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Autore: Silent Night    01/08/2011    3 recensioni
"Ring around the Rosy
A pocket full of poisies
Ashes, Ashes,
We all fall down."
Una passeggiata nel quattordicesimo secolo.
Prendiamo in esame una vita, per poi distruggerla brutalmente.
Non l'ho riletta.
Genere: Drammatico, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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[Agosto 1341, Taldyqorǧan, Almaty, Kazakistan.]


Ho saputo che al mondo l’ingratitudine rischia di divorare tutto, dal primo all’ultimo accenno di gioia, nonostante di essere infelici non ci sia motivo. Ebbene, lasciate che vi racconti di quando il mio mondo perse i colori, lasciandomi affogare nel nero più cupo. Tutto è iniziato in un brivido. Un brivido gelido.

Corre l’anno milletrecentoquarantuno, ed è strano: ricordo molta gente cui nel corso degli anni è stata sottratta ogni cosa, gente maltrattata dalla vita come una formica dal sole attraverso una lente, sfinita, sfiancata, distrutta, arresa.

Gente con la rassegnazione negli occhi, un cupo monito a vedersi, quasi una profezia.

Occhi che parevano suggerire di tener alta la guardia, prima che quella stessa crudele vita desse loro a sorpresa il colpo di grazia.

Loro la morte parevan quasi invocarla, e probabilmente l'avrebbero accolta a braccia aperte, col volto disteso in un sorriso sereno, fiero, quasi commosso.

La morte non ti illude, è da ammirare.

Tossisco spasmodicamente, e portando una mano alle labbra le dita si macchian di sangue.

La morte non ti illude, ma è cieca, imparziale, e questa volta pare non aver avuto interesse per quegli schiavi, quei campagnoli stolti e ignoranti.

Ha tirato i dadi, e ha colpito me, mi ha punito, forse, perchè io qualcosa nella vita lo possiedo. Non per merito mio, ma questo non ha importanza, non più.

Comunque sia, non credo continuerò a possedere qualcosa ancora per molto.

Sono in quarantena come un lebbroso, ma son quasi sicuro la mia non sia lebbra.

Da più di una settimana non vedo la luce, e considerando il putiferio che c'è qui fuori non mi stupirei se anche il sole volesse oscurarsi.

Per capirci, non è che i malanni vengan fuori dal nulla, anche le bestie sono impazzite, da quando la carestia ed il gelo han fatto strage di miriadi di ratti, le pulci s'attaccano a noi, ultimo loro mezzo di diffusione: i ratti le scarrozzavano qua e là gratuitamente ed in loro assenza tra gli uomini s'è scatenata l'ira di Dio.

In questa città putrescente non c'è un'anima che non sia entrata in contatto con la Morte Nera o con qualsiasi altro tipo di punizione divina.

Non ci si fa mancare nulla, di questi tempi.

E la colpa è sicuramente delle streghe, non c'è altra spiegazione plausibile.

Esseri infernali. Con le loro pratiche immonde hanno liberato il male, su di noi.

Tossisco ancora, allo specchio posso intravedere il mio riflesso: non ho una bella cera, in effetti il mio volto ha un colorito insano che direi tendente al ciano, il che non mi rassicura affatto.

Chiudo gli occhi, e di nuovo mi trovo a ripercorrere involontariamente gli ultimi sette giorni. E' come veder inscenare una rappresentazione teatrale sotto le palpebre. Estenuante. Fin troppo coinvolgente.

Sette. Sono pochi perché possano dirsi sufficienti a distruggere la vita di un uomo, eppure.

Ma ecco che ritrovo nel disordine dei pensieri miei un'immagine. Rivedo la folla di quel giorno. La follia di quel giorno. Nell'insubordinazione generale la situazione di instabilità fisica e mentale s'era fatta insostenibile, ed il malcontento della gente si riversava come una bestia priva di freni e di senno su chiunque incontrasse sulla sua strada.

Davanti a me una porta si chiude, e quello scenario di furia malsana vien relegato al di là di essa.

Corro, la luce è svanita, fagocitata dal buio vorace che rischia d'inghiottire anche me.

Corro a perdifiato, fin quasi a non avere più ossigeno: Questo mi par strano, considerando che poco fa stentavo a respirare anche da fermo, ma non smetto. Il buio mi spaventa, ha denti affilati come coltelli e sparge sangue raggrumato, è un vuoto livido e senza fine, capace di risucchiarti giù, sempre più giù, tirando via la carne dalle ossa con una lama arrotondata da due dita.

S'apre un'altra porta, la apro e vi entro senza indugi, richiudendomela alle spalle per tener fuori le ombre.

Non ero in un letto? Non paiono certo delle confortevoli lenzuola di seta, queste.

Ma ecco, ora lo vedo, ed il mio cuore non batte più.

Se la morte possiede realmente una sua forma umana, posso certamente affermare di averla davanti a questi miei occhi stanchi, ma sgranati dallo sgomento.

Non so se a spaventarmi sia più la lunga veste scura o quel volto, quel becco ricurvo che pare una falce, o entrambe le cose.

Dannati umanisti! Possiate bruciare tra le fiamme più ardenti del cupo inferno, voi e le vostre travianti teorie sul perché l'uomo debba ritenersi il punto d'incontro di ogni universo.

Per la vostra arroganza io dovrò valere da esempio: il messo della morte è venuto a prendermi, e si avvarrà di me come fossi una bandiera da sventolare sui vostri nasi a mo' di minaccia, sbattendovi in faccia la vostra idiozia.

Mi dimeno tra le coltri che s'aggrovigliano con tenacia attorno alle mie gambe, cercando di allontanarmi il più possibile da quella bestia immonda, ma ottenendo solo un brivido a contatto della bianca pelle col muro ghiacciato, scostandomi appena, chiudendomi a riccio con le ginocchia contro il petto, come se comprimere ulteriormente i polmoni già indolenziti e graffiati in principio possa risultare utile a tenerlo lontano, in una qualche ignota maniera.

Credo mi stia parlando, ma non voglio ascoltare, e comunque non credo ci riuscirei pur volendo: Probabilmente se evito di renderlo reale potrò accertarmi che si tratti solo di un agghiacciante incubo dal quale mi sveglierò da un momento all'altro. Dopotutto non ho fatto che passare da un sogno all’altro in questi ultimi giorni. Che strano.

Ma è già svanito, fuggito fuori dal mio campo visivo, e mi ritrovo a guardare quelle stesse immagini ancora, ancora, e ancora.

In questa squallida cittaduncola grigio fuliggine non s'è mai sofferto molto il caldo, neanche in estate. Eppure quest'anno, nelle perlate sere d'agosto, l'aria è così pesante da risultare irrespirabile. Il fetore che si leva dai rifiuti in decomposizione, gettati a marcire sul ciglio delle strade, attira ogni qual sorta di bestia affamata, infetta o meno. I malanni, assieme alla stagione ed allo sporco, fanno sì che su di noi una cappa d'aria fetida e contaminata ci tenga segregati come in una bolla, lasciandoci respirare ad oltranza la stessa aria che continuiamo disperatamente a rigettar fuori, con tosse e singulti.

Quel poco di vita che resta sa di vomito dei defunti, ha odore di morte. Par di vedere un castello di sabbia soffiato via da un alito di vento, un alito dalla violenza d'una bufera, eppure solenne. La disperazione esplode nel profondo dell'anima lacera di noi miseri condannati, s'infrange con l'impeto di un'onda sullo scoglio, per tornare comunque al mare in silenzio, un bisbiglio amareggiato, deluso dalla stoica indifferenza che il mondo gli pianta innanzi.

Sto divagando, ancora, ma non me ne rendo conto. Cos'è che avrei dovuto fare? Respirare. Sì, respirare, eppure...Eppure di aria non ce n'è, proprio per niente. E neanche luce, e vita, e riposo. C'è solo dolore, e paura.

No, neanche questo, non più.

Ora, signori, da morto vi parlo col cuore: che beneficio trarrei dal mentirvi?

Che la morte sia nera è indubbio, ma fate in modo che la vita i colori li abbia, prima che qualcosa o qualcuno ve li sottragga per sempre.
   
 
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