Anime & Manga > Ranma
Segui la storia  |       
Autore: Mark MacKinnon    28/07/2011    4 recensioni
Questa non è casa tua.
Questa gente non è la tua famiglia, i tuoi amici, non importa quanto ci somiglino.
Non puoi stare qui.

Il capolavoro di Mark MacKinnon tradotto da Il Corra Productions, una delle ff più sconvolgenti mai scritte, torna riveduto e corretto.
"Diavolo, non posso biasimare Ryoga per non aver capito la differenza", disse alla fine. "Non potrei trovarla neanche io. Sembri proprio uguale a me".
"In un certo senso, io sono te".

ULTIMO CAPITOLO ON LINE.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'The Shadow Chronicles' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

CAST A LONG SHADOW

di
Mark MacKinnon



traduzione
Il Corra Productions




III

Solo sopravvissuto





La tiepida brezza primaverile, carica del profumo dei boccioli di ciliegio, soffiava sulla casa come la carezza di un amante. Il sole irraggiava calore e benevolenza su ciascuno sotto il cielo. Era proprio un perfetto giorno di primavera, un giorno dove non può capitare nulla di brutto.
Certo. Come no.
Guardai attorno al tavolo e soppressi un brivido. Sembrava così irreale, e allo stesso tempo così familiare, che mi ritrovai a chiedermi se i miei ricordi non fossero solo un sogno, se questa non fosse la mia vita, un’esistenza semplice e serena dove le persone che amavo non erano morte in modo orribile.
Ma non potevo rifuggire dalla realtà della situazione, o dal fatto che lì c’era un altro Ranma. Il mio passato era reale, come questo presente, e ora quelle persone, che erano state messe in pericolo dalla mia presenza, stavano aspettando una spiegazione.
Già, era un bellissimo giorno di primavera, e mi accadeva di essere il tizio che ci avrebbe depositato dentro un gran mucchio fumante di pazzia.
"Lui aveva detto che probabilmente ci sarebbero state delle differenze, ma non ne ho ancora viste". La mia voce risuonò innaturalmente alta nella stanza. Tutti stavano guardando me, e mi resi conto che non era stata una buona partenza. Feci una smorfia, sentendomi in imbarazzo. "Ok, partiamo dal principio. Apparentemente, non c’è solo una terra. Ce ne sono molte. Alcune sono molto simili a questa, altre sono davvero strane. Secondo quello che mi ha detto Jack, io sono di uno di quei mondi che assomiglia molto a questo. Conosco... conoscevo tutti voi. Vivevo in una casa proprio come questa, e facevo colazione davanti a una tavola del tutto uguale a questa...". La gola minacciò di chiudersi e mi fermai, prendendo un profondo, palpitante respiro. "Scusate. Sarà piuttosto difficile da credere. Beh", aggiunsi dopo un momento, "dopo quello che avete visto qualche minuto fa, forse non così difficile. Comunque, io vengo da un’altra terra. Ok?". Nessuno rise o mi accusò di mentire, così supposi di poter continuare. "Ok. Bene. Era proprio come questa, credo, fino a una settimana e mezzo fa circa. Fu allora che cominciò". Mi fermai, studiandomi attentamente le unghie.
"Cominciò cosa?", mi spronò gentilmente Kasumi dopo un lungo momento.
"Non feci molto caso alle notizie all’inizio", mormorai alla fine. "Storie dagli Stati Uniti di mostri che attaccavano la gente a New York. Diavolo, nessuno ci credeva, e poi, era tutto così lontano!". Li supplicai di capire, come se qualcuno mi avesse accusato. Come se, prestando attenzione all’inizio, avessi potuto in qualche modo prevenire a quello che stava per succedere. "Fin dal giorno dopo, c’erano fotografie, riprese dalla Germania e dall’Inghilterra all’inizio, poi da altre città dell’Europa e del Nord America. Poi da tutte le parti. Erano dappertutto, così in fretta. Niente li fermava a lungo. Se qualcuno provava ad alzare una trincea, loro comparivano oltre. Il terzo giorno, arrivarono in Giappone".
"Chi?", chiese Ryoga, "Chi erano?".
"Mostri. Demoni. Progenie infernale, orchi, oni. Come venivano chiamati dipendeva da dove ti trovavi". Chiusi gli occhi, ricordando. "Ma non erano umani. Erano mostri, assassini. Cominciarono a farsi vedere da tutte le parti, uccidendo tutti, distruggendo tutto. Gli interventi dell’esercito e della polizia ne rallentavano alcuni. All’inizio. Ma mai abbastanza, e mai molto a lungo. Dal quarto giorno, non ricevevamo più notizie dall’Europa. Le notizie che ricevevamo ancora erano tutte cattive. La gente correva letteralmente per le strade, urlando, pregando, piangendo. Nessuno aiutava l’altro. Cominciavo a capire che queste cose ci stavano invadendo, e noi stavamo perdendo".
Mi fermai, lanciando sguardi attorno alla tavola. Tutti gli occhi erano su di me, nessuno sembrava neanche respirare. Raccolsi il mio coraggio e mi dissi di continuare e basta.
"Quinto giorno". Avevo la gola secca. Cercai di deglutire e non ci riuscii. "Noi... alcuni di noi... i telefoni non funzionavano e così...". Mi fermai, cercando di deglutire ancora. "Ci volevamo raggruppare tutti insieme qui, per decidere se restare e resistere o raggiungere la folla che cercava di uscire dalla città. Io uscii... per... e fu allora che...". Abbassai la testa, sentendo punture calde di lacrime negli occhi. Non le avevo ancora piante tutte? Sembrava impossibile che ne avessi ancora.
Impossibile.
Una mano mi toccò gentilmente sul braccio. Non alzai lo sguardo per vedere chi fosse. Ero troppo occupato a tentare di ingoiare il groppo che avevo in gola. Finiscila, mi dissi rabbiosamente, DIGLIELO!
"Ranma". Era sua madre. La sua, non la mia. "È tutto a posto. Fai con comodo". Annuii, ingoiai un respiro, poi un altro.
"Loro. Hanno ucciso. Tutti". Lo tirai fuori, sputando selvaggiamente le parole. "Tutti. Sono arrivati così in fretta, non abbiamo avuto tempo, non abbiamo avuto allarmi, e loro hanno semplicemente ucciso tutti". Ecco. Ora lo sapevano. Sentii un paio di lacrime traditrici scappare dalle palpebre serrate e scivolare lungo le guance. Alla ricerca di un posto più felice dove stare, probabilmente. Ryoga ruppe il silenzio attonito.
"Tutti loro? Noi? Morti?". Annuii, deglutendo a fondo.
"Non ricordo bene quello che è successo dopo, ma non mi sembra di aver visto nessun altro per tutto il tempo prima che lui mi fosse venuto a prendere".
"Lui? Intendi quell’uomo?", chiese Akane. "Lui... ti ha salvato?"
"Beh, in un certo senso", dissi, cercando di stirare il mio volto irrigidito in un ghigno. "Ero là che stavo attraversando quello che era rimasto di un negozio, e questa porta praticamente mi appare davanti. Esce questo tizio e dice: "Ranma Saotome?", io dico sì, ed entriamo. Lui cura le mie ferite e mi dice che il mio mondo è finito. Come se non l’avessi notato". Mi fermai, cercando di ricordare esattamente come fosse andata. "A quanto sembra, lui appartiene a un’organizzazione che sorveglia tutti questi mondi paralleli. Disse che il mio mondo era concluso, o corrotto, o che so io. Comunque, disse che visto che sarei sicuramente morto se fossi rimasto, aveva il permesso di portarmi con lui dalla sua gente e mettermi a lavorare per loro".
"Che?". Tutti reagirono con sconcerto.
"Già. Allora cominciai a infuriarmi. Gli chiesi perché non era venuto prima, perché non aveva salvato anche qualcuno degli altri. Lui disse... disse che i suoi ordini erano solo per me. Nessun altro". Strinsi i pugni, mentre il ricordo spazzava via la mia pena con un’ondata di rabbia. "Sembrava sorpreso quando l’ho colpito. Gli dissi di riportarmi a casa, ma si rifiutò. Allora impazzii. Lasciai andare una scarica di energia che colpì la sua nave, o qualsiasi cosa fosse. Aveva detto che stavamo viaggiando tra i mondi paralleli e quando danneggiai la nave atterrò qui. Lo... convinsi a lasciarmi uscire. Immagino che si sia sentito piuttosto male quando ha ripreso conoscenza". Sogghignai, ma nessun altro lo fece. Dopo un momento, lasciai scivolare via la smorfia. "E quando me ne sono andato, mi sono ritrovato qui. All’inizio, sembrava quasi che fosse stato un brutto sogno, ma non c’è voluto molto per capire che aveva detto la verità. Questa non era la mia casa. Cominciai a seguire Akane e Ranma perché, beh, perché non sapevo cos’altro fare. E non lo so ancora. Io non sono di qui. Io non sono più di alcun posto. E questa è tutta la dannata storia".
Non era tutta qui, in effetti. Avevo omesso un sacco di cose, cose di cui preferivo non parlare, ma non pensavo che qualcuno avrebbe insistito fino a quel punto. Tutti loro mi credevano, il che li metteva nella non invidiabile posizione di dover decidere sul come sentirsi per la morte di un gruppo di gente che non avevano mai conosciuto, di cui non avevano mai sospettato l’esistenza, ma con cui avevano nondimeno condiviso una strano genere di vincolo.
Dovevano meditare sulla realtà della loro mortalità, della loro morte. Ma almeno non avevano dovuto guardarla accadere. Mentre uno sgradevole silenzio calava nella stanza il giorno, ignaro del mio dolore, continuava a essere magnifico. Gli uccellini cantavano, il sole splendeva, e da qualche parte nelle vicinanze bambini giocavano contenti. Tutto il mio mondo, tutta la mia vita erano finiti, ingoiati dalle ombre, ma la vita continuava normalmente per tutti gli altri. Nessuno avrebbe seppellito i morti, eretto lapidi per loro, pianto per loro. Ricordandoli. Nessuno tranne me.
Ero l’ultimo, e in quel momento mi sentivo solo in un modo che non penso sia possibile spiegare veramente. Tutto solo.
"Ranma". La voce mi strappò dagli abissi vertiginosi del buio con una forza quasi fisica. Sbattei le palpebre e alzai lo sguardo. Mamma. Non potevo pensare a lei in nessun altro modo, anche se non era davvero mia madre. La sua espressione era così tenera, così calda che sentii di nuovo un nodo stringersi nella gola. Sorrise, così gentilmente, alla mia espressione. "Mi dispiace davvero per quello che hai passato", disse quietamente. "Non so se qualcuno di noi può davvero capire come ti stai sentendo, o quanto faccia male trovarsi qui tra i volti di chi hai perso. Ma non sei più solo. Ti possiamo aiutare a superare questa situazione". Curvai il capo e singhiozzai forte.
"Grazie, ma... Signora Saotome". Dio, certo che suonava strano! "Ma non posso restare qui ora. Jack sa dove mi trovo, e tornerà a cercarmi. Non posso mettervi tutti in pericolo in questo modo. Me ne andrò, e basta".
"Ranma". Il suo tono era cambiato. Non era quello freddo, glaciale che aveva usato con Jack, o quello caldo e materno che aveva usato prima in palestra o adesso con me. Era una combinazione dei due, piacevole ma fermo, che non ammetteva repliche. "Tu vorresti che noi ti abbandonassimo, proprio quando hai maggiormente bisogno di amici? Vuoi chiederci di agire così ignominiosamente? Dopo che hai salvato la vita di Akane, questo sarebbe un peccato imperdonabile. Io, per cominciare, non ho alcuna intenzione di consegnarti a questa gente". La guardai. Cominciavo a capire perché papà avesse avuto paura di lei per tutti questi anni. Era una dura, e rendeva molto difficile dire di no. Si voltò verso il signor Tendo, alzando un sopracciglio. Lui annuì, a braccia conserte.
"Giusto, ragazzo. Puoi stare qui finché vuoi", disse con fermezza. "Quando quel bruto ritornerà, assaggerà il sapore dell’ira della scuola di Lotta Indiscriminata!".
"Ma...". Dissi.
"Quanto lontano vuoi correre, Ranma?", chiese Ryoga. Ora questo era scorretto, usare le mie stesse parole contro di me. "Mi hai detto che hai corso molto a lungo, e non ti ha aiutato. Ricordi? Non aiuterà neanche stavolta. Presto o tardi dovrai fermarti e prendere una decisione. E dovrebbe accadere qui, dove non dovresti farlo da solo".
"Non importa chi sei, o da dove vieni, sei sempre Ranma. Non lasceremo che qualcuno ti porti via", aggiunse Akane. Quando vide che tutti la stavano guardando, arrossì furiosamente. "Allora?", chiese imbronciata. La mamma sorrise con gentilezza.
"Akane dice il vero, Ranma. Sei sopravvissuto a una grande tragedia, e il fato ti ha condotto qui. Sei tra amici ora. Non ti abbandoneremo". La fin troppo abusata voce della mia coscienza rincominciò a urlare, dicendomi che non avrei dovuto ascoltarli, che la mia presenza poteva significare solo guai per questa gente. A ogni modo, quella piccola voce non aveva vinto in molte discussioni di recente, e quella non sarebbe stata un’eccezione. Sentii la tensione allentarsi attorno al cuore, e osai sperare.
Guardai i visi che mi circondavano, e sentii qualcosa che non avevo sentito da quella che sembrava un’eternità.
Gioia.
Era come se fossi arrivato a casa.


Jack si lasciò cadere sulla poltrona fluttuante e si mise a giocherellare distrattamente con il bracciolo. Una voce che proveniva dall’aria lo riscosse dal suo sogno a occhi aperti.
"Odio dire che te l’avevo detto...", cominciò boriosamente Scooter.
"Stai mentendo".
"Ok, come vuoi. TE L’AVEVO DETTO! Ti senti meglio ora?".
"Francamente, no".
"Beh, ottimo, perché francamente questo è stato un disastro senza attenuanti. L’unico lato positivo di questo casino è che non è più un nostro problema".
Jack continuò a guardare apaticamente la luce che si rifletteva sulla canna della sua pistola e non disse niente.
"Perché è ovvio che ora dobbiamo chiamare quelli dell’Ops", continuò Scooter con allegria forzata.
Jack sollevò la pistola e la chiuse nella sua fondina.
"Giusto?", chiese debolmente Scooter.
Jack si risedette e incrociò le braccia.
"OH ANDIAMO! Non dicevi sul serio riguardo a dargli un paio di giorni per pensarci su, vero?".
Jack chiuse gli occhi.
"Temo di sì". La consolle di comando rimase silenziosa per alcuni istanti.
"Ti piacerebbe sapere di preciso quante direttive romperebbe quell’azione? Voglio dire oltre alle quattordici che abbiamo già infranto".
"Non proprio".
"Bene allora, mettiamola in questo modo. Shetney ci farà fuori entrambi".
"Tu sei un’IA", gli ricordò Jack.
"Allora mi smantellerà! Dannazione, Jack, a cosa stai pensando?". Jack guardò pigramente il soffitto, dondolando la poltrona avanti e indietro. Scooter sospirò. "Lascia perdere. Penso di conoscerti abbastanza bene da sapere quale sia la causa".
"Non ce la metteranno in conto".
"Ascolta. Noi siamo un’unità di pattugliamento. Non siamo attrezzati per queste cose". Scooter parlò con frasi brevi e precise, cercando di far ragionare il suo comandante. "L’Ops lo è. Dovremmo chiamarli ora".
"Quegli scimmioni riuscirebbero solo a combinare un casino. Senti, so cosa sto facendo. Qual è l’indice di compatibilità di questo mondo con quello di Saotome?".
Uno schermo si accese su una delle pareti ricurve, mostrando due globi trasparenti. Uno diceva Terra Impegnata 413, l’altro Terra Impegnata 417. Le due immagini si sovrapposero lentamente finché non furono perfettamente allineate. Jack fischiò.
"Novantasei punto quarantuno percento. Dannazione, sono vicini".
"Dannazione, questo non va! Sarà praticamente identico alla sua controparte!", gemette Scooter. "Jaaaaaack...".
"Ti dovrai fidare di me", replicò Jack con tono assente, studiando lo schermo. "Diamogli un po’ di tempo per riprendersi dallo shock, per abituarsi alla situazione".
"La centrale vuole davvero questo tizio, Jack. Avrebbero mandato tutte le squadre Ops di Sector se solo TI 413 non fosse collassata con così poco preavviso. Non ci possiamo permettere di scherzare con questa roba!".
"E perché là c’era un panda, poi?", chiese Jack. Scooter si interruppe bruscamente. Ci fu un breve silenzio.
"Non hai letto il briefing della missione?", chiese con incredulità.
"Sono un Ufficiale di Pattuglia, non un mezza manica dell’Ops. Shetney ci ha chiamati fuori dal settore per l’emergenza…".
"Non hai letto il briefing della missione".
"La prima priorità era tirarlo fuori da quel mondo distrutto...".
"Non posso crederci che non hai letto...".
"L’ho sfogliato, ok? Ho programmato nei sensori l’impronta del tipo...".
"Bello sforzo. Era facile da trovare, c’era un solo rilievo di vita umana rimasta in quella parte della città! Trovarlo in un ambiente urbano ad alta densità di popolazione come questo sarà molto più difficile!".
"Non scapperà". Jack sospirò, sfregandosi la faccia con entrambe le mani. "Senti, parlo per esperienza. Se proviamo a forzarlo ora, ci causerà problemi in futuro. Sarà meglio per tutti se decide di seguirci di sua spontanea volontà".
"Sector ci uccide se lo scopre", disse Scooter alla fine. Jack grugnì.
"Allora non diciamoglielo. Cerca di collaborare un po’, ok? Quarantott’ore, è tutto quello che chiedo. Poi, se il mio metodo non funziona, chiameremo i rinforzi". Ci fu un lungo, spiacevole silenzio.
Alla fine, Scooter sospirò rumorosamente.
"Se non funziona, Sector ci seppellirà entrambi", borbottò.
"Sai, le Intelligenze Artificali non sospirano".
"Al diavolo".


La tavola dopo il pranzo era stata sparecchiata e i Tendo e i Saotome vi erano seduti attorno. Avevano tutti evitato di sondare troppo in profondità il passato del nuovo Ranma, forse perché significava risparmiargli il dolore del ricordo, forse perché nessuno voleva pensare al fato delle loro controparti. La conversazione ritornò dunque alla logistica della situazione.
"Allora, come ti dobbiamo chiamare?", chiese Nabiki a Ranma. Lui sembrò confuso.
"Che vuoi dire?".
"Voglio dire", disse, "che abbiamo già un Ranma Saotome tra di noi. Tutte le volte che qualcuno vi chiamerà per nome, risponderete entrambi. Dovremo trovare un modo per chiamarti".
"Ma è il mio nome", protestò lui. Gli occhi di Nabiki si strinsero pensosamente. Poi, senza preavviso, svuotò il suo bicchiere d’acqua sulla testa di Ranma.
"Ehi! A cosa devo questo?", chiese oltraggiata la neo-rossa bagnata. Nabiki sogghignò.
"Volevo solo essere sicura", disse.
"Ti sei divertita", brontolò Ranma-chan, strizzando l’acqua in eccesso dalla camicia.
"Moi?", chiese innocentemente Nabiki. Tutti attorno alla tavola la guardavano attentamente.
"Ora che sono entrambe ragazze", disse lentamente Genma, "si vede quanto si assomigliano".
"Identiche", concordò Soun.
"Oh, cielo", disse Kasumi.
"Così la mia idea", disse Nabiki, "è questa: facciamo incontrare Ranma e Ranko Saotome".
"Che cosa?!", saltarono in coro le due Ranma.
"Che idea stupida", disse Akane. "Vuoi che Ranma rimanga ragazza per tutto il tempo? Non accetterà mai, Nabiki!".
"Sicuro come l’inferno che non accetterò!", sbottò Ranma-chan. La sua espressione si cambiò in sorpresa nel vedere Nodoka ridere.
"Beh, non penso che tu debba rimanere ragazza, ma potresti usare il nome, no? Dopo tutto, l’hai usato in passato". I suoi occhi brillarono di malizia mentre entrambe le Ranma si guardavano a disagio. Non era piacevole ricordare che avevano passato un bel po’ di tempo mentendo a Nodoka.
"Già, non devi cambiare ufficialmente nome. Consideralo un soprannome", disse Nabiki.
"E dovrete cominciare a vestirvi in modo diverso", puntualizzò Kasumi.
"Ma mi piace vestirmi così!", protestò Ranma-chan.
"Già", approvò Ranma-chan. "È comodo e si adatta a entrambe le forme".
"Beh, magari camicie di colori diversi, allora", rifletté Kasumi.
La conversazione stava assumendo toni problematici, e le due Ranma sembravano disorientate.
"Scusa, amico. Sembra che ti complicherò ancora di più la vita", sorrise Ranko-chan.
"Ehi, non c’è problema", sospirò Ranma-chan. "La vita da queste parti è sempre un bel po’ complicata. Vieni, andiamo a farci un bagno. Almeno non ci toccherà passare la notte in queste condizioni". Gli occhi di Ranko-chan si illuminarono alla menzione di un bagno. Le due si scusarono e salirono le scale.
"E allora, Akane, non sei fortunata?", chiese Nabiki.
"Che vuoi dire?".
"Beh", ripose allegramente, "ora hai due fidanzati, giusto? Se litighi con uno, puoi andare dall’altro. Giusto?". Il viso di Akane si tinse di un’allarmante sfumatura di porpora.
"Nabiki!", esclamò Kasumi, scioccata.
"Io... io non… voglio dire...". Akane sembrava aver perso la facoltà di parlare.
"Vuoi dire che non ci hai neanche pensato?", la stuzzicò la sorella.
Akane continuava a balbettare. Era chiaro che non l’aveva fatto.
Nodoka non sorrideva. La situazione si era presentata così improvvisamente che con ogni probabilità nessuno di loro aveva colto tutte le implicazioni della presenza di Ran… di Ranko. Se era davvero un’altra versione di suo figlio, condivideva i suoi sentimenti per Akane? E se era così, cosa sarebbe successo?
Per la prima volta, Nodoka cominciava a capire quanto complicata la situazione potesse diventare.


La da poco battezzata Ranko-chan aveva appena finito di riempire la vasca quando Ranma-chan entrò nel bagno con alcuni teli e vestiti puliti. Si sedette su uno sgabello e si voltò per vedere Ranko-chan scivolare fuori dai pantaloni. Ranma-chan si sentì stranamente a disagio quando la camicia di Ranko-chan toccò il suolo. Stava guardando la schiena di una donna nuda.
Dacci un taglio, si disse severamente. Lei è un uomo e lo sei anche tu, e tu hai già visto quel corpo centinaia di volte.
Eppure, avvertiva la stranezza della situazione. Cominciava a capire perché le persone andavano giù di testa quando correva per la casa mezza nuda.
"Whoa. Sono giorni che non mi faccio il bagno", sospirò Ranko-chan, allontanando il mucchio di vestiti sporchi con il piede. "E questi vestiti hanno visto giorni migliori... uh?". Si voltò, gratificando Ranma-chan con una vista completa del suo corpo nudo, e aggrottò la fronte. "Ehi, cosa diavolo stai guardando, maniaco? Me lo aspetto da Kuno, non da te!".
Ranma-chan stava per replicare quando qualcosa attirò la sua attenzione. Si avvicinò, osservando il petto di Ranko-chan.
"EHI PIANTALA!", esclamò la ragazza, incrociando le braccia.
"Tranquilla. Stavo solo guardando quelle cicatrici", mormorò Ranma-chan, indicando col dito. Ranko-chan abbassò lo sguardo.
"Oh", disse, più tranquillizzata. Tre sottili cicatrici partivano da sopra l’ombelico, piegandosi e percorrendo la parte inferiore del seno sinistro prima di terminare proprio sotto la spalla. Ranma-chan poteva vedere altri tagli più piccoli e scoloriti che sembravano quasi totalmente guariti.
"Vecchie ferite, eh?".
"Nah". Ranko-chan si spostò sulle mattonelle e si mise sotto l’acqua fredda. "Piuttosto recenti, a dire il vero". Si immerse nell’acqua fumante mentre Ranma-chan sgusciava dai vestiti. Quando riemerse, soffiando con soddisfazione, Ranma-chan si sedette per sciacquarsi.
"Recenti? Conosci qualche tecnica per guarire in fretta o cose del genere?".
Ranko scosse la testa mentre la sua controparte si immergeva nella vasca, rilassandosi con un sospiro.
"È stato Jack. Lui tiene un sacco di roba ad alta tecnologia in quella cosa su cui viaggia. Ha gettato i miei vestiti in una macchina che ha riparato gli strappi e lavato il sangue...". Ranko si interruppe al menzionare il sangue. Ranma grugnì.
"Dunque quel tizio lascia tutta quella gente morire, ma ti salva, cura le tue ferite e ti fa addirittura il bucato? Ma si può sapere chi è?".
"Credo che ti riservino un buon trattamento se si capita di essere qualcuno che i suoi capi possono usare", disse amaramente Ranko. "Se mai incontrerò la gente per cui lavora, gli farò vedere cosa ne penso della loro politica". Ranma si immerse oziosamente, guardando il volto del suo doppio. Ranko fissava l’acqua, e sembrava smembrato dal gioco delle luci sulla superficie ondulata. "Gliela farò pagare", sussurrò. Ranma si spostò a disagio.
"Allora secondo te perché quell’uomo ti ha dato quarantotto ore? Perché darti tempo?". Ranko alzò le spalle.
"E chi sa perché quella gente fa quel che fa? Quando torna, comunque, intendo essere pronto per lui".
Finalmente un argomento che Ranma poteva trattare. Per prima cosa dovevano far uscire tutti i non-combattenti dalla casa, naturalmente. Quell’uomo aveva una pistola, ma era un problema risolvibile. Ranma fissò il suo doppio, sentendo qualcosa che formicolava nelle profondità dei suoi pensieri. Guardare Ranko cominciava a farlo sentire a disagio per qualche ragione che non riusciva a identificare in pieno. O forse per qualche ragione che non voleva identificare.
Ehi, pensò, l’ho portato io qui. Mi fido di lui. Non è il momento di avere ripensamenti. Ranko alzò lo sguardo e vide Ranma che lo guardava. Scoccò un mezzo sorriso all’altro ragazzo.
"Proprio come guardarsi in uno specchio, eh?". A quelle parole l’espressione di Ranma si rabbuiò, poi si sforzò di sorridere.
"Già, proprio", rispose allegramente. Ranko si incupì.
"Per cos’era quell’occhiata?", chiese. Ranma lo guardò.
"Cosa?", chiese. Ranko non vide alcun segno dell’espressione scura che era passata sul volto del suo doppio solo pochi momenti prima, e decise di lasciar perdere.
"Niente".
"Ehi, mi spiace che ti secchi farti chiamare Ranko, amico", disse Ranma. "Forse potremmo pensare a qualcosa di meglio tra di noi, no?".
"Oh, mi basta che non abbiano lasciato che fosse Akane a darmi un nome", rispose l’altro. "Mi avrebbero chiamato R-chan". Ranma scoppiò a ridere. Un secondo dopo, Ranko si unì a lui. Ranma guardò il suo doppio, continuando a ridacchiare, e si disse che tutto sarebbe andato bene. Tutto si sarebbe risolto.
Ma ancora, quel dubbio pungente rimaneva sepolto nella sua mente.
Calmo per ora, ma in attesa.


Genma e Nodoka passeggiavano nelle tenebre incipienti del giardino dei Tendo. Era una serata tiepida, profumata dai boccioli di ciliegio, perfetta per le coppiette. Sfortunatamente, non era quello a cui stavano assistendo.
"Passerò più tempo qui da adesso", disse Nodoka. "Soun ha detto che sarebbe più che felice di avermi qui."
"Certamente. Le ragazze ti adorano. Hai pensato di chiedere a Tendo se puoi trasferirti qui per un po’? Oppure potremmo ritornare a casa...".
"Genma". L’espressione di Nodoka si fece burrascosa. "Non ne riparleremo più". Rimasero in silenzio per un momento, poi Nodoka sospirò e si sedette su una roccia vicina al laghetto delle carpe, drappeggiando con cura il kimono con una mano perché cadesse nel modo giusto. Genma si lasciò cadere accanto a lei in modo decisamente meno aggraziato, e sospirò.
"Forse, alla luce degli ultimi eventi, noi due dovremmo riparlarne", disse alla fine, cercando di non mostrare il suo nervosismo.
"Dieci anni. È tanto tempo da passare lontani. E inoltre, mi hai mentito, tenendo deliberatamente mio figlio lontano da me dopo il vostro... incidente. I racconti del tuo comportamento durante i vostri viaggi di allenamento continuano a disgustarmi. Per il bene di Ranma, e l’onore della nostra famiglia, suppongo che una volta o l’altra dovremo riconciliarci. Ma non ancora. Sei diventato uno sconosciuto per me, Genma. A volte mi chiedo se ti ho mai conosciuto davvero". Tacque, lasciando Genma a guardare sconsolato un petalo di ciliegio portato in volo dalla brezza errante.
Una notte per coppiette, davvero.
"Ci sarà tempo per parlare dei nostri problemi, marito. Stasera vorrei parlarti di Ranma".
"Quale dei due?".
"Entrambi, a dire il vero". Si spostò, alzando lo sguardo verso il cielo all’imbrunire. "Ranma ha passato molto tempo con te, senza entrare in contatto con altri bambini". Genma aprì la bocca per obbiettare. Lei lo guardò dalla coda dell’occhio. "Non ti sto accusando, Genma, sto solo esponendo i fatti. Ti prego di ascoltare." Lui serrò la bocca, annuendo con riluttanza. "Ranma non ha esperienze di socializzazione con i suoi coetanei", continuò. "Inoltre, è figlio unico. Sono per così dire preoccupata per come reagirà all’avere un fratello istantaneo. E sono molto più preoccupata per Ranko. La sua situazione è unica, a dir poco. Non sono sicura se averci attorno sia per lui un aiuto o un ostacolo nell’accettare la sua perdita. Non c’è assolutamente modo di sapere come si comporterà in questa situazione". Si voltò per fronteggiare con calma suo marito. Genma trattenne il fiato nell’ammirare i riflessi purpurei del sole morente sui suoi capelli. Era ancora capace di lasciarlo senza fiato, solo guardandolo.
"E?", chiese, per mostrare che stava ascoltando.
"Una cosa la so: che Ranma non è mai stato bravo nell’esprimere i suoi sentimenti", continuò, gratificandolo di un leggero sorriso. "Penso che entrambi abbiamo visto i problemi che questo gli ha causato con la sua fidanzata. Sospetto che Ranko sia molto simile a Ranma, o almeno lo era prima della tragedia che ha colpito la sua casa. Sta cercando di essere forte, tenendo tutto dentro. Sarà difficile convincerlo a parlare della sua perdita, ma credo che sarebbe utile se tu e Ranma cominciaste ad allenarvi con lui, aiutandolo ad alleviare di un po’ la tensione. Facendolo sentire a casa. Forse questo gli permetterà di aprirsi". Genma sorrise.
"Ma certo! È un’ottima idea, Nodoka. Sarei felice di fare tutto il possibile per aiutarlo". Genma era sollevato dal fatto che lei non gli avesse chiesto di parlare a Ranko. Lui sapeva di non essere affatto bravo nelle confidenze. Bastava guardare Ranma per capirlo. Ranma avrebbe preferito combattere contro cento avversari piuttosto che ammettere una debolezza o un bisogno. E lui avrebbe preferito combattere contro cento avversari piuttosto che ammettere che a volte si sentiva in colpa per questo.
"Bene".
"Vorrei dire una cosa anch’io, però". Lei alzò interrogativamente un sopracciglio. "Se... no, quando l’inseguitore di Ranko tornerà, spero che dimostrerai più buon senso di quanto ne hai dimostrato oggi. Davvero, Nodoka, minacciare un pistolero con una katana?". La donna accavallò le gambe, dondolando un piede mentre continuava a far vagare lo sguardo nel buio.
"Oh, insomma, marito. Stavo, dopo tutto, solo cercando di distrarlo mentre minacciava Akane. E poi avevo un grosso panda galante dietro cui ripararmi". Genma sbatté le palpebre. Galante? Nodoka si alzò aggraziatamente in piedi e abbassò lo sguardo sul suo stupefatto marito.
"Hai dei lati buoni, Genma. Forse dovrei tenerti dopo tutto", mormorò. Poi si incamminò verso la casa. Si fermò e lanciò una fredda occhiata sopra la spalla. "Vieni?". Lui annuì e saltò in piedi.
Mentre la coppia attraversava il giardino ora al buio verso le luci della veranda, la testa di Genma girava. Lui aveva ancora forti sospetti che lei fosse troppo in gamba per lui, ma suppose che fosse ancora possibile sperare in una possibilità.
Se solo fosse riuscito a trattenersi dal bruciarsela.


La mattina era nata chiara e serena, e il sole all’alba aveva velocemente scacciato il freddo della notte dalle strade di Nerima. Akane finì la sua corsa mattutina, sentendosi piacevolmente surriscaldata mentre trottava dentro il cancello principale della palestra. Avanzò nel giardino, col sudore che gocciolava tra le spalle, e si tolse la fascia, pulendosi altro sudore dal volto con l’asciugamano che teneva attorno al collo.
La vista nel cortile era piuttosto familiare. Genma e Ranma stavano saltando attorno al perimetro, attaccandosi con varie tecniche. Poi notò un’altro Ranma che sedeva sulla veranda, guardando la coppia. Scosse la testa. Non era ancora capace di distinguerli. Avrebbe avuto bisogno di un sacco di tempo per abituarcisi.
Akane si avvicinò e si posò con qualche esitazione sul pavimento vicino a Ranma. O Ranko. Lo studiò per un momento, cercando di capire chi fosse. Sobbalzò quando lui si voltò cogliendola in flagrante.
"Non ci riesci proprio, eh?", chiese seccamente, come se le avesse letto nel pensiero. Lei sorrise, in modo un po’ colpevole, e scosse la testa.
"Scusa", disse timidamente. Lui grugnì e spostò di nuovo la sua attenzione sulla coppia di lottatori.
"Papà si è voluto allenare con Ranko stamattina. Mi ha chiesto di starmene seduto". Disse concisamente. Akane si incupì. Sembrava quasi che qualcosa stesse preoccupando Ranma, e non le piaceva il modo con cui il ragazzo stava studiando l’allenamento. C’era qualcosa di allarmante nel modo in cui seguiva con gli occhi suo padre e Ranko mentre saltavano per il cortile. Quasi con disperazione. Un buffo sospetto prese a formarsi nella sua mente.
Non può essere, pensò. Impossibile.
A voce alta, chiese: "Come sta andando?".
"Non è al mio livello". Il tono piatto della risposta la sorprese. Scosse la testa e osservò l’allenamento per qualche istante. I riflessi di Ranko sembravano leggermente appannati, ma al suo occhio esperto se lui non era bravo come Ranma allora ci andava dannatamente vicino...
"Probabilmente è solo stanco", disse alla fine, osservando la reazione di Ranma. La bocca del ragazzo si torse in una leggera smorfia.
"Già, beh, nessuno di noi ha dormito granché ieri notte, vero?".
Akane sospirò, ricordando.
Era stata bruscamente svegliata da un sonno profondo dal suono di un urlo angosciato. Riconoscendo a malapena la voce di Ranma, si era precipitata verso la sua stanza, battendo Nabiki e Kasumi all’arrivo. Ma naturalmente non era stato Ranma, ma Ranko. Era raggomitolato nelle lenzuola disfatte, tremante, col corpo ricoperto di sudore freddo.
Akane rabbrividì nonostante il tepore del mattino. Non voleva immaginare che genere di incubo poteva far urlare qualcuno in quel modo. Probabilmente c’era da aspettarselo, dopo tutto. Ranko doveva aver visto cose abbastanza terribili. Lei era stata felice che Kasumi fosse stata là. Il suo istinto materno aveva prevalso e aveva placato i nervi a pezzi di Ranko, accarezzando gentilmente i suoi capelli mentre mandava Nabiki a prendere delle lenzuola asciutte. In effetti, all’inizio Akane si era sentita un po’gelosa, pensando che avrebbe dovuto essere lei a prendersi cura di lui, finché non si era ricordata che non stava guardando il suo fidanzato. Ancora scosso, Ranko aveva continuato a scusarsi per il disturbo che aveva causato. Non era niente, insisteva. Niente. Tornate pure a dormire.
Alla fine, tutti avevano fatto ritorno alle loro camere. A ripensarci, però, Akane realizzò che Ranma non aveva detto niente per tutto il tempo. E inoltre, aveva guardato Ranko con una strana espressione. Guardava mentre Ranko stava al centro dell’attenzione.
Scosse rabbiosamente la testa. Ranma non era così meschino. Non poteva essere geloso di... se stesso. Non è vero?
Era così strano. I due Ranma si assomigliavano davvero tanto, ma...
Ma. Ripensò a Ranko raggomitolato nel suo futon, tremante. Sembrava così vulnerabile. Si era sentita vicina a lui, nel vedere il suo dolore mentre cercava così duramente di trattenerlo, di mostrarsi forte. Come faceva sempre il suo Ranma.
Il suo Ranma. Azzardò un’occhiata furtiva dalla coda dell’occhio al suo profilo irrigidito. Era strano pensare a lui in quel modo. Dopo tutto, che diritti aveva su di lui? Un fidanzamento che nessuno dei due aveva chiesto? Lui la insultava sempre, o feriva i suoi sentimenti uscendo con qualcuna delle sue altre «fidanzate», oppure si precipitava in suo soccorso. Ma potevano essere le basi di una vera relazione? Lui non sembrava mai avere bisogno di lei. Anche dopo tutto quello che avevano passato, non aveva mai cercato di mettersi lì e dire che la voleva, che aveva bisogno di lei, che... la amava. Come avrebbe mai potuto essere sicura di quello che lui provava? Quanto a lungo avrebbero potuto continuare in quel modo? Vedere Ranko soffrire, e senza sapere come reagire, aveva riacuito i suoi dubbi riguardo all’autentico bisogno che Ranma aveva di lei.
E ora si stava comportando in modo così strano. Avere Ranko nella palestra sarebbe stato difficile per lui, ma Ranko aveva sofferto così tanto, perso tutto. Sicuramente Ranma poteva dimostrare un po’ di compassione.
Akane ripensò alla notte prima, chiedendosi se fosse il caso di indagare sulla gelosia di Ranma. No, decise, anche se ho ragione lui negherà e basta.
"Ranma", disse invece, "ti vorrei parlare. Riguardo quello che ti ho detto andando a scuola ieri...".
"Dimenticatene", disse bruscamente, continuando a guardare la strana coppia. Genma agguantò Ranma durante un attacco sferrato negligentemente e girò, lanciandolo nel laghetto.
"No, non me ne dimenticherò", rispose Akane, cominciando ad arrabbiarsi. "Non avei dovuto dirlo. Io...".
"Akane", disse Ranma, "Ti ricordi di come i tuoi capelli sono stati tagliati?". Lei si fermò, confusa per un momento.
"Che? Oh, vuoi dire...", si interruppe, ricordando di come la lama roteante di Ryoga fosse caduta recidendo i suoi lunghi capelli mentre lei e Ranma stavano litigando. Ranma si voltò per fronteggiarla, con un’espressione stranamente seria.
Non era difficile immaginare dove volesse portare quella conversazione.
"E quella volta dopo la gara di pattinaggio, quando hai cercato di fermare me e Ryoga...".
"Ranma".
"...dal combattere e sei caduta nella piscina...".
"Ranma! Adesso piantala". Lui si fermò e distolse lo sguardo.
"Avevi diritto di dire quelle cose, Akane, perché erano vere". Il suo volto rimase inespressivo. "Se ci pensi, ti ho messo in pericolo più volte di quanto nessuno di noi possa contare, praticamente dal giorno in cui ci siamo incontrati".
Akane sentì la sua rabbia crescere, e la combatté. "Ranma Saotome, non essere idiota. Pensi che io abbia mai avuto bisogno d’aiuto per farmi male? Ero una bambina spericolata, tornavo sempre a casa con un ginocchio sbucciato o un livido. Giocavo duro, e mi prendevo le mie batoste". Fece una pausa, ricordando. "Dopo che mia madre è morta, a volte ho fatto a botte", disse tranquillamente. Ranma sembrava sorpreso. "Non ho avuto bisogno che tu o Ryoga mi aiutaste a mettermi nei guai allora, e non ne ho bisogno adesso. Non ho bisogno di essere protetta o trattata come se fossi fragile, ok? Perché non la smetti di trattarmi come una bambina e non parli con me?". Ranma aggrottò la fronte.
"Non è quello che sto facendo".
"Sì che lo è!". Prima che potesse continuare, Kasumi uscì dalla casa.
"Oh, Ranma, Akane... oh. Tu sei Ranma, non è vero?".
"See," grugnì Ranma. Se venne urtata dal suo tono, Kasumi non lo diede a vedere.
"Ho appena sentito alla radio che tutte le classi del Furinkan non faranno lezione oggi. Ci sono delle tubature esplose o qualcosa del genere, e la scuola è allagata. Visto che domani è domenica, avrete un lungo fine settimana". Kasumi sorrise raggiante, come se avesse organizzato lei il tutto, e Akane le sorrise in risposta. Si voltò verso Ranma, solo per vedere l’attenzione del ragazzo ancora una volta concentrata sull’incontro di allenamento. Ranko-chan si stava ora accapigliando con un panda bagnato, a dimostrazione che era riuscita a portare a segno almeno un buon colpo.
"Venite, voi due", chiamò Kasumi. "La colazione è pronta!".
Si fermarono immediatamente e scattarono verso la casa. Se Akane non l’avesse saputo, avrebbe giurato di aver visto Ranma e suo padre durante una mattinata tipica. Con un’ultima occhiata al suo laconico fidanzato, entrò per la colazione.
Poco dopo, erano tutti riuniti attorno alla tavola eccetto Nabiki.
"Kasumi, dov’è Nabiki?", chiese Soun, impensierito.
Akane sopirò. Loro padre era sempre di umore iper protettivo da quel disastro sfiorato.
"Non lo so, papà. Appena ha scoperto che la scuola era sospesa ha detto che aveva qualcosa da fare. Poi non l’ho più vista".
"Sta architettando qualcosa", sospirò Akane.
"Probabilmente cercherà di affittare degli strofinacci alla scuola o qualcosa del genere", disse Ranko-chan. Lei e Akane ridacchiarono alla battuta. Ranma non si unì. Giocherellava distrattamente col cibo, guardando Ranko-chan e suo padre duellare per la colazione. Akane aveva deciso di far cuocere un po’ Ranma nel suo brodo prima di tentare di parlargli ancora, così non aveva niente a distrarlo. Kasumi tornò dalla cucina con due teiere gialle, e Ranko-chan e Mr. Panda tornarono alla loro forma naturale.
Ranma poteva essere di umore stranamente calmo, ma Ranko sopperiva ampiamente comportandosi nel modo in cui faceva di solito la sua controparte. Come risultato, la colazione era il solito pasticcio scalmanato, a differenza del giorno prima. C’era un’eccezione alla routine, comunque; Ranko e Akane non finirono a litigare come lei e Ranma facevano di solito. In effetti, chiacchierarono senza problemi di cose insignificanti.
Il che non sfuggì all’attenzione di Ranma.
"Come ti senti stamattina, Ranko?", chese Kasumi quando i piatti furono portati via. Lui rise un po’ in imbarazzo.
"Oh, ah, bene", mormorò. "Scusa ancora per ieri notte".
"Dev’essere stato un incubo davvero spaventoso", disse gentilmente Kasumi. "Mi sono spaventata solo a sentirti urlare".
"Tu eri spaventata? Prova a dormirgli vicino! Ho quasi avuto un attacco di cuore!", sbuffò Ranma. Akane si voltò rabbiosamente contro di lui.
"Ranma! Che cosa terribile da dire!". Lui ebbe la grazia di apparire imbarazzato.
"Uh, scusa, amico. Non pensavo quello che ho detto", disse contrito a Ranko. L’altro sembrava a disagio per quello scambio di battute.
"Nessun problema. Mettiamoci una pietra sopra, ok?". Ranma era più che disposto, ma Akane stava ancora fissando il suo fidanzato.
"Se ne vuoi parlare, Ranko...", continuò Kasumi.
"Uh, grazie, Kasumi. Me ne ricorderò". Per fortuna, venne salvato dal ritorno di Nabiki.
"Oh, ciao, Nabiki. Mi spiace che tu abbia perso la colazione", disse Kasumi salutandola.
"Tutto ok, sorellina. Ho mangiato". Ranma fremette. Sembrava che ci fosse qualcosa di strano in Nabiki. Stava praticamente risplendendo. Lei gratificò la stanza di un sorriso pieno di benevolenza, con gli occhi che brillavano allegramente.
"Non è una splendida giornata?", aggiunse. Tutti la stavano guardando in diversi stati di stupefazione.
"Devi aver fatto proprio un sacco di soldi", disse finalmente Akane, con una leggera punta di accusa nella voce. Nabiki strizzò l’occhio.
"Akane, non ho solo fatto «un sacco di soldi». Ho concepito e quindi eseguito uno schema perfetto. Che, in via non incidentale, mi ha fruttato un sacco di soldi".
"Quale schema?", chiese Ranma sospettosamente. Lei sorrise soddisfatta nella sua direzione.
"Oh, credo che lo scoprirai ben presto", disse, lanciando un saluto regale da sopra la spalla mentre si voltava per salire le scale. Ranma si mosse a disagio. Non riusciva mai a capire Nabiki, a penetrare una facciata che di volta in volta era noncurante, sarcastica e altezzosa. Non era sicuro di aver mai colto uno sguardo della ragazza dietro la facciata, non era neanche certo che ce ne fosse una. In quel momento, comunque, era assolutamente sicuro che Nabiki avesse appena fatto qualcosa di molto, molto brutto.
Poi il momento passò e lasciò andare un sospiro. Cosa poteva esserci di peggio delle estorsioni, dei ricatti e degli affarucci con cui trafficava di solito? A ogni modo, aveva cose più importanti di lei di cui preoccuparsi. Guardò Akane e Ranko che ridevano per uno scherzo, e il disagio aumentò. Se lui e Ranko erano così simili, allora perché lui se la cavava così bene con Akane? Perché nessun altro riusciva a vedere quanto fossero differenti in realtà?
"Buon giorno a tutti". Ranma emerse dal suo malumore e si ritrovò davanti sua madre. Stava guardando loro tre, confusa. "Ranma, tu e Akane non dovreste essere a scuola?". Nodoka indirizzò la domanda ad Akane e Ranko, che erano seduti vicini. Ranma sospirò e rispose.
"Le lezioni sono state sospese per oggi, mamma". Lei capì il suo errore ed ebbe la gentilezza di mostrarsi imbarazzata.
"Oh. Bene, comunque. Ranko, posso parlarti un momento?". Ranma notò che aveva una borsa marrone chiaro in mano. Ranko sembrò disorientato alla richiesta ma si alzò e uscì dalla stanza con lei. Ranma sospirò ancora. Stava decisamente cominciando a sentirsi un po’ escluso.
"Non ci credo", disse Akane in un tono piatto. Ranma alzò lo sguardo, senza sapere cosa si dovesse aspettare stavolta. Non notò niente di strano.
"Cosa?", chiese alla fine. Lei si spostò in avanti fissandolo in un modo che lo fece sentire nettamente a disagio.
"Tu. Stai facendo il broncio. Non riesco a credere che tu possa essere così meschino".
"Ma di che diavolo stai parlando?", chiese con parti uguali di irritazione e rabbia.
"Sei geloso di Ranko perché è al centro dell’attenzione". Ranma la guardò a bocca aperta. "Ho ragione, vero? Sei andato in giro col musone per tutta la mattina! Non riesci a capire che stiamo tutti cercando di aiutarlo a superare le cose terribili che gli sono successe?".
"Sei impazzita!", esplose Ranma. "Non è assolutamente vero!".
"Ammettilo, Ranma. Sei abituato a essere sempre al centro dell’universo, e ora devi dividere i riflettori, e non lo trovi di tuo gradimento, vero?". Ranma non riusciva a credere a quello che stava ascoltando. Sarebbe stato brutto sentirlo da chiunque, ma sentire Akane dire queste cose faceva male. Lei lo aveva ferito, e lui rispose istintivamente.
"Ehi, se è così che la pensi, perché non sposi lui allora?", scattò, saltando in piedi e precipitandosi fuori dalla casa.
Assaporò l’immagine del suo volto scioccato mentre si dirigeva verso la palestra, cercando qualcosa per scaricare la sua frustrazione, solo per essere bloccato da qualcuno che veniva verso di lui.
Ryoga.
"Ehi, amico, stavo proprio pensando a te", disse Ranma con un ghigno malvagio. "Ci hai messo più tempo del solito per arrivare alla tavola dal bagno, eh, P-chan?". Ranma contava che Ryoga reagisse alla provocazione di P-chan come un pesce all’esca. Funzionava sempre come un incantesimo.
Eccetto, naturalmente, per quella volta. Ryoga si limitò a guardarlo, accigliato.
"Ho sentito cosa ti ha detto", disse alla fine. Ranma, già a metà della posizione di guardia, abbassò la braccia esasperato.
"Senti, P-chan, dobbiamo parlare o dobbiamo combattere?". Il fantasma di un sorriso passò lungo il volto di Ryoga.
"Parlare, penso. Ho avuto qualche conversazione interessante di recente, Ranma, e credo che questa lo sarebbe ancora di più. Akane aveva ragione per una cosa, qualcosa ti sta rodendo da quando Ranko ha raccontato la sua storia ieri. Ne vuoi parlare?".
Ranma guardò l’altro sbalordito.
"E va bene", disse alla fine, "chi sei tu e cosa hai fatto al vero Ryoga Hibiki?".
"Tua madre ci ha fatto una bella ramanzina l’altro giorno riguardo la disciplina, ricordi? So che non me ne dimenticherò tanto presto. Può esser davvero dura quando vuole. Non mi sorprende che il tuo vecchio abbia paura di lei".
"Non ci vuole molto per spaventarlo", sbuffò Ranma. "Ora basta chiacchiere e diamoci dentro!". Ranma cominciò a fare squittii da maialino.
"Andiamo, Ranma. Stavolta non mi arrabbierò. Voglio sapere cosa succede. Non è da te farti il sangue cattivo per un problema. Di solito affronti tutto a testa bassa, anche quando non dovresti. Specialmente quando non dovresti". Ranma lo guardò fisso mentre Ryoga si sforzava di spiegarsi, una situazione a cui non era decisamente abituato. "Prova a passare un po’ di tempo come maialino, vecchio mio. La gente parla come se tu non fossi lì. Ho sentito e visto cose in questi ultimi giorni che mi hanno preoccupato".
"Me la posso cavare, Ryoga".
Il ragazzo fece una pausa, chiudendo pensosamente gli occhi. "Credi davvero che ad Akane lui piaccia più di te? È per questo?".
"Tu non capiresti", mormorò Ranma. Ryoga scoppiò a ridere.
"Oh, ma certo che capisco! Ora finalmente sai cosa si prova a essere me! Finalmente devi competere per il cuore di Akane! Oh, è stupendo!". Rideva così forte che alla fine dovette appoggiarsi al muro della casa mentre Ranma lo guardava impassibile. Quella conversazione non gli era piaciuta granché. Se Ryoga non voleva combattere, doveva trovare qualcuno disposto.
"Non è questo che intendo...", cominciò a dire.
"Ranchan!".
"Ucchan?". Si voltò per vedere Ukyo dietro di lui, vestita con la sua uniforme da ragazzo, che si guardava attorno con circospezione. "Che ci fai qui?".
"È vero? Hai trovato l’altro Ranma? Dov’è?". Fece girare lo sguardo ansiosamente. "Non se n’è andato, vero?". Ranma e Ryoga si guardarono, sbalorditi.
"Aspetta. Come lo sai che è qui?", chiese Ranma.
"Nihao!". Una figura flessuosa balzò dall’angolo, fermandosi con disdegno nel vedere Ukyo. "Pelchè sei qui, spatolona? Nabiki ha detto che ha venduto l’infolmazione solo a me". Sembrava davvero infuriata.
Ukyo si voltò e contraccambiò l’espressione.
"Cosa?", sbottò rabbiosamente. "Ma mi ha detto...".
"Oh, no", gemette Ranma. "Non può averlo fatto".
"L’ha fatto", confermò Ryoga. Una strana, acuta risata salì nella quiete della mattina e Ranma credette di vedere alcuni petali neri mischiati ai germogli rosa di ciliegio.
Questo era male. Molto, molto male.


Seguii la madre di Ranma fuori dalla stanza, perso nei pensieri. Era chiaro che qualcosa stava preoccupando Ranma, e non ci voleva un genio per capire chi fosse la causa. Forse, dopo aver avuto un po’ di tempo per pensarci, si stava pentendo della decisione di avermi portato qui. Dopo tutto, aveva abbastanza problemi nella vita di tutti i giorni senza un doppio che girava per la casa. Probabilmente avrei dovuto tentare di parlarne con lui, ma a dire la verità ero nervoso. Cosa avrei dovuto fare se mi avesse chiesto di andarmene? Avevo appena cominciato ad accettare l’idea di avere un posto, un rifugio. Non volevo considerare l’eventualità di partire così presto.
"Come stai stamattina, Ranko?". Sussultai, realizzando che non stavo ascoltando.
"Oh, ah, bene, ma... Signora Saotome". Al sentirmi si accigliò gentilmente.
"Ranko, per favore, non essere così formale. Puoi chiamarmi mamma se vuoi". Mi bloccai.

(e vicino alla lama insozzata, un brandello insanguinato di kimono)

sentendo il sangue che abbandonava il volto. Lei vide la mia espressione e lasciò cadere la borsa, per posarmi le mani sulle spalle.
"Mi dispiace, Ranko, non avrei dovuto dirlo. Sono stata davvero una sciocca". Cercai di ridere.
"No, io...".
"Ranko, hai appena perso tua madre. Non sto tentando di prendere il suo posto. Solo non voglio che tu mi tratti come una sconosciuta". Fissai il pavimento, incapace di incontrare i suoi occhi, e rabbrividii. Lei strinse gentilmente le mie spalle. "Non sono tua madre, ma in un certo senso siamo una famiglia, no? Tutta la famiglia che hai perso". Alzai lo sguardo a quelle parole, guardando in quello sguardo tenero e compassionevole, e scoprii che non riuscivo a rispondere. Lei sorrise piano alla mia espressione. "Forse acconsentiresti a chiamarmi zia. Come fanno le ragazze. Andrebbe bene?". Muto, annuii. Non riuscivo a credere all’intensità delle emozioni che erano comparse così velocemente dentro di me. Un minuto prima mi sentivo bene, quello dopo avevo un nodo alla gola delle dimensioni di P-chan. Sembrava che mi stessi illudendo sulla mia capacità di fronteggiare la situazione.
Mi chiesi quanto a lungo avrei continuato a girare sull’ottovolante della pena e del rimpianto.
"Oh", disse alla fine la mia nuova zia, "quasi mi dimenticavo. Questo è per te". Si chinò e raccolse la borsa dal suolo, allungandomela con un sorriso. Sbattei stupidamente le palpebre.
"Che cos’è?".
"Ho pensato che fosse una buona idea prenderti qualche vestito nuovo. Ranma non ne ha molti da dividere con te, e se voi due non la smettete di vestirvi identicamente, non riusciremo mai a distinguervi. Perché non vai a provarli?".
"Ma... zia, non dovevi farlo", protestai debolmente.
Lei liquidò le mie proteste con un gesto allegro.
"Avrò bene il diritto di viziare un po’ il mio nipote preferito", disse semplicemente. "Ora perché non vai a provarli?".
Così feci. Mi ritrovai di fronte allo specchio del bagno, a girarmi da un lato all’altro. La mia nuova tenuta non era poi così diversa da quella che portavo di solito. Consisteva in una camicia cinese nera con pantaloni intonati. Una fascia cremisi attorno alla vita, legata sul fianco con le estremità che cadevano a mezza coscia. Arrotolai le maniche sugli avambracci e feci qualche passo, assicurandomi di avere totale libertà di movimento. I vestiti erano comodi, e non avrebbero fatto troppe grinze quando mi sarei bagnato, cosa che sarebbe inevitabilmente successa. Era abbastanza familiare da essere comoda, ma abbastanza diversa da permettere alla gente di distinguermi da Ranma.
Inoltre, mi donava. L’ultimo era un fattore che non avrei mai ammesso di considerare, naturalmente. Mi guardai allo specchio e sospirai. Era stato davvero premuroso da parte di zia Nodoka (ragazzi, ci sarebbe voluto un po’ per abituarsi a questo!) prendersi così tanto disturbo per me. Ero stranamente commosso. Forse era l’implicazione che sarei stato qui abbastanza a lungo da rendere necessario diversificarmi da Ranma.
Mi chiesi perché aveva scelto il nero.
Mi irrigidii con rabbia, scuotendo via il pensiero vagante. Mi sporsi in avanti, appoggiandomi al lavandino, e fissai con severità la mia immagine riflessa.
"Non c’è morte qui", mi dissi con voce rauca. "Te la sei lasciata tutta dietro".
"Zitto".
Mi tesi per ascoltare i suoni della vita nella casa, ma tutto il mondo sembrava stesse trattenendo il fiato.
"Sta...".
"ZITTO!". Strinsi i denti così forte da farmi dolere la mascella, e la mia stretta minacciò di frantumare il lavandino. Mi alzai lentamente, guardando il mio riflesso come pensando che potesse seguirmi.
"È tutto ok. Va tutto bene". Lo sussurrai, come se facendolo per magia potessi sentire ancora il bellissimo suono di voci che saliva da sotto. Voci.
Mi rabbuiai. Molte voci. Scossi via i miei presentimenti e scivolai fuori dal bagno per dirigermi verso le scale. Ora potevo sentire le voci molto più chiaramente.
"Aiyaa! Dove hai nascosto l’altlo Lanma?".
"Andiamo, Ranchan, cosa sta succedendo?".
"Nabiki Tendo mi ha detto che la mia ragazza col codino sarebbe stata qui, Saotome! Dove l’hai nascosta, maledetto vigliacco?".
Oh, no. No. Erano qui, tutti. Tutti gli amici che avevo visto... che avevo...
Poi qualcosa si fece largo attraverso il trauma. Nabiki.
Nabiki? Lei non l’avrebbe fatto, vero?
Certo che sì. Una rabbia al calor bianco sciolse il ghiaccio che avevo nelle vene, una rabbia così forte che per un secondo non riuscii a reggermi in piedi, rabbia che scorreva dentro di me con una velocità da capogiro. Subito mi voltai lasciandomi le scale alle spalle e mi aprii a grandi passi la strada verso la porta di Nabiki. Spalancai la porta e la sbattei dietro di me, poi la guardai a denti stretti, aspettando che dicesse qualcosa. Lei alzò pigramente lo sguardo dalla sua scrivania dietro cui era seduta a scrivere su un taccuino. Chiuse per bene il quaderno e girò la sedia per guardarmi.
"Ehi, Saotome", disse ironicamente, "Bel vestito". Presi un respiro profondo.
"È tutto quello che hai da dire?", sibilai. Lei alzò un sopracciglio e si esaminò le unghie.
"A dire il vero, no. Vorrei anche dire che dovresti sempre bussare prima di entrare nella stanza di una ragazza". La guardai sbalordito.
"Gli hai detto che sono qui!", urlai, cercando di riportare la conversazione al punto. Lei annuì con curiosità.
"Beh, non l’ho fatto gratis", disse piano. Ero stupefatto. Non cercava neanche di negare!
"Ma per tutti i diavoli! Perché hai fatto una cosa del genere?". Lei sospirò, guardandomi come se fossi un po’ ottuso. Mi sarei almeno aspettato che cercasse di difendere le sue azioni. Potevo sentire la rabbia che mi turbinava nello stomaco come una cosa viva.
Viva e affamata.
"Ranma". Disse languidamente Nabiki, guardandomi con uno sguardo compassionevole. "L’avrebbero scoperto prima o poi. Nessuno qua attorno riesce a mantenere un segreto. Tutto quello che ho fatto è stato battere il ferro finché era caldo, e ottenere un profitto dal tutto".
"E non ti ha sfiorato il pensiero che potevo non volerli vedere?", chiesi con voce bassa e velenosa. Se le importava qualcosa di come mi sentivo, stava facendo un lavoro dannatamente buono per nasconderlo... Lei si portò un dito alla guancia e strinse gli occhi.
"Beh", disse alla fine, "se ci tieni tanto posso liberarmi di loro per te. Ma ti costerà, naturalmente". E fece quel borioso, indifferente, astuto sorriso.
La bolla di rabbia dentro di me esplose in una muta, incandescente nova di dolore. Quella Nabiki era esattamente uguale all’altra che avevo conosciuto. Giocava con i sentimenti della gente per denaro, e nonostante tutto restava distaccata. Non ero sicuro di averla mai vista mostrare un’emozione genuina. Si nascondeva sempre dietro la sua maschera di indifferenza, di compiaciuta superiorità, di benigna cupidigia. Proprio allora, in quel momento, sentii il bisogno di colpirla, di strapparle le sue maschere, di costringerla ad affrontarmi. Avevo bisogno di farle capire che mi aveva ferito. No. Era qualcosa di più. Avevo bisogno di rispondere al colpo, di frantumare quella sua facciata soddisfatta.
Avevo bisogno di fargliela pagare. Pagare per quello che aveva fatto, per non aver nemmeno pensato a quello che mi sarebbe costato. Accecato da quel bisogno, mi avvicinai. Feci due lenti passi per poterle stare pericolosamente vicino, tanto che i nostri nasi quasi si toccavano, e fissai i suoi occhi. Qualcosa lampeggiò per un attimo, ma era scomparsa prima che la potessi identificare. Mi trovai a sperare che fosse paura.
"Tu", sibilai. "Non riesco a credere che tu sia parente di Akane e Kasumi. Cosa penserebbe tua madre se fosse qui, Nabiki? Pensi che sarebbe fiera di te? LO PENSI DAVVERO? Perché io non lo penso. Io penso che si vergognerebbe di avere una figlia come te". Rimasi lì, respirando come se avessi appena scalato la Torre di Tokyo, e vidi il sangue scomparire dal suo volto. Provai per un attimo una gioia selvaggia nel vedere la sua espressione cambiare. Avevo avuto quello che volevo, bene. L’avevo ferita. Ferita malamente. Gli angoli della sua bocca cominciarono a tremare mentre sbatteva rapidamente le palpebre contro le lacrime che si gonfiavano nei suoi occhi.
Poi la rabbia se ne era andata rapidamente come era venuta, e mi sentii improvvisamente malsicuro.
"Bastardo". Era un sussurro sottile. Se non fossi stato così vicino a lei, non avrei potuto sentirlo in alcun modo. Aprii la bocca per dire qualcosa, per scusarmi forse, ma allora, quando ne avevo bisogno, le parole mi abbandonarono.
Poi mi schiaffeggiò. Ci mise una discreta forza, anche. La mia testa scattò un po’ all’indietro. Ero stato colpito molto più forte, naturalmente, ma questo era diverso. Mi voltai verso di lei e vidi che stava ancora tentando di trattenere le lacrime.
"Pensi di essere molto migliore di me?", chiese duramente, con una voce tremante. "È questo che pensi, Ranma? Bene, lascia che ti dica un segreto. Non mi importa. Essere una brava persona non ha mai salvato mia m-m-madre". Questo fu troppo. Le lacrime scoppiarono fuori, scorrendo lungo le sue guance mentre prendeva un respiro profondo.
"Nabiki...".
"NO! NON OSARE! ESCI SUBITO!". Sussultai al dolore selvaggio nella voce che stridette contro di me. Dolore che ero stato io a seminare. Volevo ferirla, e l’avevo fatto. Ora potevo solo andarmene.
E così feci. Mi girai e uscii dalla stanza, sentendo la porta tremare mentre lei la sbatteva da dentro. Restai là, ascoltandola tirare lunghi respiri, cercare di trattenere i singhiozzi, e fallire miseramente. Mi avvicinai e toccai lievemente la porta, come se potessi trasmettere una corrente elettrica di scuse dall’altra parte. Poi, tristemente, ritirai la mano e me ne andai.
Mi ero già arrabbiato con Nabiki prima. Diavolo, ero stato furioso con lei questa volta, ma questo giustificava quello che avevo fatto? Cosa poteva farlo? Avevo attraversato una linea che non avevo mai neanche raggiunto prima, e non ero sicuro che ci fosse un modo di ritornare indietro. Sentii le tenebre dentro di me che minacciavano di crescere ancora, e mi chiesi, non per la prima volta, se potevo davvero lasciarmi alle spalle il mio passato torturato. Forse ero condannato a portare una parte di quell’orrore con me, come un’ombra supplementare, diffondendo il dolore a tutti coloro che entravano in contatto con me.
Mi fermai all’inizio delle scale, ascoltando i suoni caotici da sotto. Dietro di me Nabiki, in lacrime perché avevo voluto contraccambiarla. Non ero sicuro di averla mia vista versare una lacrima, non una sola volta. E davanti a me, altri amici che avevo visto morire, e la prospettiva di dover raccontare la mia spaventosa storia un’altra volta. Ero in trappola nel mezzo, chiedendomi come, solo poco prima, avessi potuto provare speranza per il futuro.
Strinsi il corrimano, alzai la testa, e mi chiesi perché ero dovuto sopravvivere a tutto quello che avevo conosciuto.
Almeno, se fossi morto, non avrebbe fatto così male.




Fine terza parte.
Versione originale inglese revisionata il 28 luglio 1997
Traduzione italiana revisionata il 21 giugno 1998
Betaletta da TigerEyes il 28/7/2011
Nel caso doveste riscontrare refusi che mi sono sfuggiti, vi prego di segnalarmeli, grazie.
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Ranma / Vai alla pagina dell'autore: Mark MacKinnon