parole come presidente e dopo varcò finalmente le porte dell’edificio.
Fuori l’aria gli sembrò avere un odore diverso.
La inspirò a pieni polmoni, sentendoli gonfiarsi per incamerarne quanta più possibile, e poi espirò insieme a un enorme senso di leggerezza. Scese le scale che il sole non picchiava più forte sulla sua testa e lui capì come, in quel poco tempo che gli rimaneva prima di andare all’ospedale, avesse una miriade di cose da fare e non ne avrebbe rimandata nessuna. Perché era il momento di andare avanti, premere sull’acceleratore e sfondare gli ultimi ostacoli rimasti sulla strada.
Tutto doveva tornare sabbia, anche il dolore.

 

“Viste, no era fácil comprender la vida /
Visto, non era facile capire la vita,
pero cambie tu pila pa’ que te pusieras en fase, no te me rindas más /
però cambia la tua pila perché ti possano mettere in fase, non arrenderti più.
No quiero verte más con esos lamentos /
Non voglio più vederti con questi lamenti
Si te sirvió eso es que entonces valió la pena /
Se questo ti è servito allora ne è valsa la pena
Y si valió la pena entonces ya no más llantos, no más condena /
E se ne è valsa la pena allora niente più lacrime né condanna.
Hoy rompemos tú y yo esa cadena que te abrasa /
Oggi, tu e io, rompiamo questa catena che ti brucia.

OrishasCamina

 

*

“I am unwritten, can't read my mind, I'm undefined /
Sono qualcosa di non scritto, non posso leggere la mia mente, sono indefinito
I'm just beginning, the pen's in my hand, ending unplanned /
Sono appena all’inizio, la penna è nella mia mano, la fine non è stata programmata.

 

La sua prima tappa, sulla via del ritorno in direzione Nankatsu, non fu casa, ma un negozio di articoli sportivi.
Entrò con sicurezza e si guardò attorno, come sapesse esattamente dove andare e cosa comprare. Adocchiò le mazze da baseball in un angolo e le raggiunse in pochi passi. Ce ne erano un’infinità di modelli, materiali e colori. Ne prese un paio. Simulò la battuta, scartò una delle due e ne provò una terza.
Uno dei commessi rimase a guardarlo. Lo aveva individuato fin da quando aveva messo piede lì dentro, scrutandolo con una certa curiosità. Era convinto che un riccastro come quello avrebbe puntato le mazze da golf, e invece. Gli si avvicinò adagio, studiando il modo esperto con cui valutava la leggerezza, il rinforzo della testa.
«Salve, posso-»
«Voglio questa.» Baiko gli porse una Mizuno di legno. «E mi servirebbero anche un guanto da lanciatore e delle palline.»
«S-subito.»
Il commesso obbedì al suo tono severo e deciso senza replicare. I suoi colleghi lo videro correre come un topolino per tutto il locale rovistando tra gli scaffali e prendendo ora questo ora quel guantone e scatole di palline. Riversò ogni cosa sul banco principale dove Baiko restava in attesa e iniziò a parlare a raffica delle caratteristiche, delle marche e della qualità. Ebbe l’impressione che lo strano compratore non lo ascoltasse nemmeno per mezzo secondo, infatti prendeva e posava quelli che lui suggeriva essere i migliori.
Baiko li provò tutti, valutò la durezza della pelle, l’elasticità. Sembrò approvarne uno della Rawlings.
«Ah, sì! Quello è un ottimo modello. Presenta del-»
Pawn. Fu il rumore secco che la pallina fece una volta che Baiko l’ebbe lanciata nel guantone per stimarne la presa. Il commesso comprese che avrebbe fatto meglio a tacere, che tanto quell’uomo ne capiva molto più di lui.
«Lo prendo» decise, pagò in contanti e con la stessa risolutezza con cui era entrato se ne andò, lasciandosi alle spalle il giovane che ancora si domandava chi potesse essere quel tipo così autoritario.
Una volta in macchina, Baiko guidò fino a casa senza fermarsi oltre.
Appena mise piede nella villetta si accorse subito che non c’era nemmeno più una bollicina di schiuma. Kyoshi aveva ripulito tutto da cima a fondo e lui si appuntò che avrebbe dovuto assolutamente ringraziarlo. A dirla tutta, un po’ gli dispiacque che, di lì a poco, tutto sarebbe stato di nuovo a soqquadro, ma era così che doveva andare; che lui voleva che andasse.
Appoggiò la busta con gli acquisti vicino alle scarpe e andò in cucina. Ne tornò con un secchio pieno di acqua saponata e una grossa spugna. Erano alcune delle armi con cui avrebbe sconfitto l’orco.
Baiko si fermò davanti alla porta chiusa del suo studio per un lungo momento. Dall’altra parte c’erano mostri schierati per intimorirlo, terrorizzarlo, farlo sentire in colpa e ucciderlo in maniera lenta. Ma lui non era più la persona di un tempo, che preferiva ignorare ciò che si estendeva oltre la sua sfera di perfezione.
Era un Morisaki e i Morisaki non mollavano mai.
«Vero, Yuzo?»
Cercò un’ultima scintilla di coraggio in suo figlio, che da quell’orco nascosto dietro la porta era stato ridotto in fin di vita in un letto d’ospedale.
Lasciò al suolo il secchio e afferrò le maniglie delle ante scorrevoli. Inspirò e le spalancò con un gesto secco.
Il mostro aprì le fauci piene di oscurità, le zanne erano di ferro, colavano bava rosso sangue e l’alito puzzava di polvere da sparo.
Il panico si aggrappò alle viscere di Baiko, facendolo piegare leggermente in avanti, mentre avvertiva calore e nausea rivoltargli l’esofago. Represse con stoicismo il desiderio di vomitare, ricacciandolo indietro, ingoiandolo.
«Non mi fai paura…» biascicò, il palato amaro, l’incarnato pallido. «Non me ne fai neanche un po’.»
Il panico scivolò nelle gambe affinché cedessero ma lui si oppose, rimanendo in piedi.
Un passo alla volta, forzò la paura che gli ordinava di restare immobile, divenendo sordo.
Avrebbe distrutto quell’orco pezzo dopo pezzo a cominciare dall’ombra che riempiva la sua bocca.
Girò attorno alla grande scrivania e raggiunse la finestra. Le spesse tende scure erano tirate, come sempre, così come il giorno in cui Yuzo aveva urlato il suo ultimo ‘basta’.
Baiko le afferrò e con tutta la forza che aveva le strappò dai supporti. Gli anelli saltarono in una scoppiettante sequenza e la luce dilagò all’interno come un’onda che frantumava la diga. Gli parve quasi di sentire un grido che si spegneva in lontananza, soffocato dal suo liberato nello sforzo.
Guardò per la prima volta, attraverso i vetri, il cortile anteriore, la siepe che costeggiava il perimetro di casa e le abitazioni vicine. Sorrise, il panico iniziò a mutare in adrenalina e questa volta non lo represse.
«Fuori uno.»
Disse, girandosi a osservare lo studio inondato di luce dopo tanto tempo. Si rese conto solo allora di averne rimosso completamente i veri colori; con la luce artificiale erano sempre stati falsati. Ora tutto aveva un aspetto diverso e faceva già meno paura.
Venne il turno della bava rappresa.
Baiko andò a prendere il secchio e la spugna. Avrebbe ripulito ogni traccia del sangue di suo figlio per estirpare il dolore da quella casa. Lo avrebbe conservato lui, dentro di sé, lo avrebbe conservato Haruko. Sarebbe bastato. Osservò la chiazza più grande dall’alto. Era lì da nove giorni e aveva assunto un color mattone; del rosso scuro e vivo era rimasto solo il ricordo. Non sembrava più nemmeno sangue.
Baiko si inginocchiò e seguì con gli occhi le impronte che l’avevano sparso ovunque, tracciando confusi percorsi. Infine iniziò a ripulire. Raschiò, strofinò, risciacquò. Diede fondo a tutto il suo olio di gomito per cancellarne ogni goccia. Dal pavimento, dalla scrivania, dalla cornetta del telefono. Quella stanza sarebbe rinata e avrebbe avuto una seconda possibilità di tornare nuovamente a essere parte della casa e non un posto sconosciuto. Era quasi un riabilitare anche sé stesso e riuscire a essere parte integrante della loro famiglia.
Quando ebbe terminato, Baiko si passò un braccio sulla fronte e osservò il risultato.
Il sangue non c’era più, il mostro aveva perduto un altro pezzo.
«Fuori due.»
Adesso sarebbe arrivata la parte più complessa: le sue zanne di ferro. Sarebbe stata anche la parte più divertente e rumorosa, dopotutto.
Baiko tornò all’ingresso e dalla busta degli acquisti recuperò la mazza e le palline. I mostri si combattevano ad armi pari, forza contro forza, e a mali estremi, estremi rimedi.
Con agilità, salì in piedi sulla scrivania scelta insindacabilmente come zona di battuta. Prese una palla e si guardò attorno. I denti erano schierati davanti a lui, messi in mostra in teche di vetro o appesi al muro.
Fallo! Avanti fallo, se ne hai il coraggio!
Sembravano digrignare ma non avevano mai capito che se c’era una cosa che non era mai mancata nella sua famiglia, quella era proprio il coraggio.
«Ed ecco Sadaharu Oh pronto a ricevere il primo lancio di Hideo Nomo.»
La pallina volò in aria, la mazza venne caricata. Nella ricaduta, il contatto fu perfetto. Il missile attraversò l’intera teca frantumando i vetri come fossero stati strati di carta di riso.
«E’ un home run!» esultò Baiko, le braccia al cielo, la risata nelle labbra. Il concerto di vetri faceva musica rock.
E poi altri contenitori, altre pistole che cadevano le une sulle altre nella pioggia tagliente, altre risate e telecronache improvvisate.
Joe di Maggio centrò la Colt, la Mauser e la Ruger appese sulla cappa del camino, Babe Ruth fracassò il ripiano dove riposavano cimeli della seconda guerra mondiale, Sadaharu Oh incrementò in maniera esponenziale il suo già spropositato numero di fuoricampo. Nessuna pistola si salvò dalla sua furia, dalla rabbia, dal dolore e dalla gioia di essere tornato libero dopo tanto tempo.
Quando terminò le palline aveva il fiatone e un mezzo sorriso soddisfatto. Dominò dall’alto le macerie di quei denti aguzzi sparsi a terra che non facevano più alcuna paura. Saltò giù e con un colpo di mazza sgomberò l’intera scrivania, buttando in mezzo ai cadaveri di quella carneficina di ferro anche il monitor del computer, il telefono e le migliaia di incartamenti che si sparsero come fruscianti coriandoli.
Lasciò la stanza per pochi minuti e quando tornò aveva una foto nella mano. Dai frammenti di vetro recuperò la famosa cornice che, miracolosamente, si era salvata dalla sua furia incontrollabile. Tolse l’immagine in cui erano ritratti lui e suo padre nel giorno in cui aveva ereditato il fardello della ‘Golden Gun’ e ci mise quella in cui, con Yuzo, costruivano un castello di sabbia.
Al centro del tavolo e puntata verso la luce faceva un figurone. Adesso quella stanza aveva finalmente qualcosa di lui, di Baiko Morisaki.
«Fuori tre.»
Il colpo finale sarebbe stato molto più semplice da infliggere e dopo dell’orco non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo.
Il suo alito pestilenziale, l'odore fetido di polvere pirica era ancora pungente, ma fu sufficiente che Baiko spalancasse la vetrata perché il profumo d’Agosto e di vita lo annientasse, strappandolo da quella stanza e quella casa. Solo allora lui poté affermare d’aver messo alle strette il suo peggior nemico: il fantasma di sé stesso. La vita nuova riprendeva da lì in maniera definitiva e senza alcun ripensamento. Indietro non si tornava ma gli errori si potevano riparare nel presente e nel futuro.
«Fuori quattro.»
Baiko appoggiò da un lato la mazza da baseball e lasciò la stanza per concedersi una breve doccia.
La giornata non era ancora finita.

 

“Staring at the blank page before you /
Stavo fissando la pagina Bianca prima che tu
open up the dirty window /
aprissi la finestra sporca
let the sun illuminate the words that you could not find /
e lasciassi che il sole illuminasse le parole che non potevi trovare.

 

Sostituì il completo scuro con un più comodo jeans e una leggera camicia di lino a maniche corte. Incredibilmente si era abituato subito alla comodità di quell’abbigliamento casual.
Recuperò un sacchetto di carta dalla cucina e poi tornò nello studio. Ormai era una stanza qualunque e non più uno spauracchio soffocante e inavvicinabile. Certo, c’era un tremendo disordine, ma se ne sarebbe occupato una volta rientrato a casa. Doveva andare da suo figlio, ma prima avrebbe dovuto sbarazzarsi del cuore morto del vecchio mostro. Cercò tra i vetri il cadavere della Smith&Wesson 15 special. La trovò sotto altri pezzi di metallo e la infilò nella busta. Uscì in corridoio, afferrò la borsa al cui interno c’era il solito libro e un lettore mp3, che la sera prima aveva caricato personalmente, e prese il guantone. In previsione del fatto che sarebbe dovuto uscire nuovamente, aveva lasciato l’auto posteggiata fuori dal cancello, ma quando la raggiunse, qualcun altro sembrò raggiungere lui.
«Morisaki-san…»
La vicina di casa gli si fece d’appresso a piccoli passi. Era quella che metteva sempre le odiose canzoni tradizionali.
«Ah, Hakage-san. Mi dica, c’è qualche problema?»
La donna titubò rivolgendo occhiate fugaci alla casa. «Beh, ecco. Mi domandavo se fosse tutto a posto, sa, prima ho sentito degli strani rumori…»
«Ah, quelli!» Baiko sorrise e aprì lo sportello dell’Audi. «Mi perdoni per il trambusto, spero di non averla disturbata. Stavo facendo le pulizie e ho accidentalmente rotto qualche vetro. Non sono molto pratico in queste cose.»
«Oh, si figuri, mi scusi lei, non volevo essere indiscreta, ma mi ero un po’ preoccupata…» a dirla tutta avrebbe voluto indagare di più. Stavano succedendo cose strane là dentro, da un po' di tempo. Prima gli spari, poi il silenzio, poi quella musica straniera sempre a tutto volume, ora i vetri che andavano in pezzi. Sì, qualcosa di davvero molto, molto strano. Ma Baiko non le diede modo di domandare oltre.
«Non deve. Oggi è una bellissima giornata» concluse, salendo in macchina mentre la signora Hakage non riusciva a non guardalo in un misto di perplessità e sospetto. Lei non poteva capire quanto, davvero, quella giornata fosse fantastica per lui. «Arrivederci»
«Sì, arrivederci. E mi saluti sua moglie…»
«Certo, non mancherò…» – Se riesco a vederla, oggi. –
Sapeva già che sarebbe arrivato in ospedale più tardi del solito, ma c’erano cose che non potevano più aspettare, anche Haruko rientrava tra queste ma ci avrebbe pensato al suo ritorno, ora doveva assolutamente raggiungere il mare.
Ci mise più del previsto, ma non si stupì. L’orario non era dei migliori e si ritrovò imbottigliato nel traffico serale post-lavoro. Si fece compagnia con della buona musica e non si fece prendere dalla frenesia di arrivare a destinazione. Anche il traffico aveva una sua piacevolezza di fondo nascosta nell’incrementarsi dell’attesa verso la propria meta, e poi si consolò pensando che, al ritorno, non avrebbe avuto problemi.
Quando arrivò, parcheggiò non molto lontano da dove aveva sempre portato Yuzo da bambino. Da quel lato c’erano dei frangiflutti artificiali composti da enormi blocchi di roccia su cui la gente si fermava a pescare. A quell’ora, però, non c’era più nessuno e Baiko li raggiunse indisturbato. Riuscì ad arrampicarsi con un po’ di fatica, stando sempre attendo a non perdere la presa sul guantone e sul sacchetto. Una volta in cima, si fermò ritto e fiero ad ascoltare il costante rumore del mare e a vedere i suoi flutti in moto perpetuo che si infrangevano conto la base degli scogli. C’era un buon odore di sale e il suo corpo si opponeva allo spirare della brezza che lo carezzava quasi con affetto. Sembrava avesse voluto incoraggiarlo.
Estrasse la Smith&Wesson e la smontò con un piccolo cacciavite che aveva portato da casa. Infilò i vari pezzi nelle tasche dei jeans, poi calzò il guantone. Il primo oggetto che estrasse fu il tamburo con tutti i proiettili ancora all’interno. Ne mancava solo uno.
«Questo è per mio figlio! Perché l’hai fatto crescere senza di me e lo hai reso infelice!»
Caricò la spinta con la gamba e l’oggetto venne lanciato in mare come una palla veloce. Bastò un attimo affinché scomparisse tra le onde con un leggero ‘pluff’.
«Questo è per mia moglie!» si ritrovò la canna tra le dita. «Perché l’hai fatta soffrire tanto da spezzarle il cuore!»
Il lancio fu uno slider che fendette l’aria come un missile e poi venne inghiottito dalle acque.
L’ultimo pezzo era il calcio. Baiko lo rigirò nel palmo, guardandolo con disprezzo e rivalsa.
«Questo… questo è per me. Perché mi hai quasi distrutto la vita, ma finalmente mi sono svegliato!»
Come una palla curva, l’oggetto abbandonò la sua mano per sempre.
Baiko rimase di nuovo a guardare i flutti che non avevano variato il loro moto e oscillavano calmi, indifferenti a quell’addio che ora era consumato del tutto.
Addio al passato, a una vita di obblighi e costrizioni, addio agli errori e alle loro conseguenze, addio al lavoro, a una pelle morta. Addio al vecchio sé stesso. Addio all’orco.

 

“Reaching for something in the distance /
Cerchi di prendere qualcosa in lontananza,
so close you can almost taste it /
sei così vicino che puoi quasi sentirne il sapore.
Release your inhibitions /
Abbandona le tue inibizioni.

 

Suo marito non era venuto o, meglio, non si era presentato in anticipo come al solito.
Haruko aveva continuato a ripensarci mentre ritirava il bucato. Si era addirittura attardata, sperando di incrociarlo almeno all’uscita dall’ospedale, ma nulla.
«Papà arriverà un po’ più tardi, tesoro. Oggi aveva un’importante riunione di lavoro» aveva spiegato a Yuzo, secondo quanto riferitole da Kyoshi; nel racconto era stato compreso anche l’aneddoto della lavatrice impazzita. Non era riuscita a mantenere un atteggiamento inflessibile e si era messa a ridere.
Baiko era sempre stato così maldestro nelle cose di casa, che pensarlo addirittura alle prese con il bucato le aveva instillato una voglia terribile di assistere alla sua lotta con la schiuma.
Non vederlo arrivare l’aveva… delusa.
Aveva cominciato ad abituarsi a quella specie di ‘ritrovo familiare’ perché lì, all’ospedale, era l’unico momento in cui finalmente si riunivano tutti e tre nella stessa stanza, raccolti. Prima dell’incidente, si ritrovavano insieme solo per cena, ma l’aria era sempre satura di silenzi ostili e parole calibrate al millimetro. La tensione poteva essere afferrata con le bacchette, come una polpetta di granchio. Ora, invece, a volte calava il silenzio, sì, ma era carico solo di attese, mentre le parole uscivano spontanee e naturali. Rilassate.
Inoltre, Haruko si era accorta di come Baiko avesse cominciato a presentarsi un po’ prima ogni giorno. Aveva spezzato la sua indole abitudinaria, i suoi ritmi, per restare con loro. E lei non poteva fingere di non percepire il modo in cui l’atmosfera cambiasse quando si trovavano tutti insieme. Si sentiva più forte, più sicura. Più fiduciosa. L’attesa per il domani perdeva parte delle sue paure anche se rimaneva la frustrazione per una situazione che seguitava a mantenersi stabile, quasi bloccata nel tempo e nello spazio.
E più i giorni passavano, meno speranze c’erano che Yuzo si risvegliasse. Su quello i medici erano stati chiari e ogni volta che ci pensava, che un giorno moriva, le veniva da piangere.
Le era capitato anche mentre si trovava all’ospedale, un pomeriggio, ma Baiko le aveva preso saldamente la mano.
«Yuzo non è un tipo di persona che si arrende facilmente» le aveva detto «Ora lo so. Non mollerà nemmeno questa volta.» La sicurezza che aveva letto nel suo sguardo era stata tale da farle ingoiare con forza le lacrime. Per tutto il tempo che erano rimasti insieme, lui non le aveva più lasciato la mano.
Haruko sospirò nel ripensare a quel momento, scontrandolo con l’intenzione di divorziare che ancora le restava annidata in un angolo del cuore e combatteva strenuamente per non essere scacciata per sempre. L’idea che avrebbe potuto perdere suo figlio non scompariva solo perché Baiko stava cambiando. Non avrebbe nemmeno saputo dire fino a che punto suo marito si sarebbe spinto.
Non sapeva che fare, non lo sapeva proprio.
Con un secondo sospiro, più pesante, rientrò in casa appoggiando al suolo la cesta con i panni asciutti.
Il campanello trillò in quel momento. Pensò fosse suo padre di ritorno dal supermercato; doveva essersi dimenticato le chiavi.
Rimase ferma sulla porta e visibilmente sorpresa nello scoprire che l’ospite, invece, era Baiko.
«Ciao» esordì quest’ultimo, aveva le mani dietro la schiena.
Lei non riuscì a replicare subito, non si aspettava di vederlo, soprattutto non a casa di suo padre.
«Ciao...»
«Ehm… ho fatto un po’ tardi, oggi. Sai, riunione…» continuò l’uomo, spostando il peso da un piede all’altro.
«Sì, papà me lo ha detto.»
«Già…»
«E mi ha anche detto della lavatrice.»
«Ah, davvero?!»
Baiko tirò fino all’estremo un imbarazzatissimo sorriso, mentre lei tossicchiava per non ridere. Haruko pensò che fosse… così buffo.
«Incidente di percorso. La prossima volta non farò danni. Credo.»
«Vuoi entrare?» quella proposta sorprese entrambi per motivi diversi.
Baiko non pensava glielo avrebbe mai chiesto e Haruko non credeva avesse potuto farlo con così tanta naturalezza. L’aveva detto quasi in automatico ma si rese conto che ci teneva. Teneva che lui rispondesse…
«No! No, io… stavo andando da Yuzo. Ero passato solo per salutarti e…» da dietro la schiena, l’uomo le porse un enorme mazzo di gigli bianchi che la lasciò di sasso. «Fiori. Ehm… li ho visti mentre tornavo e… sono ancora i tuoi preferiti, vero?»
«…sì.»
Haruko prese il dono con entrambe le mani.
«Grazie, sono… sono bellissimi…»
Baiko sorrise facendo un passo indietro per toglierla dall’imbarazzo, ma lei seguitò a rimanere immobile sull’uscio con quel fascio bianco puro dall’intenso profumo. Quell’essenza si portò via, mischiandola alla brezza, più di trent’anni del loro tempo, spogliandolo della stupida maturità, che li intestardiva e induriva, per lasciare solo due adolescenti, una festa scolastica e un giglio messo tra i capelli. Space Oddity.
«Allora… io vado.»
La sua voce la riportò al presente, dove regnava l’indecisione.
Lei annuì, mordicchiandosi nervosamente l’interno della guancia e lo osservò andare via, voltarle le spalle, senza sapere, ancora una volta, cosa avrebbe davvero voluto fare.
«Ah! Già che sono qui, te lo dico…» Baiko si fermò che era nei pressi della macchina. Haruko drizzò la schiena non sapendo che aspettarsi, ma sperando in qualunque cosa. «…ho lasciato l’azienda. »
Il sorriso rilassato con cui lo disse la spiazzò forse più della notizia in sé.
«C-cosa?!»
«Sì, a Shunsuke. Se ne occuperà lui. E’ bravissimo, mi chiedo perché non ci abbia pensato prima.» L’uomo si grattò un sopracciglio, ridendo di sé stesso. «Temo di essere un po’ tardo.»
Haruko non replicò, ma lo scortò con gli occhi fino a che l’Audi non scomparve.
Dopo non le rimasero che i gigli e la sensazione che la parte tenace del suo cuore, quella che custodiva il rancore, stesse lentamente soffocando.

 

“Feel the rain on your skin /
Senti la pioggia sulla tua pelle
No one else can feel it for you /
Nessun altro può sentirla per te,
only you can let it in /
solo tu puoi lasciarla entrare.
No one else, no one else /
Nessun altro, nessun altro
can speak the words on your lips /
può dire le parole sulle tue labbra.

 

Era stato difficile, per lui, non provare a offrirle il suo abbraccio, ma farsi addirittura indietro.
Non voleva farle pressioni, ma cercare di essere una presenza costante seppur discreta. Anche per quello non le aveva detto nulla di sdolcinato o da filmone strappalacrime, nonostante avesse avuto quel ‘Ti amo’ vagante nella bocca per tutto il tempo che l’aveva avuta davanti. A suo modo glielo aveva confessato in ogni gesto o sguardo, ma sapeva che non sarebbe stato sufficiente.
Parcheggiò l’auto all’esterno dell’ospedale e percorse a piedi il viale che portava all’ingresso.
Aveva fatto davvero tardi e il tramonto era già finito da un po’. Chissà la faccia delle infermiere nel vederlo arrivare a quell’ora, di sicuro gli avrebbero detto di non provare a fare il furbo per rimanere di più. Ridacchiò, salendo a due a due gli ultimi scalini, ma quando raggiunse il corridoio, rallentò il passo.
Suo figlio non era da solo.
Riconobbe subito la figura che uscì dalla stanza di Yuzo. La vide trascinarsi fuori e appoggiarsi stancamente al vetro. Per un attimo pensò a quanto fortuita fosse quella coincidenza, perché anche lui rientrava tra le cose che avrebbe dovuto affrontare definitivamente per completare la sua opera. Il vecchio Baiko avrebbe rifuggito il confronto o si sarebbe mantenuto sul vago, fingendo di non sapere come stavano le cose. Ma il vecchio Baiko era morto e sepolto e lui rilassò le spalle, aumentò il passo e respirò a fondo pronto per parlare con il giovane Mamoru.

 

“Drench yourself in words unspoken /
Bagnati con le parole che non hai ditto,
live your life with arms wide open /
vivi la tua vita a braccia aperte.
Today is where your book begins /
Oggi è dove comincia il tuo libro.
The rest is still unwritten /
Il resto non è ancora stato scritto.

Natasha BedingfieldUnwritten

 


[1]ONI: sono i Demoni/Orchi nel folklore giapponese.

[2]: E' un film del 1988 remake di una serie televisiva, "Blob - Fluido mortale", del 1958. :D Fa così vintage!


*musichetta da circo: Pepeperepepepere!*

Angolino del: “Trame Delirio, per di qua ---->” – ovvero: “Come creare tramoni alla ‘ohmygodwowgenius’ e poi rendersi conto che erano una cazzata”  (II e ultima parte).

Perché, ovviamente, non era mica finita lì.
Voi ve lo credevate, eh??? Ma, come suolsi dire: non c’è mai fine al peggio. Quindi, ecco che vi narro come sarebbe dovuta andare la storia, prima che capissi che era una vaccata! XD
Eravamo rimasti che Yuzo finiva in galera, denunciato dal proprio padre per tentato omicidio.
Nel gabbio, Yuzo taglia i ponti con tutte le persone che stanno fuori: con gli amici, sua madre. L’unico che non riesce a scrollarsi di dosso, nonostante ci provi, è Genzo. Diciamo pure che Genzo aveva, in quella storia, il ruolo che il finto Mamoru ha in questa. XD (come riciclare i personaggi, W l’Ecologia!).
Dopo sette anni (non in Tibet), Yuzo esce per buona condotta. Fuori dal carcere trova Genzo ad aspettarlo perché la sua famiglia conosceva il direttore, quindi, anche se Yuzo si rifiutava di avere visite, Genzo sapeva tutto di quello che gli succedeva dietro le sbarre. Il Grande Fratello je fa na’ pippa.
Insomma, dopo un po’ di proteste, Yuzo accetta di farsi accompagnare da Genzo a mo’ di Cicerone Taxi Driver. Il portierone amburghese (pare il galletto XD) lo porta a casa, dove Yuzo scopre che è stava venduta a un’altra famiglia e che la sua, di famiglia, non esiste più perché i suoi genitori hanno divorziato poco dopo che lui era finito in carcere. Dopodiché, vanno insieme al vecchio campo lungo il fiume dove Yuzo incontra Mamoru. Anche in questa storia loro erano migliori amici (e basta! XD Era una Genzo/Yuzo, ve l’avevo detto). Un po’ di commozione, pacche sulle spalle, piangiamo tutti in coro eccetera eccetera. Terza tappa, la ‘Golden Gun’.
Yuzo ci va per poter sfanculare in via definitiva suo padre e ‘…dirgli una volta per tutte ciò che penso di lui!’ (cit.). Qui, ci ritroviamo un Baiko che è l’ombra dell’uomo rigido che era stato un tempo, ma mentre nella presente storia si riscatta eccome, nella vecchia versione sarebbe dovuto rimanere un fallito ad libitum. Nonostante tutto, Baiko si scusa con Yuzo per essere stato un genitore vergognoso (si mette addirittura in ginocchio), ma Yuzo – che dopo sette anni di galera è diventato simpatico quanto una spina nel culo – gli risponde teneramente: “E sticazzi? Vaffanculo e addio.” (è la versione ridotta XD).
Il viaggio giunge alla sua ultima tappa, e cioè le campagne lontane dalla città dove vi era la casa dei nonni materni, locus amoenus in cui la madre di Yuzo si è ritirata a vivere dopo il divorzio, conducendo una vita da disperata anima in pena. Riappacifichescion madre e figlio, fazzoletti che si sprecano e retorica a profusione.
La storia si conclude con Yuzo che abbraccia la vita dell’allegro contadino assieme al nonno.
Beh, che vi aspettavate?! Dopo sette anni pretendevate che Yuzo ritornasse a giocare a calcio?!
Naaaaaaa! XD
Grazie a Dio, il mio Neurone Gigetto è tornato prima dalla sua vacanza, rendendosi conto che questa era una enorme vaccata. XD

Si conclude così la Trama Delirio, signore e signori. Spero che vi siate divertiti e abbiate capito quanto io, sotto sotto, sia terribilmente pericolosa, se mi ci metto di impegno! X3



Le canzoni del capitolo:

- Camina (Orishas): se non li conoscevate... conoscevateli! *si sente molto Vulvia* XDDD Premesso che non sono una grandissima amante del rap in generale, loro li adoro. E fanno rap cubano. LOL. Viva le contraddizioni XD
Li seguo dal loro primo disco, ed anche questa è una cosa molto rara perché di solito vado molto a canzoni e non a gruppi/cantante, ma loro mi piacciono tantissimo e fanno delle bellissime canzoni. Questa ci stava bene, come testo e come musicalità. L’intero capitolo è basato sul ‘dinamismo’ e quindi c’era bisogno di qualcosa che tenesse alto il ritmo! ;D

- Unwritten (Natasha Bedingfield): perché, semplicemente, è perfetta! :3 Mi riesce a trasmettere il senso di libertà che vorrei voi coglieste in Baiko, nelle sue scelte e nel suo modo di uccidere il mostro che per anni ha avuto dentro di sé.
Per non parlare del video! LOL! Questa è la versione US, perché la versione ufficiale è diversa, e, giuro, non l’avevo mai visto ma quando mi son trovata davanti il palazzone squadrato, lei che entra dentro l’ascensore e oltre le porte, la libertà, ho pensato: “Minchia! Ci fosse stato anche il mare sembrava di vedere scene del capitolo!” XD



Temevo di non farcela e invece, anche questa volta, sono stata puntuale! *-* Non merito un applauso?! *-*
Manca davvero poco per completare il capitolo 12, ve lo farò avere appena lo terminerò, il che significa che può anche arrivare prima di Lunedì prossimo! :D
Ringrazio tutte le persone che, costantemente, hanno continuato a seguire questa storia fino a ora.
Ormai ci siamo davvero.
-1 :D

   
 
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