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Autore: My Pride    24/07/2011    3 recensioni
«Quanto sei disposta a spingerti oltre con questa storia?»
«Quel che basta per capire cosa sta succedendo»
«Lo dico per il tuo bene, chica, lascia perdere questa faccenda adesso che sei ancora in tempo per farlo. Non hai nulla a che vedere con tutto questo»
Genere: Drammatico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights'
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Under a bloody sky_4 ATTO IV
VECCHIE E NUOVE CONOSCENZE
 
    Dovevo essere davvero impazzita se, dopo Miguel, avevo deciso di andare a chiedere spiegazioni, per di più nella stessa sera, ad un tipo come Dante.
    Appartenente ad una schiera di vampiri ben più antica della maggior parte delle creature presenti in tutta St. Louis, era un non-morto ben poco socievole e fortemente legato alle vecchie tradizioni. Non muoveva un passo se non era prima stato autorizzato dalla sua Nobile Madre, e proprio quest’ultima, per quel che ne sapevo, aveva cominciato da un mese e mezzo esatto una sorta di rito di iniziazione caduto in disuso ormai da troppi secoli per ricordare con esattezza quando fosse successo.
    Avevo avuto la sfortuna di incontrare entrambi un paio di volte, e fino a quel momento mi era bastato. Peccato che, dopo tutto quel tempo, mi toccasse parlare nuovamente con loro. Erano abbastanza schivi e misteriosi da poter essere in qualche modo invischiati in tutta quella storia, ma guai a far capir loro che nutrivi qualche sospetto nei loro confronti. A quel punto quasi ti ritrovavi a preferire di essere nelle mani di un qualche cacciatore di vampiri che nelle loro. Era proprio per quel motivo che, nonostante tutta la mia spavalderia, mi rifiutavo ad andare da sola. Per quanto fossi forte, non ero di certo stupida. Impelagarmi in una disputa con loro equivaleva quasi come metter la testa nelle fauci di un leone, e io volevo evitare di essere il povero agnello sacrificale. Non mi avrebbero trattata con nessun riguardo, donna oppure no. Se sentivano un pericolo per la loro casata, Dante e la sua Nobile Madre erano più che pronti a far fuori eventuali scocciatori o intrusi, anche se tali minacce provenivano dalla razza stessa. Era per questo che molti di noi preferivano non avere niente a che fare con quella stirpe. Dunque perché mi ero ritrovata in quella situazione? Avevo detto di essere annoiata, certo, ma questo non voleva di certo significare che mi fossi scocciata anche di vivere. I misteri della vita.
    Avevo passato le due ore successive all’incontro con Miguel a girovagare a vuoto, indecisa sul da farsi. Non potevo rischiare di andare a trovare Dante da sola, e non volevo nemmeno essere sprovvista di un guardaspalle, se proprio dovevo essere sincera. Quindi avevo riflettuto non poco sulla situazione che si era venuta a creare: mi ero diretta in un parco nei pressi della 530a e mi ero seduta su una panchina, fissando un punto indefinito e lasciando che fosse solo la piacevole brezza di quella serata a guidare i miei pensieri. Ero alla fine arrivata ad una sola ed unica conclusione, ma non ero consapevole di quanto la cosa sarebbe andata a genio al diretto interessato. E ancora non lo sapevo, anche se mi trovavo proprio fuori dalla porta di casa sua. Non avevo quasi avuto il coraggio di entrare, riflettendo probabilmente su quanto ci eravamo detti prima che mi ritrovassi a lasciare la sua dimora. Dannazione, avrebbe di sicuro fatto una delle sue battute su quanto non riuscissi a stargli alla larga, quel cretino.
    Trassi un lungo sospiro, pronta a bussare come avevo già fatto non più di una quindicina di ore prima. Prima ancora che potessi farlo, però, la porta fu aperta silenziosamente. Stavo quasi per lasciarmi scappare una battuta sarcastica, convinta che Nathan mi avesse sentita arrivare ancora una volta da lontano, quando il sorriso e il divertimento mi morirono letteralmente sulle labbra. Non era Nathan quello che mi squadrava dalla soglia, sebbene fosse di sicuro un licantropo, bensì una donna che non poteva avere più di vent’anni. I capelli neri e fluenti le ricadevano in ciocche ondulate e graziose sulle spalle, donandole un’aria innaturalmente innocua e fanciullesca; erano però i suoi occhi, d’un verde chiaro con piccole venature marroni intorno alla pupilla, a far capire perfettamente che tipo di donna era: fredda, spietata e manipolatrice, una licantropa che non avrebbe esitato nemmeno un attimo ad attaccare il proprio nemico se ne fosse richiesta l’occasione. Al pari di Nathan, inoltre, aveva quella lieve e classica sfumatura dorata che caratterizzava ogni lupo mannaro all’avvicinarsi della luna piena.
    Non fui la sola a restare sorpresa, comunque, giacché anche lei mi squadrò da capo a piedi e sbatté le lunghe ciglia con fare piuttosto frastornato, quasi non si aspettasse la visita di un vampiro come me. Beh, in quel momento ero della sua stessa idea. «Lewis?» mi domandò d’un tratto con voce bassa e melodiosa, quasi alla pari di quella di molti vampiri con cui avevo avuto a che fare, e stavolta fui io ad accigliarmi. L’avevo forse già incontrata da qualche altra parte? Da quel che ricordavo mi sembrava proprio di no, sebbene in lei ci fosse qualcosa che richiamava in me la nostalgia di tempi passati.
    «Ci siamo già viste, per caso?» replicai guardinga, squadrandola da capo a piedi come se cercassi di capire cos’era quella sensazione che avevo cominciato a provare. C’era qualcosa che stonava nettamente in tutta quella storia, anche se non riuscivo ancora a capire che cosa. Avevo visto così tante persone, in tutti quei secoli, che quasi mi domandavo come mai la vista di quella licantropa avrebbe dovuto accendere nella mia mente una qualche lampadina. Ebbene, avrei potuto dire che le lampadine in questione erano tutte fulminate.
    L’ampio sorriso che lei mi rivolse in seguito fu caldo come quel sole che non vedevo ormai da secoli. «Sono io, Giselle», rispose raggiante, evitando però accuratamente di guardarmi negli occhi. E potei benissimo capire il perché: mai guardare negli occhi un vampiro centenario, anche se sei un lupo mannaro.
    A quel suo dire, sbattei le palpebre come se non ci credessi, facendo scorrere lo sguardo su di lei come per cercare di capire se stesse mentendo o meno. Beh, se quella era davvero Giselle, la cugina di quel sacco di pulci di Nathan, dacché l’avevo vista era cambiata tantissimo, parola mia. Ma era anche vero che la prima volta che l’avevo vista aveva soltanto dieci anni, diamine! E i licantropi, a differenza dei vampiri, invecchiavano come qualunque essere umano. L’unica cosa che avevano in più era una gran longevità e un po’ di pelo durante la luna piena. Sopportabile, no? Forse.
    «Giselle», ripetei incredula, continuando a squadrarla con attenzione. Non mi fu però possibile perché lei si sporse di poco e mi afferrò il braccio destro, guidandomi lei stessa all’interno della casa. In altri momenti avrei reagito per far sì che mi lasciasse, ma in quel preciso istante ero troppo scombussolata per pensare razionalmente. Che cosa diavolo mi stava succedendo?
    Senza che me ne rendessi conto ci ritrovammo ben presto in cucina, dove trovammo Nathan seduto al tavolo. «Non mi aspettavo di rivederti così presto, mia dolce sanguisuga», si fece sentire lui in tono sarcastico, guardandoci entrambe al di sopra della pagina sportiva. I suoi occhi sembravano divertiti per un motivo che non capivo e che, se dovevo essere sincera, non volevo capire. «Hai sempre un tempismo perfetto nel rovinarmi la cena».
    Riacquistai a poco a poco la compostezza che il vedere Giselle aveva frantumato, guardando seriamente Nathan in viso. Non ero andata lì per tergiversare. «Devo parlarti, Nathan».
    Per un po’ lui non fiato, concentrato a leggere senza la benché minima attenzione la pagina sportiva. Forse voleva più un pretesto per non guardarmi che conoscere davvero i risultati dei Red Sox. Infine sospirò, chiedendomi cosa mi avesse spinta a tornare lì in meno di ventiquattrore. Senza tanti preamboli, esattamente come avevo fatto poche ore addietro, gli raccontai quel poco che avevo scoperto, sentendo su di me gli sguardi interessati di entrambi i licantropi. Giselle abbandonò la sua postazione soltanto per un attimo, tornando con due belle tazze di caffè freddo. Non mi offrì nulla, e fu una scelta saggia che le fece guadagnare ancora più punti: mai chiedere ad un vampiro se voleva qualcosa da bere. Ne diede una a Nathan e tornò a sedersi, alzando i suoi occhi verdi su di me ancora una volta, quasi pendesse dalle mie labbra. Era interessata a saperne di più su tutta quella storia e, se dovevo essere sincera, avrei tanto voluto che qualcun altro avesse messo al corrente anche me dei fatti.
    Giunta a parlare di Dante mi fermai un attimo, chiedendomi distrattamente come avrebbero potuto reagire. Non era famoso fra i licantropi, sebbene avessi sentito in giro che lui e la sua stirpe ne avevano fatti prigionieri e seviziati non pochi - rendendoli anche schiavi di sangue al pari degli esseri umani con cui spesso si dilettavano -, però era comunque meglio metterli in guardia. Se dovevo coinvolgere Nathan, era giusto che sapesse a cosa andava in contro.
    Quando terminai, tra noi tre calò un silenzio così sottile che mi parve quasi possibile poterlo tagliare con un coltello. Nathan aveva cominciato a passarsi spasmodicamente una mano fra i corti capelli castani, borbottando chissà cosa fra sé e sé a mezza voce; non mi sforzai di capirlo, non ce ne sarebbe stato bisogno. Giselle, invece, appariva composta ma piuttosto preoccupata. L’unico indizio che lasciava intravedere perfettamente quanto quella situazione la sconvolgesse era il suo raschiarsi il labbro inferiore con i denti.
    «Verrò con te», esordì d’un tratto Nathan, alzandosi in piedi così rapidamente che quasi temetti che rovesciasse anche il tavolo. Aveva abbandonato già da un po’ di tempo il giornale, che adesso giaceva come inutile cartastraccia dinanzi a lui. «Non posso permettere che ti succeda qualcosa, sanguisuga».
    Sorrisi senza poterne fare a meno. In parte ero persino felice che fosse stato lui a decidere di venire con me, visto che non gliel’avevo ancora chiesto. Probabilmente nel farlo mi sarei sentita in colpa, anche se ero andata lì proprio con quell’intento. «Adesso sei tu ad essere preoccupato per me?» lo schernii, forse nel tentativo di alleggerire quella situazione opprimente. Lo sguardo che mi rivolse, però, mi lasciò interdetta. Era un misto di ansia e timore, gli si leggeva perfettamente in quelle sue polle marroni dalla sfumatura dorata. «Dannazione, sacco di pulci!» esclamai incredula, sgranando di poco gli occhi. «Sei davvero preoccupato per me!»
    Quello che gli vidi in volto subito dopo fu un lieve rossore, difficile capire se per la rabbia o semplicemente perché la situazione lo metteva un tantino in imbarazzo. «Stai zitta e vedi di muoverti», bofonchiò, e fu il suo tono a tradirlo. Era imbarazzato. Beh, grandioso! Quel che mi mancava era un licantropo grande e grosso in preda all’imbarazzo. Guardò ben presto sua cugina, cercando di dissimulare il tutto dietro ad una maschera di sfida. «Giselle, tu aspettaci qui», le disse, facendole spalancare la bocca. «Se non torneremo prima dell’alba saprai cos’è successo».
    «Non ci penso proprio a restare qui!» esclamò adirata, dilatando di poco i suoi begl’occhi verdi, ingigantiti dalla confusione. Ma Nathan non volle sentir ragioni, imponendole il silenzio con un gesto secco della mano prima di voltarsi verso di me e farmi cenno di precederlo, ignorando deliberatamente gli epiteti che Giselle gli stava lanciando contro. Però non si era mossa, simbolo che, forse, l’autorità del cugino valeva più di quanto non sembrasse. Che fosse lui il maschio alfa, in famiglia? Molto probabile, ma non volevo scoprirlo.
    Uscimmo di casa nella notte ormai alta, seguiti ancora dalla voce di Giselle che si affievoliva pian piano, quasi si fosse finalmente scocciata di urlare il suo disappunto. In parte potevo capirla: anche a me non sarebbe affatto piaciuto starmene con le mani in mano. Peccato che avrei tanto voluto essere al suo posto e non dover andare a trovare quei vecchi vampiri, in quel momento. Col favore delle tenebre ci gettammo svelti nei vicoli di St. Louis, diretti verso l’ubicazione di Dante. Avremmo potuto prendere l’auto di Nathan per andare più in fretta, visto che dovevo stare al suo passo, ma sapevo quanto sarebbe stato stupido farlo. Nessun mortale aveva mai varcato quei cancelli e ne era poi uscito vivo, da quel che si raccontava in giro. Forse portare con me Nathan era stata una pessima idea.
    «Così stiamo andando a trovare una specie di famiglia reale, eh?» mi domandò lui di punto in bianco, con voce talmente bassa da poter quasi risultare impercettibile. Aveva reso il tono della sua voce scherzoso e allegro, come se stessimo andando a fare una bella scampagnata. Me ne rallegrai: l’ultima cosa che ci serviva era farci prendere dal panico.
    Facendogli cenno di seguirmi in un vicolo, superammo alcuni cassoni dell’immondizia e alti palazzi dalle scale anti-incendio praticamente a pezzi. «Una cosa del genere», risposi infine, quasi rabbrividendo. E non di certo per il freddo. «Se avessi potuto l’avrei evitato, sul serio».
    «Sono così spaventosi?» chiese di rimando, stando attento a dove metteva i piedi. I gatti randagi avevano fatto man passa di quel che potevano trovare nei cassonetti, e la maggior parte delle schifezze era riversata a terra in un misto di umidità e sudiciume.
    «Non voglio rovinarti la sorpresa», ironizzai, ritrovandomi ad abbozzare un sorriso amaro. Forse quella storia si sarebbe conclusa ancor prima che credessi: io sarei finita in una bara inchiodata e colma d’argento e Nathan sarebbe diventato un bello zerbino per la tappezzeria di qualche stanza di Dante. Che scenario terrificante.
    Sbucammo ben presto a Kennett Place, una stradina popolata per lo più da semplici esseri umani. C’era persino una scuola elementare, più avanti, con tanto di giardino per lasciar liberi i bambini durante l’intervallo. In quel momento appariva piuttosto desolata e sinistra, data l’ora e la scarsa illuminazione, ma che cosa mi aspettavo? Di certo i bambini non andavano a scuola a mezzanotte.
    La nostra meta era qualche isolato più avanti, oltre i viali alberati dov’erano ferme le auto delle famiglie di quelle modeste casette, esattamente verso Lafayette Park. Per raggiungerlo dovemmo attraversare tutto Kennett Place e giungere verso Mississippi Ave, parzialmente illuminata come il resto della strada. Vedemmo giusto qualche autopattuglia di passaggio, i cui guidatori ci degnavano appena di uno sguardo senza però fermarsi. Probabilmente per quei poliziotti eravamo una semplice coppietta che aveva deciso di passare una serata al parco, per quanto la scelta potesse essere alquanto discutibile.
    Invece di dirigerci verso il parco continuammo lungo Mississippi Ave, svoltando immediatamente verso sinistra per ritrovarci così in un ambio spazio. C’erano case ovunque, e sentii su di me lo sguardo incuriosito e stralunato di Nathan. Non gli diedi però spiegazioni, sebbene sapessi che ne voleva almeno una, vista la zona residenziale in cui ci eravamo ritrovati. Se vuoi nascondere qualcosa fallo sotto gli occhi di chiunque, no? Ebbene, Dante aveva praticamente preso alla lettera quelle parole.
    «Un bel posticino, non c’è che dire». La voce di Nathan ruppe ancora una volta il vigile silenzio che si era venuto a creare tra di noi, e fu con una leggera forma di divertimento che mi ritrovai a scoccargli un’altra rapida occhiata. Si guardava intorno con attenzione, le mani nelle tasche dei larghi calzoni che indossava. Sebbene sembrasse rilassato, la mascella contratta e i muscoli tesi delle spalle smentivano quell’impressione.
    «E non hai ancora visto l’interno», lo presi in giro, gettando qualche occhiata a destra e a sinistra prima di fargli cenno di farsi più vicino. Poco distante da noi si trovava una normalissima casetta che dava sul parco, e fu proprio lì che ci dirigemmo. Sentivo la tensione farsi sempre più pesante mano a mano che avanzavamo, addentrandoci oltre la siepe che si ergeva nel piccolo giardino nel quale eravamo appena entrati.
    All’apparenza quell’abitazione appariva normale, esattamente come tante altre. Era fatta in mattoni rossi e aveva una facciata composta da sole finestre, decisamente il luogo peggiore come ubicazione di una grande famiglia di vampiri. Ma era quello che c’era sotto le fondamenta a contare davvero, lì. Salendo i pochi gradini del portico, difatti, ci ritrovammo sì all’interno della casa, ma anziché dirigersi ai piani superiori, feci cenno a Nathan di seguirmi verso la cantina. Lo vidi sollevare appena un sopracciglio, probabilmente incredulo, prima di farsi strada a sua volta in quello spazio polveroso e pieno di ragnatele.
    Mi fermai esattamente al centro della stanza, sentendo lo sguardo di Nathan su di me. «Beh?» si fece sentire, guardandosi attentamente intorno. «Finita la passeggiata?» soggiunse sarcastico, sollevando appena un sopracciglio.
    Io, però, mi limitai ad indicare il pavimento di legno ai nostri piedi. «Ci stanno aspettando qua sotto», ribattei, abbassando lo sguardo per osservare le assi. C’era movimento, riuscivo a sentirlo sulla pelle come se una miriade di formiche avesse cominciato a camminarmi addosso. E la sensazione peggiore fu proprio il potere che mi attraversò come una scarica elettrica. «Sembra che Sebastian si sia già accorto di noi, tra poco verrà a prenderci».
    L’incredulità che si dipinse sul viso di Nathan non mi sfuggì affatto. «Vuoi davvero farmi credere che vivono relegati qui?» mi chiese, dilatando di poco gli occhi. Facevamo tanto per cancellare gli stereotipi di noi vampiri ed ecco che ci trovavamo ad affrontarne una. Davvero ironico.
    «Per quanto ti possa sembrare impossibile, è esattamente così».
    «Non posso crederci. Anzi, mi rifiuto di crederci».
    Quelle sue parole mi divertirono, ma mi astenni dall’aggiungere altro. In fin dei conti neanche io ci avevo creduto, secoli prima. Eppure ci trovavamo esattamente nello stesso punto, adesso.
    Aspettammo che qualcuno venisse a prenderci, giacché non avremmo mai potuto varcare quella soglia senza esserci prima presentati ai padroni di casa. Avevano un modo tutto loro per sapere quando avevano ospiti, e non solo grazie alla piccola telecamera di sorveglianza piazzata tra i due scaffali alla mia destra. Era pressoché invisibile, abilmente nascosta dagli scatoloni e dalle cianfrusaglie.
    Quasi angosciata, cominciai a torcermi le mani. Avevo bisogno di non pensare a cosa ci attendeva sotto quella casa, e ancor prima che potessi rendermene conto io stessa fu un’immagine fulminea a passarmi dinanzi agli occhi. «Ehi, sacco di pulci», esordii piano, quasi cautamente, come se faticassi a rendermi davvero conto dei pensieri che avevano cominciato ad affollarmi la mente.
    Ci guadagnai giusto un’occhiata, vedendolo sollevare entrambe le sopracciglia. «Uhm?» fece, sbattendo poi inconsapevolmente le palpebre.
    Mi presi ancora un po’ di tempo prima di rispondergli, concentrata falsamente sulle venature del legno ai miei piedi. Avevo anche un laccio delle nike allentato, ma non mi chinai a rifarlo. Quante cose si notavano quando non si voleva arrivare al nocciolo della questione, eh? «Non mi avevi mai detto che tua cugina Giselle fosse diventata così carina», me ne uscii, stupendo me stessa e probabilmente anche lui.
    Difatti sorrise, piacevolmente sorpreso di quel mio complimento. Era raro che sprecassi belle parole per qualcuno, figurarsi per un licantropo di sesso femminile. Un bel faccino, di uomo o di donna che fosse, non mi aveva mai conquistata tanto come quello di Giselle. Infatuazione? Sperai vivamente di no. «Tu non me l’hai chiesto», replicò bonario, e decisi di lasciar perdere. Un po’ perché mi sarei incazzata inutilmente - e non era proprio il caso, in quel momento -, ma la ragione principale fu l’aprirsi di una botola sul pavimento, esattamente a poca distanza da noi.
    Come in un sogno, vedemmo la copertura di legno aprirsi lentamente e poi far capolino una testa dai capelli brizzolati. Quegl’occhi che ci squadrarono avrei potuto riconoscerli fra mille: Sebastian, il maggiordomo di famiglia, era venuto ad accoglierci proprio come avevo previsto. Aveva la sua solita aria blanda e distaccata che l’aveva sempre caratterizzato, e fui quasi lieta di vedere che non indossava quello stupido frac che lo faceva assomigliare ad un pinguino. Un bel miglioramento, visto che avevo proprio bisogno di qualche cambiamento. Non sapevo però se fosse meglio vederlo in completo oppure con quei pantaloni color cachi e quella camicia. Probabilmente la prima, già. Vestito così mi faceva decisamente impressione.
    Fece scorrere lo sguardo prima su Nathan e poi su di me, sorridendo brevemente. Ma si capiva fin troppo bene che quel sorriso era soltanto una facciata e non voleva significare niente, in realtà. Sebastian era un bravissimo attore. «Vi abbiamo sentita arrivare da lontano, signorina», disse con voce pacata, chinando di poco il capo. «Il Nobile Dante fremeva dalla voglia di ricevere una sua nuova visita da tantissimo tempo, ormai».
    Certo, immaginavo. Andare a casa sua equivaleva ad un bel giro sul patibolo, poco ma sicuro. Mi sforzai dunque di apparire a mia volta cordiale e, senza spiegargli il reale motivo di quella nostra presenza - né tanto meno gli dissi perché avevo portato con me un licantropo, facendo passare Nathan per un mio schiavo di sangue -, attesi che lui ci facesse cenno di avvicinarci alla botola e ci facesse strada, sentendo dentro di me la pressione provocata da tutto quel potere che scaturiva dalle viscere della terra.
    Avevo preso la decisione peggiore di tutta la mia vita, decisamente.



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