Capitolo
4
Rosa
De Santis
Settembre
1943
False
speranze
Il cielo
cominciava a imbrunire, l’aria a raffreddarsi e Roma dava così il suo addio a
una lunga, calda e austera estate di guerra. La mia estate era trascorsa – del
resto come ogni estate – all’insegna della monotonia e della tristezza a causa
delle solite aspettative deluse. Nell’autobus, uno dei pochi riservati a noi
ebrei, eravamo stretti come tante sardine in una scatola ed io, aggrappata
saldamente a una maniglia, mi sentivo in trappola. Dal fondo, proveniva un
vociare continuo e fastidioso di ragazzi uno dei quali urlava in romanesco
stretto ed io mi pentii di essere salita su quell’autobus. Giunta alla fermata,
con un sospiro di liberazione, scesi dall’autobus nel mio vestito nero a
campana e mi avviai verso la Fontana di Trevi. Lì, davanti ai miei occhi, si
presentarono le scene di sempre: qualche turista di mezza età che scattava
foto; ragazzi e ragazze seduti che parlavano e ridevano; un vigile che
riprendeva severamente dei bambini intenti a rubare le monetine con un retino.
Poggiai la giacchettina bianca sulle spalle mentre il vento mi spruzzò sul viso
alcune gocce d’acqua. Chiusi per un istante gli occhi e sospirai, questa volta
di sollievo. Poi, guardandomi attorno, mi resi conto che ero l’unica senza
compagnia e di nuovo m’invase la tristezza. Mi avevano detto che per ogni
persona sulla faccia della terra c’era un’anima gemella e la mia in quale parte
del mondo si nascondeva? Mi domandavo chi fosse e cosa stesse provando in quel
momento l’uomo che dall’alto mi era stato designato. Forse, come me, sentiva il
disperato bisogno di essere amato e di colmare il vuoto della solitudine.
Forse, come me, era stato deluso da persone a cui voleva bene e adesso il suo
cuore stentava ad aprirsi agli altri. Forse, come me, si sentiva insoddisfatto
di se stesso e della propria vita. Avvertii una sensazione di debolezza alle
gambe e pensai di andarmi a sedere sul muretto. Ma poi non mi mossi, ricordando
che agli ebrei era proibito sedersi lì. Decisi allora di farmi forza per non
sprofondare di nuovo nell’angoscia e ci riuscii. Frugai nella borsa alla
ricerca di qualche spicciolo e, trovato un centesimo di lira, mi avvicinai alla
fontana. Mi voltai, chiusi gli occhi e, esprimendo il desiderio – quello di
sempre – di trovare l’amore, lanciai la monetina. Quando riaprii gli occhi,
come un oscuro presagio, vidi passare davanti a me un piccolo reparto di SS e,
impaurita, scappai via.
La radio interruppe
la sua trasmissione musicale proprio nel bel mezzo della mia canzone preferita,
“ Ma l’amore no ”, e mi precipitai ad alzare il volume. Con l’orecchio quasi
attaccato alla radio, ascoltai impaziente le parole di un uomo dalla voce
atona: “ Il governo
italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la
soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più
gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower,
comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è
stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze
anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da
qualsiasi altra provenienza ”. Sentii
un tuffo al cuore. Il maresciallo Badoglio aveva proclamato l’armistizio, la
guerra era finita. Avvicinai una mano alla bocca e, con l’altra, mi ressi al
mobile sul quale era poggiata la radio, prima di cadere per terra in ginocchio.
“ La guerra è finita. ” sussurrai in lacrime e, in quello stesso momento, le
campane delle chiese suonarono a festa. Le finestre delle case si riaprirono
dopo tanto tempo e le voci delle persone, scese in strada per condividere la
loro gioia, si unirono in un sol grido: “ Badoglio ha parlato, la guerra è
finita! ” “ La guerra è finita. ” ripetei con più voce e, asciugandomi le
lacrime, mi alzai di scatto dal pavimento. Come tutti gli altri, mi affrettai
per le scale e, appena uscii dal palazzo, incontrai la mia amica Anita.
Contenta, mi corse incontro, mi abbracciò e mi disse: “ Adesso le cose si
aggiusteranno anche per noi. ” Ed io già ci credevo.
Ma la guerra non era finita, il
momento che noi tutti attendavamo dalla caduta del fascismo era stato un’illusione.
Il giorno dopo, infatti, Roma si svegliò nelle mani degli ex alleati tedeschi.
Le finestre delle case si chiusero di nuovo, il suono festoso delle campane si
trasformò nel rumore sordo degli spari e l’urlo di gioia in gemiti di paura e
disperazione. Io, ormai a pezzi, mi chiusi nel silenzio della rassegnazione. Sdraiata
sul letto, udivo le voci e le urla dei nazisti intenti a cercare e catturare i
soldati italiani in fuga e pensavo che presto sarebbe toccata anche a noi ebrei
la stessa tragica sorte. In me era morta ogni speranza sul futuro.
“ Rosa … ” cominciò a dire mia
madre, sedendosi ai piedi del letto sul quale ero stesa da giorni. Non le
rivolsi lo sguardo, continuando a fissare il soffitto ma immaginai che
l’espressione del suo viso fosse triste proprio come la sua voce. “ … I tedeschi hanno chiesto
cinquanta chili d’oro alla comunità ebraica, hanno detto che non ci faranno
alcun male se ubbidiremo. ” affermò mia madre ma senza crederci. Anche lei
aveva ormai perso la speranza. “ E se non ce la faremo a raggiungere quel peso?
” chiesi angosciata e lei mi rispose con lo stesso tono: “ Porteranno duecento
di noi in Germania, nei campi di concentramento. ” Per un attimo, avvertii un
senso di soffocamento alla gola poi, riprendendomi, dissi: “ Quando finirà
tutto questo? ” “ è appena
iniziato. ” rispose ed io fui quasi grata a mia madre perché, almeno lei, non
aveva tentato d’illudermi con speranze che, alla fine, si rivelavano false.
Nel
ventilato pomeriggio del giorno seguente, lunedì 27, io e la mia famiglia
eravamo sul marciapiede del Lungotevere De’ Cenci, alla fine della lunga e
silenziosa fila di persone, per consegnare agli uffici comunitari la nostra piccola
parte d’oro. Stringevo fra le mani e guardavo il fazzoletto rosa con dentro i
miei unici gioielli – che avrei indossato alcuni giorni dopo per il Capodanno
ebraico –, una catenina con un piccolo ciondolo a forma di cuore e un anellino:
un po’ mi dispiaceva separarmene. Con mio stupore, si accodò alla fila un
sacerdote cattolico con tonaca e cappello nero. Lo guardai: non doveva avere
più di trent’anni, il suo sguardo era sereno e stringeva fra le mani una
scatola di cartone abbastanza grande. “ La Chiesa è venuta in nostro aiuto! ”
esclamò contento un uomo rivolgendosi a mio padre. Il giovane sacerdote sorrise
e sistemò meglio la scatola fra le braccia. Pochi minuti dopo, si avvicinarono
di corsa un ragazzo e una ragazza, incinta di tre o quattro mesi. I due non
portavano la stella gialla e, dunque, non erano ebrei. “ Padre … ” fece la
ragazza, con voce affannata, rivolgendosi al sacerdote “ … Ci abbiamo
ripensato. ” La ragazza si sfilò dal dito la fede nuziale e lo stesso fece il
suo giovane marito. Davanti a questa scena, mi si strinse il cuore: i fratelli
cristiani ci stavano aiutando a raggiungere il peso d’oro richiesto dai
nazisti. “ Che il Signore ve ne renda merito, figlioli. ” disse il sacerdote e,
presi gli anelli, li pose nella sua scatola. I due giovani sposi sorrisero
all’unisono e, com’erano arrivati, correndo andarono via. Commossa, li guardai
allontanarsi: quella coppia, con il suo gesto altruistico, aveva risvegliato in
me la fiducia nel buon cuore delle persone e mi aveva ricordato il sogno della
mia vita, sposarmi e avere una famiglia. In quel momento, desiderai credere,
come una volta, che fosse possibile ma poi m’imposi di non farlo per non
crearmi un’illusione.
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Di Nadine_Rose