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Autore: TittaH    26/07/2011    3 recensioni
-Cambiare vita è sempre stato il mio sogno, sin da bambina; sognavo l’America, volevo andare a New York ed esaudire i miei desideri che in Italia non avrebbero mai preso forma.-
La storia di una ragazza al confine tra sogno e realtà.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Chapter three
 

 

Dicono che quando sei lontano dalla tua famiglia l’unico momento in cui ti senti realmente solo è la notte, perché per tutta la giornata cerchi di tenerti impegnato per non pensare, ma la notte quando ti rinchiudi nel tuo mondo sale la malinconia.
Stamattina dopo l’incontro con Stefano ho fatto un giro, mi son persa in un piccolo quartiere malfamato, ho visto qualche writer, qualche rapper, qualche prostituta e qualche Echelon.
Già, c’erano anche loro e stavano incollando dei volantini che raffiguravano loro tre sorridenti e una scritta accanto ai loro volti: Mars Night this Saturday in New York.
Mi sono brillati gli occhi e ho sorriso esageratamente, prendendo un volantino dalle mani di una ragazzina bassa e cicciotta con i capelli arancioni e biondi.
Ci siamo scambiate uno sguardo di intesa e giuro che lei ha capito tutto.
Ho riposto il foglietto nella borsa e ho ritrovato la via di casa, dirigendomi in hotel.
La solita receptionist altezzosa mi sorride finta ed io ricambio.
Non so perché le sto antipatica, ma lei lo è a pelle per me.
Vado a passo spedito in stanza e mi tolgo gli abiti per una doccia. Cavolo quanto si suda sotto il sole americano!
Dopo il mio quarto d’ora di relax, mi dirigo nella hall per prendermi qualcosa da mangiare e opto per un piatto di verdure miste e un po’ di carne. Spero sia carne di maiale o almeno pollo, perché altri tipi non ne mangio.
Non ci faccio molto caso, ma divoro tutto nel mio tavolo solitario accanto alla finestra.
Osservo il mondo fuori e noto che è tutto come mi aspettavo: caotico, pieno di smog e rumore, enorme.
Tutto qui, in America, sembra troppo grande, così tanto da farmi sentire ancora più piccola.
Bevo un sorso d’acqua naturale e mi stiracchio un po’ sulla sedia, sentendo l’impellente bisogno di una sigaretta.
Mi metto in piedi e vado fuori dalla porta principale, poggiandomi al muro e aspiro rumorosamente buttando fuori il fumo quasi sbuffando.
Finalmente qui posso fumare senza che nessuno mi minacci di dirlo a mio padre o senza le mie amiche a rompermi.
E’ anche vero che ho problemi abbastanza seri alla tiroide, ma non è mai morto nessuno. O sì?
Ci faccio poco caso e butto a terra il mozzicone, schiacciandolo con la scarpa.
Rientro e salgo in stanza, dove faccio un breve resoconto della giornata col cellulare e lo invio a mio fratello e alla mia best, che so passeranno parola evitandomi di scrivere a tutti la stessa cosa.
Mi addormento senza neanche rendermene conto e mi sveglio quando ormai fuori è buio.
Le otto di sera!
Il fuso orario mi ha stordito e la caoticità della città ha contribuito ad indebolirmi.
Mi affaccio alla finestra della mia camera e sento un buco nello stomaco. Non è fame, ma consapevolezza.
Sì, sono consapevole di essere dove volevo ma di voler essere nel luogo dal quale volevo scappare.
Mi manca casa, di già, e mi chiedo se resisterò qui da sola, in un albergo.
Da ragazza, quando sognavo questo momento, mi son sempre chiesta come avrei fatto senza una casa, senza un lavoro e senza nessuno al mio fianco, ma rimandavo le paranoie ad altra data; ora quella data è qui, sotto i miei occhi e dentro la mia testa, e mi sento come quando da bambina mi perdevo nel supermercato e piangevo, credendo che non sarei mai più tornata a casa.
La differenza è che non sono in un supermercato e che non c’è mamma o papà che all’improvviso mi stringono a loro.
Ricaccio indietro le lacrime e cerco la Luna dietro i vetri chiari, ma non la trovo.
Possibile che i grattacieli sono così alti e luminosi da oscurare una Luce così bella e forte?
Le lacrime che non volevo versare scorrono imperterrite sul mio volto e prendo a stringere un peluche a caso su quel letto disfatto.
Singhiozzo, sapendo che questa è la prima di una lunga serie di crisi, e penso che voglio tornare a casa, ma c’è un pensiero fisso a tormentarmi e a farsi spazio nella mia mente affollata: Stefano.





Mattino inoltrato, apro gli occhi e mi rendo conto di essere vestita come ieri pomeriggio e di essere abbracciata a quello strano elefantino di peluche.
Sorrido e vado in bagno a darmi una sistemata, dato le lacrime che mi hanno fatto diventare gli occhi fastidiosamente appiccicaticci e le guance nere di rimmel colato.
Una volta vestita- jeans chiaro, maglia bianca e gilet nero, Converse bianche e nere e borsa enorme- e pettinato i miei capelli, che restano sciolti, scendo al piano di sotto con l’intenzione di fare colazione ma una lampadina si accende sulla mia testa.
Sorpasso la sala da pranzo e la hall ed esco dirigendomi al bar del sorriso italiano.
Ormai la strada la so a memoria, dato che è dietro l’angolo, e lo saluto dopo essermi accomodata su uno sgabello.
E’ stranamente vuoto oggi, ma sarà per l’ora- che è quella di punta- e per il fatto che io abbia dormito troppo per i loro standard e troppo poco per i miei.
Anna!” mi saluta Stefano con un raggiante sorriso stampato sul volto.
Stefano. Il solito, grazie.” dico, rispondendo al sorriso.
C’è uno strano ed imbarazzante minuto di silenzio che viene interrotto dalla sua voce calda che mi chiede: “Come mai qui?
Sapevo di dover rispondere a quella domanda, che prima o poi mi sarebbe stata posta, e sapevo che lui si aspettava storie strappalacrime o robe simili.
Rido.
Voglio realizzare i miei sogni, tutto qui.
Lo trovo stranamente impassibile, o almeno per nulla sorpreso, e mi porge il bicchiere che lascio un po’ sul banco a raffreddare.
E quali sarebbero, se posso permettermi?
Annuisco leggermente e pianto i miei occhi nei suoi.
Piccolo brivido e una spruzzata di rossore sulle mia guance, ma nascondo il tutto dietro l’enorme fondo del bicchiere.
Bevo e mi sento riscaldata fin dentro alle viscere e so che non è il caffè.
Ora come ora il mio sogno più grande è trovare un lavoro con il quale permettermi una casa, dato che sul punto ‘amici’ sono avvantaggiata, italiano!
Mi rincuora sentirlo ridere di gusto alla mia allusione, ma poi torna serio e si appoggia su un gomito fissandomi.
Quale lavoro vorresti fare?
Poggio il bicchiere sul banco e sospiro, piano.
Uno qualsiasi come lavoretto part-time, ma il mio sogno più grande è quello di lavorare nel mondo della musica come assistente.
Annuisce e si volta per prendere un bicchierino in vetro colmo d’acqua.
E tu?” domando. Mi guarda leggermente incuriosito. “Perché sei fuggito dall’Italia?
Si siede su un elettrodomestico- che non colgo bene cosa sia- e sorride, scrollando le spalle con noncuranza.
Avevo bisogno di un diversivo alla mia vita, di un modo per scacciar via la noia e di un posto in cui essere me stesso senza influenze o giudizi.
Me lo dice come se fossi un’amica di sempre e non una semplice sconosciuta quale sono.
E come hai ottenuto il tuo primo lavoro?” gli chiedo come a voler prendere spunto per il mio futuro.
Esattamente come te!” risponde non risparmiandosi un sorrisone che mi scioglie. “Appena arrivato sono entrato in questo Starbucks e c’era un ragazzo dietro al banco. Non era italiano, ma comunque prendemmo subito confidenza. Una sera uscimmo insieme e mi propose di dargli una mano al bar e io ovviamente accettai, così potei comprarmi la mia prima piccola casa. Poi un giorno mi chiese di andare a festeggiare con lui, ma rifiutai perché stavo poco bene; avevo un presentimento e non mi andava di uscire.
Nel giro di un paio d’ore venni a sapere che il mio amico era stato investito e aveva perso la vita. Il bar è mio da allora e nonostante siano passati sette anni, sento molto la sua mancanza.

Mi commuovo leggermente e mi pento di avergli fatto quella domanda, ma quando provo a scusarmi lui scuote il capo e io rinuncio.
Fa così male all’inizio? Stare lontano da casa, intendo.
Gli porgo quella semplice domanda con un filo di voce e lo vedo annuire.
Non sono mai stato legato alla mia famiglia e alla mia terra e avevo pochi amici, ma andare via all’improvviso e ricominciare da zero fa male. Per un periodo sono andato da uno psicologo, ma poi ho smesso e ho preso a fidarmi di Zecke, il mio amico che è morto. Ora ci sei tu, però…
Lascia in sospeso la frase, forse per tatto o per farmi pensare alla lontananza- non so!-. ma poi ricomincia a parlare e io sorrido.
Verresti stasera con me? Ti faccio conoscere qualcuno così da risparmiarti tante sedute da uno psicologo.
Ridiamo di gusto e mi trovo costretta ad accettare, anche perché così posso sdebitarmi e ripagargli per quello che inconsciamente- o forse no- sta facendo per me.
D’accordo!
Mi regala uno dei suoi splendidi sorrisi ed un pensiero, tanto fuori luogo quanto affrettato, prende forma nella mia testa.
Ho trovato sollievo in un paio di occhi chiari ed un sorriso che sa di casa.

  
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