Cazzo, ho tardato un po' D:
Mi spiace, vi chiedo
umilmente scusa, cercherò di farmi perdonare con le new
entry di questo capitolo *-*
Vi auguro buona lettura,
ovviamente *-* Sono felicissima che delle persone stiano seguendo
qu1esta storia, davvero, non le l'aspettavo *-*
Oggi sono dolciuosa *-*
Strano, visto che tra appena 21 giorni dovrò fare l'esame di
recupero di latino. lebvoultkebfhrbgsjaq
Sì,mi sto
mooolto lentamente abituando all'idea, se non si fosse notato. xD
Dudedum... vado a fare la doccia *-*
Buon capitolo ...
awààà
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
Coloro che la hanno
inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
Coloro che la hanno
inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- sarr
E infine le tre magnifiche
ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Nadine_Rose
- Fairness
- Norine
Al prossimo aggiornamento,
Schizophrenia.
Salviamoci la pelle.
-Words.
Caserma,
Leningrado, Unione Sovietica.
24
Dicembre 1943
08:26
Il colonnello generale Gurtsieva era in pensiero. I tedeschi stavano guadagnando terreno e l'Armata Rossa stava cercando di rinforzarsi come meglio poteva, anche se non era facile per nessuno di loro. Era seduto alla sua scrivania, sospirando. Lui sapeva molto sull'Armata Rossa; era per questo che sua figlia... era stata portata via da quei bastardi. Non riusciva a darsi pace. Si chiedeva ogni giorno se fosse ancora viva, ma non riusciva mai a darsi una risposta. Era troppo difficile anche solo pensarci.
Era la vigilia di
Natale, ma non era riuscito a rimanere a casa. Avrebbe davvero voluto
rimanere lì, con sua moglie e con il fratellino di Bea, ma
non ci era riuscito. Boris Gurtsieva aveva trentotto anni e gli stessi
capelli corvini della sua primogenita, e adesso erano scompigliati,
sconvolti: voleva ritrovare la sua bambina, anche se ormai aveva paura
che, dopo appena nove giorni, i tedeschi l'avessero già
uccisa. Si sentiva sempre più colpevole di tutto quello che
stava succedendo e non era più nemmeno in grado di lavorare
in modo decente.
Sua moglie, Diana, era
sconvolta e aveva paura, si occupava del figlio minore, Sergeij.
Proprio Sergeij, dall'innocenza dei suoi cinque anni, quella mattina
aveva chiesto a sua moglie, saltando giù dal letto, "Mamma,
Bea aprirà i regali con noi, stanotte?". La voce innocente
di quel bambino era bellissima e melodiosa; ma sia Boris che Diana non
erano riusciti a trattenere una smorfia, sentendolo. Non gli avevano
detto cos'era capitato a sua sorella, non avrebbe potuto capirlo. Era
troppo piccolo per riuscirci.
Il colonnello era
convinto che l'avessero portata in uno di quei posti orribili dove
chiudevano gli ebrei, solo che quasi tutti erano camuffati come se
fossero fabbriche, era impossibile trovarli, e per un colonnello
dell'Armata Rossa entrare in Germania nel 1943 era un vero e proprio
suicidio.
In quel momento
entrò un giovane, sull'attenti, << Buon
giorno, colonnello >> esclamò, osservandolo.
Era alto, sul metro e ottantacinuqe. I capelli neri erano lisci,
portati un po' lunghi, aveva una leggera barbetta e gli occhi erano
dello stesso colore del petrolio. Aveva diciannove anni, anche se era
in grado di dimostrarsi molto più maturo della sua giovane
età. Era Dimitri Todorov, il migliore amico della figlia di
Boris Gurtsieva. Era innamorato di Bea Gurtsieva da quando lei aveva
appena dodici anni e lui quindici, ma non aveva mai avuto il coraggio
di rivelarle i suoi sentimenti.
<< Riposo,
tenente >> disse tranquillamente Boris, cercando di non
mostrare al giovane quanto fosse in ansia. Quello doveva essere un
felice Natale almeno per la famiglia Todorov, ma dubitava che sarebbe
stato così. Conosceva il padre di Dimitri da quando erano
piccoli, quindi il giovane che gli stava davanti era come se fosse
figlio suo. Era capace di provare amore ed era sicuro che il Natale non
sarebbe bastato a tenerlo allegro, dopo quello che era successo a sua
figlia.
Dimitri fece come gli
era stato ordinato, sospirando appena. Si passò una mano tra
i lunghi capelli neri, << Ha avuto qualche notizia di
Bea? >> mormorò, con la faccia più
disperata che il colonnello generale avesse mai visto stampata in
faccia ad un militare: gli avrebbe volentieri concesso la mano di sua
figlia, l'aveva sempre pensata così. Si ripeteva ogni giorno
"Non appena Todorov si deciderà a rivelare finalmente il suo
amore a mia figlia, gli permetterò di sposarla", ma questo
non avveniva e adesso Bea era stata rapita. Forse sarebbe morta presto,
se non lo era già.
Boris Gurtsieva scosse
il capo, << Ancora niente, Dimitri, mi dispiace
>> disse, aveva assunto un tono più
confidenziale. In fondo aveva visto quel ragazzo uscire dal grembo
della madre e si stava parlando di sua figlia, Beatrisa Irina Borisovna
Gurtsieva; che strano, adesso che ci pensava Dimitri Todorov era
l'unico che a volte chiamava la ragazza con il suo secondo nome,
trasformandolo nel vezzeggiativo Irishka.
Il tenente si
lasciò ricadere nella sedia posta di fronte alla scrivania
del colonnello. Aveva passato quei nove giorni nelle piene ricerche di
Bea, aveva persino chiamato il consolato francese per essere certo che
nessuno sapesse proprio niente; ormai era chiaro anche a lui che
l'avevano portata in Germania; ma non si arrendeva così
facilmente. Non era porprio il tipo, << Non
c'è nulla che possiamo fare, colonnello? >>
Boris osservò
il ragazzo, con un pizzico di compassione: lui aveva perso sua figlia,
ma il moro sembrava aver perso la donna che amava. Lui non avrebbe
saputo che fare se gli avessero tolto la sua Diana ai tempi della
gioventù. Voleva davvero ritrovare sua figlia, ma non era
così semplice: non poteva mettere a rischio tutta la santa
Madre Russia. << Dobbiamo solo aspettare notizie dai
tedeschi, Dimitri >> ma entrambi sapevano che non
sarebbero mai arrivate: se non l'aveva messa a lavorare con gli ebrei
non riuscivano a immaginare a cosa potesse servire loro una ragazzina
di appena sedici anni; ma qualunque cosa fosse, una volta che
l'avrebbero ottenuta lei sarebbe morta. << Purtroppo non
passerà il Natale qui, pare... >>
mormorò, osservando il volto contrariato del ragazzo,
<< Non guardarmi così, Dima: è la
mia bambina, nessuno desidera trovarla quanto lo desidero io
>>
Dimitri
sospirò. << Perché hanno preso lei?
Cosa vogliono? Non gli bastava un qualunque soldato semplice
dell'Armata Rossa?! >> sbottò il ragazzo,
alzandosi di scatto. Aveva sempre odiato i tedeschi e non si era fidato
di Hitler nemmeno quando il compagno Stalin aveva stretto un patto con
lui, ma da quando avevano portato via la sua Bea li sopportava ancora
meno, se solo fosse stato umanaente possibile.
<<
Dimitri, non parlare così dei soldati della santa Madre
Russia, se ti sentissero finiresti male >>
borbottò il colonnello generale Gurtsieva, anche se
probabilmente la pensava proprio come il ragazzo, ma come si dice? I
muri hanno le orecchie, no? << Hanno preso lei
perché è una ragazzina di sedici anni, pensano
che otterranno prima delle informazioni sul nostro conto: la credono
debole >> spiegò. Era molto intelligente, per
questo era stato promosso a colonnello generale: elaborava delle ottime
strategie militari, anche se contro i tedeschi nemmeno lui poteva
molto.
Il più
giovane ghignò, al solo sentire la parola "debole" in
riferimento alla sua Bea. << Allora non sanno con chi
hanno a che fare >> disse. Bea era, sì, una
ragazza ma non era affatto debole. Neanche un po'.
<< Hai
ragione >> concordò Boris, lasciandosi
sfuggire un piccolo sorriso: sì, su quello aveva proprio
ragione.
<< Ho un
piano per sapere dove la hanno portato! >> disse il
più giovane, serio e conscio del fatto che era qualcosa di
assolutamente folle, ma lui voleva farlo. Doveva tentare almeno di fare
qualcosa, non aveva assolutamente intenzione di starsene con le mani in
mano come avevano fatto tutti gli altri.
Il colonnello
inarcò un sopracciglio: scettico, conosceva i piani
partoriti dalla mente di quel ragazzo, era un soldato ma agiva un po'
troppo col cuore, senza pensare. Quando voleva fare qualcosa i suoi
piani assomigliavano molto più a missioni suicide.
<< Parla, Todorov >> gli concesse,
facendogli dono del beneficio del dubbio, per una volta.
<< Se
vogliono delle informazioni, potrei espormi. Catturare un solo soldato
russo non dovrebbe essere troppo difficile per loro. Mi farete seguire
dall'alto dagli aerei. Loro mi porteranno sicuramente dove hanno
condotto Bea e poi l'Armata Rossa potrà liberarci tutti
>> spiegò, brevemente, il ragazzo dai capelli
scuri.
Boris Gurtsieva si
rattristò. Sarebbe stato un buon piano per trovare sua
figlia, ma non poteva: era troppo rischioso. << No,
Dimitri, non possiamo mettere a rischio la santa Madre Russia. Dobbiamo
aspettare >> mormorò il colonnello, alzandosi
dalla sedia e dando le spalle al ragazzo. Sospirò, mentre
esaminava un quadro appeso alla parete del suo ufficio,
<< Può andare, tenente >> disse,
tornando formale.
Dimitri non si
sforzò di rispondergli e lasciò l'ufficio,
iniziando a camminare lungo il corridoio della caserma.
Infilò una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e
accarezzò la carta ruvida, color marrone, di un pacchetto.
Era il suo regalo di Natale per Bea, ma non avrebbe mai potuto
darglielo.
Campo
di sterminio di Buchenwald, Germania.
24
Dicembre 1943
23:42
Quel giorno Mark non aveva avuto troppe cose da fare, era la vigilia di Natale, ma in un campo di concentramento sembrava un giorno qualsiasi. Aveva visto i deportati lavorare tanto, come mai avevano lavorato prima. Lui si era allenato tutta la mattina e anche tutto il pomeriggio. Aveva cenato con suo padre, una cena veloce, nulla di speciale. Il Germania non c'era l'usanza del cenone della vigilia, ma di certo Mark non credeva che avrebbero mangiato ancora una volta pane e formaggio, quella sera, visto che la cameriera si era presa la libertà di partire per il Natale, quel mattino.
Subito dopo aveva preso
una gamella dalle cucine e aveva percorso il corridoio che lo separava
dalla camera della ragazzina. Per tutto il giorno aveva avuto in testa
le parole di Walter. Quella ragazza apparteneva ad una razza inferiore
e doveva odiarla sul serio, ma preferiva tenersi il suo migliore amico,
piuttosto che seguire l'opinione di Hitler, una volta tanto. Purtroppo
Hoffmann era duro di testa e niente gli avrebbe fatto cambiare idea,
una volta presa una decisione, quindi doveva adattarsi e chiedere scusa
a quella mocciosetta. Inoltre era davvero troppo stanco per fermarsi a
riflettere più di due minuti su quello che era giusto fare.
Si fermò
dinanzi alla porta. Avrebbe potuto non accettare le sue scuse, ma
questo non era importante, per Walter doveva solo fargliele. Il
problema più grosso era come fare queste scuse, lui non era
certo un esperto nello scusarsi, l'aveva fatto poche volte in vita sua
e dopo i suoi dieci anni, sempre meno spesso. Non era più un
bambino dolce e tenero, era un ragazzo con un orgoglio spropositato. Si
decise a bussare, qualche istante dopo, dicendosi che l'istinto avrebbe
fatto il suo lavoro. C'è sempre una prima volta.
La ragazza non
rispondeva e il biondo iniziava ad irritarsi, non sopportava che gli si
chiudesse la porta in faccia. D'accordo, questa volta non gliel'avevano
nemmeno aperta ma il punto non era di certo questo. Era casa sua e non
avrebbe nemmeno dovuto bussare. Abbassò la maniglia entrando
in camera. La ragazza stava ancora facendo finta di dormire, come la
sera precedente, lo capiva, ma si era scocciato di fare quel gioco,
quindi avrebbe parlato lo stesso, che la ragazza stesse dormendo o
meno, in fondo Walter non aveva specificato che dovesse essere
cosciente mentre le faceva le sue scuse... no?
Poggiò, come
la sera prima, la gamella sul tavolino, accanto alla lampada ma
stavolta andò a sedersi sul letto, accanto alle sue gambe
stese, poteva quasi vederle e ammirarle attraverso la stoffa leggera
del lenzuolo. Per la seconda volta il pensiero che la ragazza dovesse
morire di freddo in quelle condizioni attraverso la sua mentre, anche
se sapeva che non sarebbe dovuto interessargli. Non erano affari suoi
di come trattavano una deportata.
<<
Sappiamo entrambi che non stai dormendo, quindi rimani zitta e
ascoltami >> iniziò il biondo, borbottando.
Così non andava bene, sembrava palese che non avesse alcuna
voglia di parlarle davvero ma doveva farlo. Le poggiò una
mano sul fianco, da sopra il lenzuolo, quasi volesse trasmetterle con
quel solo gesto che quella notte non aveva intenzione di farle del male.
Quanto a Bea, stava
davvero fingendo di non dormire. Aveva paura: paura che la trattasse di
nuovo come aveva fatto quella volta, paura delle ferite che ricoprivano
ogni giorno di più il suo corpo, perché gli altri
soldati continuavano a torturarla nella speranza di ottenere
informazioni utili da lei. Tuttavia la curiosità la
opprimeva: voleva ascoltare ciò che aveva da dire; si
mordicchiava il labbro inferiore, ritenendosi fortunata a dargli le
spalle, così lui non avrebbe potuto vederla. Si
stupì notevolmente del tocco del soldato nazista: non era
abituata a tanta gentilezza da parte loro.
Il nazista
sospirò, cercando le parole adatte. Lui non era portato per
certe cose! << Volevo che tu sapessi che non ti
toccherò più >>, pensò
che quello fosse un buon inizio, era una delle parti che sentiva
davvero: in fondo a cosa gli serviva una deportata?! Lui poteva avere a
letto tutte le donne che voleva. << e quindi chiederti
scusa per l'altra volta, agisco troppo d'istinto, a volte
>> aggiunse, poco dopo, riuscendo chissà come
a pronunciare quelle parole. La cosa dell'istintività
però era vera, lo pensava anche lui, pur non essendo solito
ad ammettere i propri difetti.
Bea non rispondeva, ma
non riusciva a credere che si stesse davvero scusando con lei. Rimase
in silenzio, con il respiro diverso, quasi ansioso. D'altra parte, a
Mark non era mai capitato di avere qualcuno che lo ascoltasse,
rimanendo in silenzio. Anche Walter parlava troppo, per i suoi gusti.
<< E' dura
stare qui, lo so meglio di quanto tu possa immaginare, ragazzina
>> iniziò a parlare. Sapeva che non stava
davvero dormendo, ma il suo ascoltarlo lo spronava a parlare e ad
esprimersi, come non aveva mai fatto in vita sua, se non con il suo
migliore amico. << Tu sei convinta che ciò che
stai passando sia un inferno, vero? Beh, per ora ti hanno solo
torturata e violentata, dovresti ritenerti fortunata >>
era serio, mentre le accarezzava delicatamente il fianco con la punta
delle dita, solo sfiorandolo. Disegnava cerchi sempre più
piccoli sul corpo della ragazza, sempre attraverso le lenzuola.
La ragazza ancora non
riusciva a crederci: lo stava dicendo davvero? Si stava rilassando, ad
essere sfiorata in quel modo, senza che le mani del giovane la
toccassero davvero, come aveva promesso qualche istante prima.
<< Esiste forse di peggio? >> le
sfuggì dalle labbra, senza che lei volesse davvero.
Mark sorrise, tra
sé e sé. << Sapevo che non stavi
dormendo >> le disse, con una lievissima nota d'ironia,
appena udibile nel tono di voce, evitando di proposito la domanda fatta
dalla ragazza. La cosa peggiore era che voleva risponderle.
Sì, voleva dirle che esisteva di peggio, e lui lo sapeva
bene, ma non poteva. Non poteva perché lei era una delle
persone che doveva odiare; e che odiava. Ritrasse la mano dal fianco
della ragazza, poggiandosela sul ginocchio.
<< Cosa
può esserci di peggio? >> chiese ancora la
ragazza, sfiorandosi con l'indice la profonda ferita alla spalla che le
avevano provocato proprio quella mattina: ormai il sangue aveva smesso
di scorrere e si era incrostato tutto intorno, poi avvertì
una fitta al bassoventre al ricordo delle notti precedenti, molto
più psichica che fisica, a dire il vero.
Il biondo le rivolse uno
sguardo, pur sapendo che la ragazza era girata. Era una sguardo vuoto.
<< Non vorresti mai averlo provato >>
riuscì solo a mormorare, troppo impegnato a scacciare i
ricordi che gli impregnavano la mente fino a farlo star male. La testa
scoppiava, se sono si lasciava sopraffare dai pensieri che la
offuscavano, come se una nebbiolina nera e densa si cospargesse mano a
mano nella sua mente.
Beatrisa Irina Borisovna
Gurtsieva si tirò lentamente a sedere, votandosi dal lato
del nazista, incontrando uno sguardo che non gli era mai capitato di
vedere in nessuna persona che conosceva. Gli occhi color cioccolato del
ragazzo era freddi, quasi di ghiaccio, la ragazza avrebbe osato diro
che avessero preso una sfumatura più chiara, passando dal
marrone intenso con striature nocciola che aveva visto la prima volta
ad un iride completamente nocciola, quasi grigia attorno alla pupilla.
Era sofferenza? Forse, ma non era lo stesso tormento che stava provando
lei. Non era il dolore della tortura, era qualcosa di più...
malato; e, in quel momento, Bea seppe che aveva ragione: non avrebbe
mai voluto provare quel tipo di dolore.
Mark fu lievemente
sorpreso di non trovare compassione nei suoi occhi verdi. Era il motivo
per cui evitava di parlarne anche a Walter: odiava essere compatito, a
suo parere non esisteva cosa peggiore del fatto che qualcuno avesse
pena di lui. Perché lui era forte, e si era dimostrato tale
affrontando tutto quello da solo, senza mai chiedere aiuto
né appoggiarsi a qualcuno che non fosse il figlio del
signor. Hoffmann, che sapeva tutto, sebbene lui non gli avesse mai
parlato di niente.
Una mano della ragazza
si posò su quella del nazista, poggiata sul ginocchio di
lui. << In santa Madre Russia diciamo "chi è
scottato una volta, l'altra vi soffia su" >>
citò la ragazza. L'aveva sentito spesso, a Mosca. Non voleva
essere davvero gentile con quel ragazzo, né tanto meno
provava compassione nei suoi confronti, semplicemente sentiva di
doverlo rassicurare. Chi dice che sia sempre il fantomatico lui a
proteggere la fantomatica lei fisicamente, in fondo...?
Il giovane Schreiber
alzò lo sguardo verso di lei, osservandola perplesso.
Avvertiva come inappropriato il calore che la mano della ragazza
sprigionava poggiandosi sulla sua, però non gli dispiaceva
neanche un po'. << Cosa significa? >> era
confuso.
Un lieve sorriso si
dipinse sul volto di Bea, << Niente. Niente di importante
>> disse, sapendo che l'avrebbe capito, da solo. Non
c'era bisogno che glielo spiegasse lei.
Il biondo si
alzò, di scatto, confuso dal comportamento della ragazza e
dal suo. Non era logico, non doveva essere. << Devo
andare >>. No, non era vero, non doveva andarsene, voleva
andarsene, ne sentiva la necessità. Aveva bisogno di aria
pulita da respirare, perché non poteva rimanere
lì a parlare con lei senza sentirsi scottato dalle sue
parole, senza sentirsi umiliato dal come una persona che avesse
soltanto usato fosse capace di perdonare e di capire. Mark Schreiber
non conosceva quella ragazza, e lei non doveva conoscere lui, mai. Non
aspettò che lei rispondesse, per sgusciare fuori,
sbattendosi la porta alle spalle.
Weimar,
Germania.
25
Dicembre 1943
14:00
Mark e suo padre erano stati puntuali, ad arrivare dagli Hoffmann. Si erano salutati e si erano scambiati i doni, fingendo di rimanere sorpresi da qualcosa che, come tutti gli anni, si era rivelato essere estremamente banale. Mark non aveva avuto nemmeno la forza di mentire per bene: si vedeva che in realtà cosa gli avessero regalato non gli interessava affatto, anche perché non era un gran patito dei regali, ma in quel momento aveva tutt'altra cosa in mente. Pensava alla sera prima, a quando aveva parlato con quella ragazza e ancora non riusciva a capacitarsene. In quel momento si odiava da solo: erano state poche frasi, certo, ma non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con qualcuno, era uno sbaglio che non avrebbe ricommesso.
Mark e suo padre erano stati puntuali, ad arrivare dagli Hoffmann. Si erano salutati e si erano scambiati i doni, fingendo di rimanere sorpresi da qualcosa che, come tutti gli anni, si era rivelato essere estremamente banale. Mark non aveva avuto nemmeno la forza di mentire per bene: si vedeva che in realtà cosa gli avessero regalato non gli interessava affatto, anche perché non era un gran patito dei regali, ma in quel momento aveva tutt'altra cosa in mente. Pensava alla sera prima, a quando aveva parlato con quella ragazza e ancora non riusciva a capacitarsene. In quel momento si odiava da solo: erano state poche frasi, certo, ma non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con qualcuno, era uno sbaglio che non avrebbe ricommesso.
Walter si era accorto
del malumore dell'amico, ma non poteva farglielo presente
lì, davanti a tutti, davanti al padre di lui. Il signor
Hoffmann e il maggiore Schreiber parlavano tra loro, di politica, di
come andavano le cose nel lager di Buchenwald e di altre cose che hai
due giovani non interessavano. Certo, stavano anche parlando della
carriera militare di Mark, che da metà dicembre era
diventato ufficialmente un soldato semplice. La madre era in cucina,
preparava le ultime cose per il pranzo di Natale e si occupava di
apparecchiare per bene la tavola in sala da pranzo.
<< Faccio
vedere una cosa a Mark e siamo di nuovo da voi >> disse
Walter ai due genitori, sfoderando il suo miglior sorriso. Ovviamente
voleva rimanere da solo con il suo migliore amico per parlargli in
privato, non aveva assolutamente nulla da mostrargli, quel giorno.
Il signor Hoffmann
interruppe per un attimo la sua conversazione, mentre Hans Schreiber si
trattenne dal constatare che interrompere due adulti che parlavano era
da maleducati; ma non lo fece perché Walter Hoffmann in
fondo era come un figlio per lui, l'aveva visto crescere e passava
molto pomeriggi da loro già da quando Agathe era ancora
viva. << Non metteteci troppo, il pranzo ormai
sarà quasi pronto >> lì
congedò il medico, rivolgendo un breve sorriso ad entrami,
prima di buttarsi nuovamente nella conversazione con il signor
Schreiber.
I due amici salirono le
scale, lentamente, per non dare nell'occhio. C'era una strana atmosfera
nell'aria e Mark credeva fosse limitata a lui e a quello che gli era
successo e da cui ormai era impressionato, non capiva che anche Walter
la sentiva. Arrivati nella stanza, il soldato si butò a
sedere sul letto, forse un po' a peso morto, di certo mentre imparava a
fare il militare non gli avevano insegnato ad essere elegante. La
camera era ben arredata, secondo il gusto impeccabile della signora
Hoffmann che comprendeva un gran numero di mobili in legno di noce.
Fu Walter il primo a
parlare, << Si può sapere che hai?
>> chiese, quasi sbuffando, sedendosi sulla sedia accanto
alla scrivania. Era leggermente preoccupato, difficilmente il suo
migliore amico dimostrava così apertamente il suo malumore,
era strano e assolutamente non da lui. La cosa doveva essere abbastanza
seria.
<< Niente
Walter, niente. Ho chiesto scusa alla ragazzina comunista, come mi
avevi imposto di fare >> rispose l'altro, senza guardare
l'amico negli occhi. Tanto sapeva che l'amico avrebbe capito lo stesso.
Era inutile mentire in quel modo. Il fatto era che non sapeva nemmeno
lui cosa avesse esattamente. Sentiva il bisogno di parlargliene, ma era
troppo orgoglioso per farlo.
L'altro
annuì, tenendo gli occhi fissi sul volto di Mark: non stava
bene, si capiva subito. << D'accordo, cos'hai fatto di
tanto grave?! >> lo incitò a parlare Walter,
sembrava quasi divertito dalla cosa. Forse perché il suo
migliore amico combinava sempre danni, non era una gran
novità, soprattutto se si trattava di ragazze, che queste
ultime fossero tedesche o meno in effetti sembrava avere davvero poca
importanza per il suo migliore amico.
<< Ci
ho... parlato >> borbottò il ragazzo dagli
occhi nocciola, a bassa voce. Voleva sfogarsi, ma non voleva parlarne,
ma tanto sapeva che anche se non glielo avesse detto, Walter avrebbe
insistito così tanto da farlo scocciare, sputando fuori
tutta la verità, tanto valeva essere sincero con lui fin da
subito.
Hoffmann
capì, << Un momento... Tu... le hai detto
tutto?! >> era visibilmente stupito. Quella ragazza era
una sconosciuta e Mark odiava parlare di se stesso anche on le persone
che conosceva da anni. Quel ragazzo era un vero rompicapo: eri sicuro
che non avrebbe mai fatto una cosa in tutta a sua vita e tempo qualche
ora e tu stupida, facendola; ma di certo nessuno avrebbe mai pensato
che Mark Schreiber potesse parlare ad una deportata di sua madre o dei
problemi con suo padre... era troppo orgoglioso!
L'amico scosse la testa,
ancora senza guardarlo. Gli sembrava di essere dallo psicanalista; si
ritrovò a pensare che quello sarebbe stato un lavoro niente
male che il suo amico avrebbe potuto fare senza problema alcuno.
<< No, ma stavo per farlo >> ammise,
sembrava che la cosa lo infastidisse parecchio.
Walter annuì,
<< Secondo me non la odi poi così tanto
>> ipotizzò il biondo, prendendolo in giro.
Ovviamente non sapeva fino a quanto la sua affermazione potesse aver
colto nel segno, come al solito.
<< Io la
odio tantissimo >> ribatté Mark, alzandosi di
scatto dal letto e fulminando il suo migliore amico con lo sguardo.
<< Ah
sì?! >>
<<
Sì >>
<< E
allora perché stavi per dirle tutto di te? >>
<< Avevo
bisogno di sfogarmi con qualcuno >>
<< Potevi
parlarne con me >>
<< Walter,
senza offesa, non mi sono mai scopato te >>
<< Quindi
è una questione di con chi fai sesso, Mark? Eppure non mi
sembra che tu abbia mai parlato dei tuoi problemi con Ann o Elena... o
Liesbeth >>
<<
Fanculo, Walter >>
Il giovane Hoffmann
sorrise, ironico, all'ultima offesa del suo migliore amico, confermava
solo quanto in realtà avesse ragione, << Che
ne dici di andare a pranzare? >> chiese, ormai che aveva
ottenuto la sua vittoria.
<< E' una
buona idea >> accettò Mark, anche
perché il suo stomaco cominciava a brontolare. Le
discussioni con Walter gli mettevano sempre appetito e, anche se
quest'ultima cosa non l'avrebbe mai ammessa, allegria.
<< Ahn,
Mark? >> lo chiamò ancora il biondo,
voltandosi verso di lui, prima di iniziare a scendere le scale di
legno, diretto di nuovo in sala da pranzo.
Schreiber
alzò lo sguardo verso di lui, incontrando gli occhi azzurri
del suo migliore amico, << Sì? >>
<< Voglio
conoscerla >>
Luce
del mattino,
luce di un giorno strano,
pensavi di esser perso
che cambia il tuo destino
Anche il paradiso
può essere un inferno,
era tutto scontato
finché non sei caduto
[Riprendere Berlino, Afterhours]
luce di un giorno strano,
pensavi di esser perso
che cambia il tuo destino
Anche il paradiso
può essere un inferno,
era tutto scontato
finché non sei caduto
[Riprendere Berlino, Afterhours]