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Autore: Dantalion    06/08/2011    0 recensioni
''Un maniero alto, nero ed incrostato di granelli dorati tra i mattoni antichi.
Sembra esser stato lasciato lì da una qualche guerra millenaria, o dall'incubo passeggero di un artista gotico che ha sfidato la calura e la desolazione;
è anacronistico, innaturale, spaventoso.
La notte è gelido come il cocito ed il vento vi ulula come un demone affamato di fiamme.''
Genere: Fantasy, Malinconico, Poesia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Quando eravamo piccoli,

Thala sedeva su questa rupe,

lasciando penzolare le gambe nel vuoto.

 

Fa sempre freddo quassù;

a causa dell’altezza, c’è sempre un po’ di neve

ad imbiancare i pascoli.

Eppure lei vi saliva scalza, con un vestitino bianco,

semplice e delicato come una carezza, ed una

collana di fiori sempre nuova,

a seconda del fiore che per primo aveva visto quella mattina.

 

All’epoca, i due anni che portava in più di me

me la facevano apparire come qualcosa di lontano ed irraggiungibile;

eppure salivamo sull’altipiano e giocavamo insieme, o parlavamo di quello che facevano i grandi, fantasticando su come avremmo un giorno imitato o meno il loro esempio.

 

Per me è sempre stata bellissima; con i suoi modi giocosi di porsi nei confronti della vita, con la sua innata leggerezza che sfociava in un’infinita poesia, mi ricordava di continuo le ninfe delle leggende che raccontavano gli aedi giù all’osteria del paese; e lei doveva ben esserne la più bella.

Era esile, di media statura e proporzioni minute, sempre vagamente infantili, con la carnagione bianca come madreperla, le dita lunghe ed affusolate, il naso un pochino appuntito, occhi grandi e profondi come il cielo stellato, ma di un color castano che ricordava il legno buono, ancora un po’ giovane, dolce, con il quale è un piacere costruirci una bella sedia, passarci le ore a lavorarla e definirla, e sentire il contatto con la natura attraverso le proprie mani…i suoi capelli avevano lo stesso colore, unito all’inconsistenza di un alito di brezza: erano soffici, liscissimi, corti, freschi, profumati come miele e vaniglia, che una volta avevo odorato dall’involucro mostratomi da un mercante del lontano Sud.

 

La guerra ci rese orfani entrambi, insieme, e fece di me un soldato e di lei una curatrice.

Allora ero già cresciuto abbastanza da amarla, da capire che la amavo, e da desiderare di starle accanto fino alla fine dei miei giorni.

Ma non parlammo mai di sposarci.

Anche lei mi amava; amava solo me, unicamente me, come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se di noi due non avesse mai dubitato fin da quando correvamo insieme sui pendii, da bambini. Non ci sono mai stati problemi, mai discussioni, eravamo più uniti ed in sintonia di quanto non lo sia ciascuno con sé stesso.

Accettò il mio andare in guerra con la serenità di chi sapeva riconoscere una necessità ed un dovere, ed ogni volta che tornavo, era lì che mi aspettava.

Io combattevo perché l’amavo; l’amavo insieme al mio popolo ed alla mia patria e più di essi; dovevo difenderli.

 

Ricordo quando le truppe del regno confinante raggiunsero la città; fu un assalto a sorpresa: ero in congedo temporaneo e mi trovavo sul monte per informare la famiglia di un mio commilitone della sua morte, quando scorsi del fumo levarsi dalla valle.

Impallidii: Thala era andata al mercato proprio quella mattina.

 

Quando raggiunsi il paese, lo trovai preda del caos più totale: gli abitanti lo risalivano verso l’acropoli, fuggendo, mentre pochi uomini, soldati come me, tentavano una difesa male organizzata, aiutati da ragazzini,vecchi e donne tra le più robuste e tenaci, armati per lo più di pale e forconi.

Gridando furiosamente, riuscii a convincere chiunque potesse sentirmi alla ritirata: dovevamo guadagnare una posizione favorevole alla difesa

 

Più tardi i superstiti più valorosi erano al mio comando, disposti a scudo del tempio, dove si erano rifugiati gli abitanti.

Avevo già mandato dei corrieri a chiamare l’esercito, sperando che almeno la cavalleria avrebbe potuto raggiungerci nel giro di poche ore, ed avevo predisposto delle trappole per tentare di fermare l’avanzata nemica.

Stavo al culmine della scalinata, in guardia, con gli occhi fissi sulla vuota piazza sottostante e le mani occupate da lancia e scudo, quando delle braccia mi cinsero da dietro.

Avevo evitato di pensare a lei fino a quel momento, ma quando mi toccò piansi, silenziosamente, senza voltarmi o muovermi.

‘’Ti amo. Vivi.’’, mi disse.

‘’Thala’’, risposi con la voce malferma, ma lei mi lasciò, mentre una massa nera ed informe iniziò a riempire l’agorà.

Sospirai; ‘’FERMI!’’, ordinai furente, mentre i nemici avanzavano.

I miei guerrieri tremavano per l’adrenalina, colla mano stretta sulle funi o sulle armi.

‘’ADESSO!’’, urlai quando gli avversari avevano risalito metà delle scale, e le statue degli dei, altissime, bianche, imponenti, precipitarono su di loro.

 

Mi ero sempre chiesto, prima, come qualcosa di così bello come lei sarebbe mai potuto sfiorire; e per una crudele, infida ironia del fato, come se uno degli dei che avevo profanato quel giorno di guerra si fosse divertito ad associarsi a me nel ritenere un simile avvenimento un’ingiustizia, un giorno scoprii che ciò non sarebbe mai avvenuto.

La guerra era finita, ed io facevo finalmente ritorno.

Entrando in casa, urlai il suo nome, pieno di gioia; ma non ci fu risposta.

Dov’era finita?

Posai le armi per terra, la corazza sul tavolo e mi diressi verso la nostra stanza per cambiarmi d’abito; lei era lì, muta, cogli occhi chiusi, immobile, sdraiata sul talamo.

Fui terrificato da quella visione, ma se avessi saputo, forse l’avrei voluta trovare morta.

 

Fu inutile, tutto inutile: non uno dei medici che chiamai seppe formulare una diagnosi soddisfacente, non uno seppe proporre una cura efficace.

L’ultimo, un vecchio con la lunga barba bianca che si diceva fosse un eremita in contatto cogli dei, passò con lei un’intera mattinata, chiuso in camera.

Quando ne uscì, lo fece con uno sguardo privo di speranza, e alle mie domande rispose ‘’Sembra semplicemente inadatta alla vita. Lo spirito le sta fluendo via dal corpo come se questo non fosse in grado di trattenerlo’’.

 

 

Passai l’ultima settimana inginocchiato al suo talamo, e ne porto ancora le piaghe,

nel cuore come sulle gambe.

La vedevo sempre più debole, senza motivo, senza segni di deperimento se non il suo pallore crescente, sempre più innaturale, sempre più vacuo.

Quando capì di star per morire, senza voce, senza forze, con le mie mani che stringevano le sue senza esser strette a loro volta, ansimante, si voltò verso di me, estenuata ma determinata, e disse, scandendo le parole in un sussurro stanco ‘’Io…ti…amo…’’.

Ancora oggi non posso credere di non esser riuscito a risponderle: nel mio sguardo bagnato, si potevano leggere senz’altro solo l’orrore, lo spavento ed il dolore puro.

Ma lei doveva aver capito, perché socchiuse stretti gli occhi, e mi sorrise, felice.

Poi la sua testa si adagiò lentamente sul cuscino, silenziosa, e rimase immobile, come se dormisse pacatamente.

 

Era finita.

Per anni, vissi in una dimensione vuota.

Ero capace di provare tutti i sentimenti umani, ma ognuno di essi solo ed unicamente sotto la coltre infinita di sofferenza che mi attanagliava e che li soffocava.

 

Poi, un giorno, mi accadde qualcosa di spaventoso.

Parlavo con un ex-commilitone, quando questi accennò alla strenua resistenza che opponemmo sull’acropoli quel fatidico giorno.

‘’Poi c’era quella tua donna’’ disse ‘’Sì, quella ragazza gracilina, che ti abbracciò da dietro prima dello scontro…non la ricordo bene, com’è che si chiamava?’’.

Mi feci bianco in volto: fui sconvolto dall’improvvisa rivelazione che la cosa più bella e che più avessi mai amato potesse esser stata dimenticata, sia pure da un uomo qualunque.

Con me, realizzai, lei sarebbe morta una seconda volta, e per sempre.

 

Partii.

Non fu una scelta frutto di un ragionamento, quanto di una necessità impellente, quella di trovare una soluzione: volevo che la memoria di Thala sopravvivesse.

 

Viaggiare mi aiutò molto più di quanto avessi sperato: vi scoprii un nuovo senso del vivere, una nuova lietezza, alla quale il ricordo di lei donava sfumature più sovente di dolce nostalgia che di disperazione.

Vidi gli spettacoli più imponenti del mondo umano e divino, traendo la massima gioia laddove essi si incontravano: visitai palazzi costruiti sotto le cascate, obelischi eretti nel mezzo delle foreste, santuari altissimi posti in cima alle montagne più impervie, castelli rovesciati edificati in abissali fenditure e città intere galleggianti, si sarebbe detto, sull’oceano.

Ovunque, il mio cuore divorava avido ogni dettaglio, ogni sensazione di poesia, pur struggendosi di non poterla più condividere con lei.

La cosa che più amavo era la pietra: fredda, solida, immortale.

Cosa resisteva più in eterno della roccia?

Forse andava già formandosi in me quella vaga idea che presto mi avrebbe posseduto.

 

Un giorno, approdai nelle terre del lontano ovest; erano luoghi selvaggi, in larga parte inesplorati, dove si poteva passare in pochi giorni di viaggio da candide distese di ghiaccio a roventi lande desertiche; e fu proprio in un deserto che terminò, in un certo senso, il mio viaggio.

 

Camminavo da circa due settimane, senza idea di dove stessi andando.

Pensavo di aver mantenuto la direzione, ma avevo già imprudentemente finito le scorte d’acqua, e di un qualunque luogo abitato, nemmeno l’ombra.

Il sole mi picchiava sul corpo come un martello incandescente, impietoso.

Fino a quel giorno, avevo portato con me un oggetto, una pietra bianca dell’altipiano, su cui erano scritti i nostri nomi.

Essa, quando la presi, come spesso mi accadeva, per accarezzarla in momenti di riflessione, mi cadde di mano.

All’impatto col suolo, schioccò sonoramente: c’era qualcosa sotto la sabbia!

La riposi nella sacca e iniziai a scavare.

Ne cavai una pietra lucida, nera come una notte senza luna né stelle, fredda alla base.

E ce ne doveva essere una gran quantità, lì sotto!

Preso dalla scoperta, scavai ancora, tirandone fuori delle altre, finché presto il terreno non cedette sotto i miei piedi e precipitai.

 

Acqua.

C’era una sorgente, una meravigliosa sorgente sotterranea di freschissima e limpida acqua intrappolata in quella oscura prigione di pietra!

Pian piano prendeva forma nella mia mente il mio folle progetto.

L’acqua aveva un gran valore in quei luoghi, avrei solo dovuto saperla sfruttare a dovere.

 

Mi procurai i mezzi più adatti, ma lo costruii io, pietra dopo pietra, anno dopo anno.

Anche se andavo regolarmente nella città più vicina ad intrattenere rapporti commerciali, mi attirai una pessima fama.

Per tutti ero l’uomo folle ed indemoniato che da decadi stava erigendo un santuario nero in mezzo al deserto, l’uomo che barattava usando acqua, come se fosse lui a farla sgorgare dal nulla.

 

Davvero pochi, in quasi mezzo secolo di fatica, furono i viandanti che mi cercarono od incontrarono senza subito fuggire, e con loro fui massimamente ospitale.

Nel frattempo, il maniero cresceva imponente e, fresco com’era, finii, seppure per riluttanza, per abitarci ed ospitarci rarissimi amici; del resto, così lo esorcizzavo per sempre da poter essere frainteso come monumento funebre.

 

Quando terminai l’edificio in sé, dovetti scegliere come immolarlo alla sua memoria.

In un piano, scolpii innumerevoli statue, che riproducessero ogni emozione umana, perché insieme significassero ‘’vita’’.

Poi, in un altro, dipinsi i tre soggetti più belli che mi venissero in mente, tre momenti culminanti del giorno, eludendo quello più banale, ancor meglio di come essi apparissero nella realtà, per quanto mi fosse possibile, e vi aggiunsi una scultura ambientale, diciamo, il ‘’silenzio’’ che mi aveva portato la sua morte.

Edificai anche un teatro, immenso, che simboleggiava un ricordo tutto mio, tutto nostro, impossibile da trasmettere ad un altro essere umano.

 

In cima, nell’ultima stanza, volli rappresentare lei stessa.

O meglio, ciò che per me lei era stata: un amore candido, puro, perfetto e dolce come la Luna.

Nel sarcofago, riposi la pietra: quello era ciò che realmente rimaneva di noi, non le nostre spoglie, le nostre ossa stanche.

Quello era ciò che doveva sopravvivere.

 

E sulla pietra, incisi le parole che univano in sé tutto quanto avevo avuto nella vita: lei, ed il viaggio, ossia l’arte dello scoprire e dell’ammirare.

 

Sull’altipiano, il vento batte gelido.

Sono tornato.

Sulla sua tomba.

 

Ora non mi sento più solo;

anzi, mi sento quasi felice.

Il cerchio si chiude: è perfetto, meraviglioso;

la raggiungerò nel nulla,

ma vivremo ancora, forse per sempre.

Ti ho salvata, amore mio…

 

Forse sono folle,

forse…

Ma mi sei mancata come l’aria…

Morire sarà come respirare.

 

Ho fatto tutto il possibile, davvero…

Sì…

Muoio qui, ora, su di te, con te…

Muoio senza rimpianti, muoio amandoti, ancora, per sempre.

Sì…

Ti ho salvata…

Ti raggiungerò, amore mio…

Ti amo…

 

Mi sdraio accanto alla tomba, l’abbraccio,

abbraccio la terra fredda e nera sotto la neve,

sfioro la pietra gelida ed eterna,

la stringo a me…

 

Infine,

chiudo gli occhi…

 

Fine.

   
 
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