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Autore: Schizophrenia    10/08/2011    1 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Cazzo, ho tardato un po' D:
Mi spiace, vi chiedo umilmente scusa, cercherò di farmi perdonare con le new entry di questo capitolo *-*
Vi auguro buona lettura, ovviamente *-* Sono felicissima che delle persone stiano seguendo qu1esta storia, davvero, non le l'aspettavo *-*
Oggi sono dolciuosa *-* Strano, visto che tra appena 21 giorni dovrò fare l'esame di recupero di latino. lebvoultkebfhrbgsjaq
Sì,mi sto mooolto lentamente abituando all'idea, se non si fosse notato. xD

Dudedum... vado a fare la doccia *-*
Buon capitolo ... awààà

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- sarr
E infine le tre magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Nadine_Rose
- Fairness
- Norine

Al prossimo aggiornamento,
Schizophrenia.



Salviamoci la pelle.

-Words.


Caserma, Leningrado, Unione Sovietica.
24 Dicembre 1943
08:26

Il colonnello generale Gurtsieva era in pensiero. I tedeschi stavano guadagnando terreno e l'Armata Rossa stava cercando di rinforzarsi come meglio poteva, anche se non era facile per nessuno di loro. Era seduto alla sua scrivania, sospirando. Lui sapeva molto sull'Armata Rossa; era per questo che sua figlia... era stata portata via da quei bastardi. Non riusciva a darsi pace. Si chiedeva ogni giorno se fosse ancora viva, ma non riusciva mai a darsi una risposta. Era troppo difficile anche solo pensarci.
Era la vigilia di Natale, ma non era riuscito a rimanere a casa. Avrebbe davvero voluto rimanere lì, con sua moglie e con il fratellino di Bea, ma non ci era riuscito. Boris Gurtsieva aveva trentotto anni e gli stessi capelli corvini della sua primogenita, e adesso erano scompigliati, sconvolti: voleva ritrovare la sua bambina, anche se ormai aveva paura che, dopo appena nove giorni, i tedeschi l'avessero già uccisa. Si sentiva sempre più colpevole di tutto quello che stava succedendo e non era più nemmeno in grado di lavorare in modo decente.
Sua moglie, Diana, era sconvolta e aveva paura, si occupava del figlio minore, Sergeij. Proprio Sergeij, dall'innocenza dei suoi cinque anni, quella mattina aveva chiesto a sua moglie, saltando giù dal letto, "Mamma, Bea aprirà i regali con noi, stanotte?". La voce innocente di quel bambino era bellissima e melodiosa; ma sia Boris che Diana non erano riusciti a trattenere una smorfia, sentendolo. Non gli avevano detto cos'era capitato a sua sorella, non avrebbe potuto capirlo. Era troppo piccolo per riuscirci.
Il colonnello era convinto che l'avessero portata in uno di quei posti orribili dove chiudevano gli ebrei, solo che quasi tutti erano camuffati come se fossero fabbriche, era impossibile trovarli, e per un colonnello dell'Armata Rossa entrare in Germania nel 1943 era un vero e proprio suicidio.
In quel momento entrò un giovane, sull'attenti, << Buon giorno, colonnello >> esclamò, osservandolo. Era alto, sul metro e ottantacinuqe. I capelli neri erano lisci, portati un po' lunghi, aveva una leggera barbetta e gli occhi erano dello stesso colore del petrolio. Aveva diciannove anni, anche se era in grado di dimostrarsi molto più maturo della sua giovane età. Era Dimitri Todorov, il migliore amico della figlia di Boris Gurtsieva. Era innamorato di Bea Gurtsieva da quando lei aveva appena dodici anni e lui quindici, ma non aveva mai avuto il coraggio di rivelarle i suoi sentimenti.
<< Riposo, tenente >> disse tranquillamente Boris, cercando di non mostrare al giovane quanto fosse in ansia. Quello doveva essere un felice Natale almeno per la famiglia Todorov, ma dubitava che sarebbe stato così. Conosceva il padre di Dimitri da quando erano piccoli, quindi il giovane che gli stava davanti era come se fosse figlio suo. Era capace di provare amore ed era sicuro che il Natale non sarebbe bastato a tenerlo allegro, dopo quello che era successo a sua figlia.
Dimitri fece come gli era stato ordinato, sospirando appena. Si passò una mano tra i lunghi capelli neri, << Ha avuto qualche notizia di Bea? >> mormorò, con la faccia più disperata che il colonnello generale avesse mai visto stampata in faccia ad un militare: gli avrebbe volentieri concesso la mano di sua figlia, l'aveva sempre pensata così. Si ripeteva ogni giorno "Non appena Todorov si deciderà a rivelare finalmente il suo amore a mia figlia, gli permetterò di sposarla", ma questo non avveniva e adesso Bea era stata rapita. Forse sarebbe morta presto, se non lo era già.
Boris Gurtsieva scosse il capo, << Ancora niente, Dimitri, mi dispiace >> disse, aveva assunto un tono più confidenziale. In fondo aveva visto quel ragazzo uscire dal grembo della madre e si stava parlando di sua figlia, Beatrisa Irina Borisovna Gurtsieva; che strano, adesso che ci pensava Dimitri Todorov era l'unico che a volte chiamava la ragazza con il suo secondo nome, trasformandolo nel vezzeggiativo Irishka.
Il tenente si lasciò ricadere nella sedia posta di fronte alla scrivania del colonnello. Aveva passato quei nove giorni nelle piene ricerche di Bea, aveva persino chiamato il consolato francese per essere certo che nessuno sapesse proprio niente; ormai era chiaro anche a lui che l'avevano portata in Germania; ma non si arrendeva così facilmente. Non era porprio il tipo, << Non c'è nulla che possiamo fare, colonnello? >>
Boris osservò il ragazzo, con un pizzico di compassione: lui aveva perso sua figlia, ma il moro sembrava aver perso la donna che amava. Lui non avrebbe saputo che fare se gli avessero tolto la sua Diana ai tempi della gioventù. Voleva davvero ritrovare sua figlia, ma non era così semplice: non poteva mettere a rischio tutta la santa Madre Russia. << Dobbiamo solo aspettare notizie dai tedeschi, Dimitri >> ma entrambi sapevano che non sarebbero mai arrivate: se non l'aveva messa a lavorare con gli ebrei non riuscivano a immaginare a cosa potesse servire loro una ragazzina di appena sedici anni; ma qualunque cosa fosse, una volta che l'avrebbero ottenuta lei sarebbe morta. << Purtroppo non passerà il Natale qui, pare... >> mormorò, osservando il volto contrariato del ragazzo, << Non guardarmi così, Dima: è la mia bambina, nessuno desidera trovarla quanto lo desidero io >>
Dimitri sospirò. << Perché hanno preso lei? Cosa vogliono? Non gli bastava un qualunque soldato semplice dell'Armata Rossa?! >> sbottò il ragazzo, alzandosi di scatto. Aveva sempre odiato i tedeschi e non si era fidato di Hitler nemmeno quando il compagno Stalin aveva stretto un patto con lui, ma da quando avevano portato via la sua Bea li sopportava ancora meno, se solo fosse stato umanaente possibile.
<< Dimitri, non parlare così dei soldati della santa Madre Russia, se ti sentissero finiresti male >> borbottò il colonnello generale Gurtsieva, anche se probabilmente la pensava proprio come il ragazzo, ma come si dice? I muri hanno le orecchie, no? << Hanno preso lei perché è una ragazzina di sedici anni, pensano che otterranno prima delle informazioni sul nostro conto: la credono debole >> spiegò. Era molto intelligente, per questo era stato promosso a colonnello generale: elaborava delle ottime strategie militari, anche se contro i tedeschi nemmeno lui poteva molto.
Il più giovane ghignò, al solo sentire la parola "debole" in riferimento alla sua Bea. << Allora non sanno con chi hanno a che fare >> disse. Bea era, sì, una ragazza ma non era affatto debole. Neanche un po'.
<< Hai ragione >> concordò Boris, lasciandosi sfuggire un piccolo sorriso: sì, su quello aveva proprio ragione.
<< Ho un piano per sapere dove la hanno portato! >> disse il più giovane, serio e conscio del fatto che era qualcosa di assolutamente folle, ma lui voleva farlo. Doveva tentare almeno di fare qualcosa, non aveva assolutamente intenzione di starsene con le mani in mano come avevano fatto tutti gli altri.
Il colonnello inarcò un sopracciglio: scettico, conosceva i piani partoriti dalla mente di quel ragazzo, era un soldato ma agiva un po' troppo col cuore, senza pensare. Quando voleva fare qualcosa i suoi piani assomigliavano molto più a missioni suicide. << Parla, Todorov >> gli concesse, facendogli dono del beneficio del dubbio, per una volta.
<< Se vogliono delle informazioni, potrei espormi. Catturare un solo soldato russo non dovrebbe essere troppo difficile per loro. Mi farete seguire dall'alto dagli aerei. Loro mi porteranno sicuramente dove hanno condotto Bea e poi l'Armata Rossa potrà liberarci tutti >> spiegò, brevemente, il ragazzo dai capelli scuri.
Boris Gurtsieva si rattristò. Sarebbe stato un buon piano per trovare sua figlia, ma non poteva: era troppo rischioso. << No, Dimitri, non possiamo mettere a rischio la santa Madre Russia. Dobbiamo aspettare >> mormorò il colonnello, alzandosi dalla sedia e dando le spalle al ragazzo. Sospirò, mentre esaminava un quadro appeso alla parete del suo ufficio, << Può andare, tenente >> disse, tornando formale.
Dimitri non si sforzò di rispondergli e lasciò l'ufficio, iniziando a camminare lungo il corridoio della caserma. Infilò una mano nella tasca dei pantaloni della divisa e accarezzò la carta ruvida, color marrone, di un pacchetto. Era il suo regalo di Natale per Bea, ma non avrebbe mai potuto darglielo.

Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
24 Dicembre 1943
23:42

Quel giorno Mark non aveva avuto troppe cose da fare, era la vigilia di Natale, ma in un campo di concentramento sembrava un giorno qualsiasi. Aveva visto i deportati lavorare tanto, come mai avevano lavorato prima. Lui si era allenato tutta la mattina e anche tutto il pomeriggio. Aveva cenato con suo padre, una cena veloce, nulla di speciale. Il Germania non c'era l'usanza del cenone della vigilia, ma di certo Mark non credeva che avrebbero mangiato ancora una volta pane e formaggio, quella sera, visto che la cameriera si era presa la libertà di partire per il Natale, quel mattino.
Subito dopo aveva preso una gamella dalle cucine e aveva percorso il corridoio che lo separava dalla camera della ragazzina. Per tutto il giorno aveva avuto in testa le parole di Walter. Quella ragazza apparteneva ad una razza inferiore e doveva odiarla sul serio, ma preferiva tenersi il suo migliore amico, piuttosto che seguire l'opinione di Hitler, una volta tanto. Purtroppo Hoffmann era duro di testa e niente gli avrebbe fatto cambiare idea, una volta presa una decisione, quindi doveva adattarsi e chiedere scusa a quella mocciosetta. Inoltre era davvero troppo stanco per fermarsi a riflettere più di due minuti su quello che era giusto fare.
Si fermò dinanzi alla porta. Avrebbe potuto non accettare le sue scuse, ma questo non era importante, per Walter doveva solo fargliele. Il problema più grosso era come fare queste scuse, lui non era certo un esperto nello scusarsi, l'aveva fatto poche volte in vita sua e dopo i suoi dieci anni, sempre meno spesso. Non era più un bambino dolce e tenero, era un ragazzo con un orgoglio spropositato. Si decise a bussare, qualche istante dopo, dicendosi che l'istinto avrebbe fatto il suo lavoro. C'è sempre una prima volta.
La ragazza non rispondeva e il biondo iniziava ad irritarsi, non sopportava che gli si chiudesse la porta in faccia. D'accordo, questa volta non gliel'avevano nemmeno aperta ma il punto non era di certo questo. Era casa sua e non avrebbe nemmeno dovuto bussare. Abbassò la maniglia entrando in camera. La ragazza stava ancora facendo finta di dormire, come la sera precedente, lo capiva, ma si era scocciato di fare quel gioco, quindi avrebbe parlato lo stesso, che la ragazza stesse dormendo o meno, in fondo Walter non aveva specificato che dovesse essere cosciente mentre le faceva le sue scuse... no?
Poggiò, come la sera prima, la gamella sul tavolino, accanto alla lampada ma stavolta andò a sedersi sul letto, accanto alle sue gambe stese, poteva quasi vederle e ammirarle attraverso la stoffa leggera del lenzuolo. Per la seconda volta il pensiero che la ragazza dovesse morire di freddo in quelle condizioni attraverso la sua mentre, anche se sapeva che non sarebbe dovuto interessargli. Non erano affari suoi di come trattavano una deportata.
<< Sappiamo entrambi che non stai dormendo, quindi rimani zitta e ascoltami >> iniziò il biondo, borbottando. Così non andava bene, sembrava palese che non avesse alcuna voglia di parlarle davvero ma doveva farlo. Le poggiò una mano sul fianco, da sopra il lenzuolo, quasi volesse trasmetterle con quel solo gesto che quella notte non aveva intenzione di farle del male.
Quanto a Bea, stava davvero fingendo di non dormire. Aveva paura: paura che la trattasse di nuovo come aveva fatto quella volta, paura delle ferite che ricoprivano ogni giorno di più il suo corpo, perché gli altri soldati continuavano a torturarla nella speranza di ottenere informazioni utili da lei. Tuttavia la curiosità la opprimeva: voleva ascoltare ciò che aveva da dire; si mordicchiava il labbro inferiore, ritenendosi fortunata a dargli le spalle, così lui non avrebbe potuto vederla. Si stupì notevolmente del tocco del soldato nazista: non era abituata a tanta gentilezza da parte loro.
Il nazista sospirò, cercando le parole adatte. Lui non era portato per certe cose! << Volevo che tu sapessi che non ti toccherò più >>, pensò che quello fosse un buon inizio, era una delle parti che sentiva davvero: in fondo a cosa gli serviva una deportata?! Lui poteva avere a letto tutte le donne che voleva. << e quindi chiederti scusa per l'altra volta, agisco troppo d'istinto, a volte >> aggiunse, poco dopo, riuscendo chissà come a pronunciare quelle parole. La cosa dell'istintività però era vera, lo pensava anche lui, pur non essendo solito ad ammettere i propri difetti.
Bea non rispondeva, ma non riusciva a credere che si stesse davvero scusando con lei. Rimase in silenzio, con il respiro diverso, quasi ansioso. D'altra parte, a Mark non era mai capitato di avere qualcuno che lo ascoltasse, rimanendo in silenzio. Anche Walter parlava troppo, per i suoi gusti.
<< E' dura stare qui, lo so meglio di quanto tu possa immaginare, ragazzina >> iniziò a parlare. Sapeva che non stava davvero dormendo, ma il suo ascoltarlo lo spronava a parlare e ad esprimersi, come non aveva mai fatto in vita sua, se non con il suo migliore amico. << Tu sei convinta che ciò che stai passando sia un inferno, vero? Beh, per ora ti hanno solo torturata e violentata, dovresti ritenerti fortunata >> era serio, mentre le accarezzava delicatamente il fianco con la punta delle dita, solo sfiorandolo. Disegnava cerchi sempre più piccoli sul corpo della ragazza, sempre attraverso le lenzuola.
La ragazza ancora non riusciva a crederci: lo stava dicendo davvero? Si stava rilassando, ad essere sfiorata in quel modo, senza che le mani del giovane la toccassero davvero, come aveva promesso qualche istante prima. << Esiste forse di peggio? >> le sfuggì dalle labbra, senza che lei volesse davvero.
Mark sorrise, tra sé e sé. << Sapevo che non stavi dormendo >> le disse, con una lievissima nota d'ironia, appena udibile nel tono di voce, evitando di proposito la domanda fatta dalla ragazza. La cosa peggiore era che voleva risponderle. Sì, voleva dirle che esisteva di peggio, e lui lo sapeva bene, ma non poteva. Non poteva perché lei era una delle persone che doveva odiare; e che odiava. Ritrasse la mano dal fianco della ragazza, poggiandosela sul ginocchio.
<< Cosa può esserci di peggio? >> chiese ancora la ragazza, sfiorandosi con l'indice la profonda ferita alla spalla che le avevano provocato proprio quella mattina: ormai il sangue aveva smesso di scorrere e si era incrostato tutto intorno, poi avvertì una fitta al bassoventre al ricordo delle notti precedenti, molto più psichica che fisica, a dire il vero.
Il biondo le rivolse uno sguardo, pur sapendo che la ragazza era girata. Era una sguardo vuoto. << Non vorresti mai averlo provato >> riuscì solo a mormorare, troppo impegnato a scacciare i ricordi che gli impregnavano la mente fino a farlo star male. La testa scoppiava, se sono si lasciava sopraffare dai pensieri che la offuscavano, come se una nebbiolina nera e densa si cospargesse mano a mano nella sua mente.
Beatrisa Irina Borisovna Gurtsieva si tirò lentamente a sedere, votandosi dal lato del nazista, incontrando uno sguardo che non gli era mai capitato di vedere in nessuna persona che conosceva. Gli occhi color cioccolato del ragazzo era freddi, quasi di ghiaccio, la ragazza avrebbe osato diro che avessero preso una sfumatura più chiara, passando dal marrone intenso con striature nocciola che aveva visto la prima volta ad un iride completamente nocciola, quasi grigia attorno alla pupilla. Era sofferenza? Forse, ma non era lo stesso tormento che stava provando lei. Non era il dolore della tortura, era qualcosa di più... malato; e, in quel momento, Bea seppe che aveva ragione: non avrebbe mai voluto provare quel tipo di dolore.
Mark fu lievemente sorpreso di non trovare compassione nei suoi occhi verdi. Era il motivo per cui evitava di parlarne anche a Walter: odiava essere compatito, a suo parere non esisteva cosa peggiore del fatto che qualcuno avesse pena di lui. Perché lui era forte, e si era dimostrato tale affrontando tutto quello da solo, senza mai chiedere aiuto né appoggiarsi a qualcuno che non fosse il figlio del signor. Hoffmann, che sapeva tutto, sebbene lui non gli avesse mai parlato di niente.
Una mano della ragazza si posò su quella del nazista, poggiata sul ginocchio di lui. << In santa Madre Russia diciamo "chi è scottato una volta, l'altra vi soffia su" >> citò la ragazza. L'aveva sentito spesso, a Mosca. Non voleva essere davvero gentile con quel ragazzo, né tanto meno provava compassione nei suoi confronti, semplicemente sentiva di doverlo rassicurare. Chi dice che sia sempre il fantomatico lui a proteggere la fantomatica lei fisicamente, in fondo...?
Il giovane Schreiber alzò lo sguardo verso di lei, osservandola perplesso. Avvertiva come inappropriato il calore che la mano della ragazza sprigionava poggiandosi sulla sua, però non gli dispiaceva neanche un po'. << Cosa significa? >> era confuso.
Un lieve sorriso si dipinse sul volto di Bea, << Niente. Niente di importante >> disse, sapendo che l'avrebbe capito, da solo. Non c'era bisogno che glielo spiegasse lei.
Il biondo si alzò, di scatto, confuso dal comportamento della ragazza e dal suo. Non era logico, non doveva essere. << Devo andare >>. No, non era vero, non doveva andarsene, voleva andarsene, ne sentiva la necessità. Aveva bisogno di aria pulita da respirare, perché non poteva rimanere lì a parlare con lei senza sentirsi scottato dalle sue parole, senza sentirsi umiliato dal come una persona che avesse soltanto usato fosse capace di perdonare e di capire. Mark Schreiber non conosceva quella ragazza, e lei non doveva conoscere lui, mai. Non aspettò che lei rispondesse, per sgusciare fuori, sbattendosi la porta alle spalle.

Weimar, Germania.
25 Dicembre 1943
14:00

Mark e suo padre erano stati puntuali, ad arrivare dagli Hoffmann. Si erano salutati e si erano scambiati i doni, fingendo di rimanere sorpresi da qualcosa che, come tutti gli anni, si era rivelato essere estremamente banale. Mark non aveva avuto nemmeno la forza di mentire per bene: si vedeva che in realtà cosa gli avessero regalato non gli interessava affatto, anche perché non era un gran patito dei regali, ma in quel momento aveva tutt'altra cosa in mente. Pensava alla sera prima, a quando aveva parlato con quella ragazza e ancora non riusciva a capacitarsene. In quel momento si odiava da solo: erano state poche frasi, certo, ma non avrebbe dovuto aprirsi così tanto con qualcuno, era uno sbaglio che non avrebbe ricommesso.
Walter si era accorto del malumore dell'amico, ma non poteva farglielo presente lì, davanti a tutti, davanti al padre di lui. Il signor Hoffmann e il maggiore Schreiber parlavano tra loro, di politica, di come andavano le cose nel lager di Buchenwald e di altre cose che hai due giovani non interessavano. Certo, stavano anche parlando della carriera militare di Mark, che da metà dicembre era diventato ufficialmente un soldato semplice. La madre era in cucina, preparava le ultime cose per il pranzo di Natale e si occupava di apparecchiare per bene la tavola in sala da pranzo.
<< Faccio vedere una cosa a Mark e siamo di nuovo da voi >> disse Walter ai due genitori, sfoderando il suo miglior sorriso. Ovviamente voleva rimanere da solo con il suo migliore amico per parlargli in privato, non aveva assolutamente nulla da mostrargli, quel giorno.
Il signor Hoffmann interruppe per un attimo la sua conversazione, mentre Hans Schreiber si trattenne dal constatare che interrompere due adulti che parlavano era da maleducati; ma non lo fece perché Walter Hoffmann in fondo era come un figlio per lui, l'aveva visto crescere e passava molto pomeriggi da loro già da quando Agathe era ancora viva. << Non metteteci troppo, il pranzo ormai sarà quasi pronto >> lì congedò il medico, rivolgendo un breve sorriso ad entrami, prima di buttarsi nuovamente nella conversazione con il signor Schreiber.
I due amici salirono le scale, lentamente, per non dare nell'occhio. C'era una strana atmosfera nell'aria e Mark credeva fosse limitata a lui e a quello che gli era successo e da cui ormai era impressionato, non capiva che anche Walter la sentiva. Arrivati nella stanza, il soldato si butò a sedere sul letto, forse un po' a peso morto, di certo mentre imparava a fare il militare non gli avevano insegnato ad essere elegante. La camera era ben arredata, secondo il gusto impeccabile della signora Hoffmann che comprendeva un gran numero di mobili in legno di noce.
Fu Walter il primo a parlare, << Si può sapere che hai? >> chiese, quasi sbuffando, sedendosi sulla sedia accanto alla scrivania. Era leggermente preoccupato, difficilmente il suo migliore amico dimostrava così apertamente il suo malumore, era strano e assolutamente non da lui. La cosa doveva essere abbastanza seria.
<< Niente Walter, niente. Ho chiesto scusa alla ragazzina comunista, come mi avevi imposto di fare >> rispose l'altro, senza guardare l'amico negli occhi. Tanto sapeva che l'amico avrebbe capito lo stesso. Era inutile mentire in quel modo. Il fatto era che non sapeva nemmeno lui cosa avesse esattamente. Sentiva il bisogno di parlargliene, ma era troppo orgoglioso per farlo.
L'altro annuì, tenendo gli occhi fissi sul volto di Mark: non stava bene, si capiva subito. << D'accordo, cos'hai fatto di tanto grave?! >> lo incitò a parlare Walter, sembrava quasi divertito dalla cosa. Forse perché il suo migliore amico combinava sempre danni, non era una gran novità, soprattutto se si trattava di ragazze, che queste ultime fossero tedesche o meno in effetti sembrava avere davvero poca importanza per il suo migliore amico.
<< Ci ho... parlato >> borbottò il ragazzo dagli occhi nocciola, a bassa voce. Voleva sfogarsi, ma non voleva parlarne, ma tanto sapeva che anche se non glielo avesse detto, Walter avrebbe insistito così tanto da farlo scocciare, sputando fuori tutta la verità, tanto valeva essere sincero con lui fin da subito.
Hoffmann capì, << Un momento... Tu... le hai detto tutto?! >> era visibilmente stupito. Quella ragazza era una sconosciuta e Mark odiava parlare di se stesso anche on le persone che conosceva da anni. Quel ragazzo era un vero rompicapo: eri sicuro che non avrebbe mai fatto una cosa in tutta a sua vita e tempo qualche ora e tu stupida, facendola; ma di certo nessuno avrebbe mai pensato che Mark Schreiber potesse parlare ad una deportata di sua madre o dei problemi con suo padre... era troppo orgoglioso!
L'amico scosse la testa, ancora senza guardarlo. Gli sembrava di essere dallo psicanalista; si ritrovò a pensare che quello sarebbe stato un lavoro niente male che il suo amico avrebbe potuto fare senza problema alcuno. << No, ma stavo per farlo >> ammise, sembrava che la cosa lo infastidisse parecchio.
Walter annuì, << Secondo me non la odi poi così tanto >> ipotizzò il biondo, prendendolo in giro. Ovviamente non sapeva fino a quanto la sua affermazione potesse aver colto nel segno, come al solito.
<< Io la odio tantissimo >> ribatté Mark, alzandosi di scatto dal letto e fulminando il suo migliore amico con lo sguardo.
<< Ah sì?! >>
<< Sì >>
<< E allora perché stavi per dirle tutto di te? >>
<< Avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno >>
<< Potevi parlarne con me >>
<< Walter, senza offesa, non mi sono mai scopato te >>
<< Quindi è una questione di con chi fai sesso, Mark? Eppure non mi sembra che tu abbia mai parlato dei tuoi problemi con Ann o Elena... o Liesbeth >>
<< Fanculo, Walter >>
Il giovane Hoffmann sorrise, ironico, all'ultima offesa del suo migliore amico, confermava solo quanto in realtà avesse ragione, << Che ne dici di andare a pranzare? >> chiese, ormai che aveva ottenuto la sua vittoria.
<< E' una buona idea >> accettò Mark, anche perché il suo stomaco cominciava a brontolare. Le discussioni con Walter gli mettevano sempre appetito e, anche se quest'ultima cosa non l'avrebbe mai ammessa, allegria.
<< Ahn, Mark? >> lo chiamò ancora il biondo, voltandosi verso di lui, prima di iniziare a scendere le scale di legno, diretto di nuovo in sala da pranzo.
Schreiber alzò lo sguardo verso di lui, incontrando gli occhi azzurri del suo migliore amico, << Sì? >>
<< Voglio conoscerla >>


Luce del mattino,
luce di un giorno strano,
pensavi di esser perso
che cambia il tuo destino

Anche il paradiso
può essere un inferno,
era tutto scontato
finché non sei caduto
[Riprendere Berlino, Afterhours]
   
 
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