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Autore: Elbereth    07/04/2006    1 recensioni
Quell'amicizia era un porto sicuro: era l'approdo che tanto desidera il viaggiatore esausto, l'acqua che allieta una gola riarsa; era la sensazione di sentirsi a casa, il calore di una stretta di mano, la certezza che dopo ogni litigio sarebbe sempre tornato il sereno. Vivevano quella stagione della vita con gioia e gratitudine, lieti di ogni nuovo evento che trasformasse un giorno di scuola in un'avventura, forti del rapporto che avevano l'uno nei confronti dell'altro.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II



" [...] Ecco come si finisce poi,
inchiodati a una finestra noi,
spettatori malinconici,
di felicità impossibili.. "

Renato Zero




La cantina della scuola odorava di chiuso e di umido. Vi erano ammonticchiati e stipati alla rinfusa ogni genere di vecchi attrezzi in disuso: banchi di legno sbrecciati e sedie sfondate appartenenti ad un'epoca ormai lontana, libri da distribuire in comodato di anno in anno, colori ad olio e a tempera dimenticati da chissà chi, lavagne a parete, scatoloni su scatoloni di monitor di personal computer, armadi pieni di costumi, sagome di polistirolo e ogni genere di manufatti di scena, anfore e spade e scudi e utensili di uso domestico. Teli e lenzuola ingiallite o sfilacciate coprivano la gran parte delle stampanti pronte per essere mandate allo smaltimento, e su uno scaffale metallico addossato alla parete si potevano persino distinguere, tra parrucche e vecchie pelli conciate appese a ganci arrugginiti, pile di cartelline di disegno tecnico ed artistico datate 1979/80 e 1982/83.

Negli ultimi pomeriggi di lezione sul finire di maggio, gli studenti della II B facevano letteralmente a gara per ottenere il permesso di scendere in cantina a mettere un po' d'ordine in tutto quel ciarpame. Di lavoro ce n'era quanto si voleva, considerato che i bidelli non avevano mai ricevuto direttive a riguardo, ma s'era deciso che per evitare confusione vi si sarebbero recati non più di due ragazzi alla volta.
Qualunque individuo sano di mente avrebbe approfittato del privilegio per uscire da solo, lei ne era convintissima. Ma quel giorno no. Non avrebbe saputo dire perchè, all'improvviso, aveva chiesto all'amico di andarci insieme. Meglio soli che male accompagnati, aveva sempre pensato: un paio d'ore lontana dalla classe avrebbero avuto un effetto altamente rigenerante sia sul suo morale, sia sul tremendo mal di testa che la affliggeva da giorni. Ma alla domanda: "Vuoi che qualcuno venga con te?", il sì era stato secco ed immediato. Forse troppo secco ed immediato. Si era maledetta tra sè e sè per la sua impulsività fuori luogo, ripromettendosi di stare più attenta: dentro di lei ardeva il fuoco di una lotta feroce di cui nulla si sarebbe dovuto intuire nei moti del volto o nei gesti lenti e pacati. Eppure lo scontro esisteva, era vivo, doloroso più che mai. Che fare?
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore , recitava il proverbio.
Ma era il suo miglior amico ! Con che coraggio avrebbe osato rinunciare alla sua complicità ? Chi le avrebbe posato una mano sulla spalla nei momenti di crisi, o regalato un sorriso radioso nel condividere i piccoli trionfi di ogni giorno ? Era fatto apposta per lei, mai ce ne sarebbe stato un altro uguale. Perderlo per colpa di uno stupido sentimento era assolutamente fuori discussione. Certo, era conscia che in più di qualche frangente quel sentimento aveva minacciato di sopraffarla con la sua intensità - tanto che la simulazione di un improvviso starnuto per nascondersi dietro ad un fazzoletto era stata provvidenziale -, ma sapeva anche che non avrebbe più commesso lo stesso errore. Lei era forte, lo era sempre stata. Non avrebbe ceduto. Mai.
Le risuonava ancora in testa l'eco della prima canzone ascoltata alla radio una volta conclusasi la rappresentazione teatrale che in qualche modo le aveva cambiato la vita: "L'amore muore disciolto in lacrime, ma noi teniamoci forte e lasciamo il mondo ai vizi suoi.". S'intitolava Amico. La ragazza non credeva nel destino, non l'aveva mai fatto: lo considerava l'alibi di chi non controlla gli eventi ma si lascia trascinare, inerte, dove crede che il fato voglia condurlo. Ma ora ? Era un segno ? Qualcuno o qualcosa le stava dicendo di lasciar perdere, di rinunciare, di non tentare ? E se invece trovava la forza di racimolare quel po' di coraggio che possedeva ricevendo un netto rifiuto, l'avrebbe ancora considerata un' amica "dopo" ?

Troppi rapporti incrinati unicamente per un'infatuazione passeggera vivevano soltanto in vecchie pagine di diari, in foto di anni ormai lontani. Era davvero il rimpianto a tingerle di malinconia, o piuttosto la consapevolezza di un sentimento indefinito scambiato con eccessiva foga per amore ?
Amore..
Che parola grossa.
La sentiva pronunciare con eccessiva leggerezza, e di ciò aveva fastidio.
Aveva udito ti amo perduti nel vento, ti amo sperperati quasi fossero merce di infima qualità; ti amo scritti in ogni dove, ti amo ridicolizzati, sottovalutati, sbandierati senza un minimo di pudore ed infine rinnegati.
Ne provava quasi vergogna, e spinta dal desiderio di non cadere nello stesso errore tentava di fare chiarezza nel proprio cuore, ma invano.
Forse non ne aveva la forza, chissà.
O forse non voleva farlo.
Preferiva l'incertezza, il conforto che può derivare da una flebile speranza. C'erano giorni in cui ci rimuginava sopra per ore intere, valutava ogni aspetto, scomponeva ogni sensazione. Certe volte le sembrava persino di odiarlo, e si diceva che stava facendo bene, che non lo conosceva realmente, che stava prendendo per amore null'altro che una profonda amicizia; ma quando le mancava tanto da spingerla fuori di casa, poco importa che piovesse o facesse freddo o nevicasse; quando le mancava tanto da sognarlo, e cercare una traccia di lui in ogni abitudine, in ogni gesto, in ogni discorso, ecco che non sapeva più a quale moto dell'anima dare retta. Allora si lasciava scivolare nella penombra della sua camera fino a toccare con la schiena la fredda parete, chiudendo lentamente gli occhi. Riconosceva il gusto amaro di un'altra battaglia persa, l'ennesima da che la guerra era cominciata. Da nessuna di esse era uscita vincitrice. Il nemico possedeva armi a cui non sapeva opporsi, armi che la trovavano debole, indifesa, impreparata. Vulnerabile. Detestava sentirsi così, eppure non c'era nulla che potesse fare. Era costretta ad accettare di dipendere unicamente dalla sua volontà. Un unico gesto, ed era certa di quanto sarebbe successo: come un cane bene addestrato, avrebbe eseguito qualsiasi ordine.

Così pensando lo osservava di sottecchi mentre impilava i vestiti nei cassetti e risistemava gli abiti lunghi sugli appendini di legno. Era bello, pensava. Bello nonostante chiunque conosceva dicesse il contrario. C'era chi lo trovava troppo alto, chi troppo magro, chi eccessivamente pallido. Da buttare, insomma, se si applicavano i canoni estetici tanto in voga in quel periodo.
Nessuno, però, si soffermava sulla profondità dei suoi occhi neri. Nessuno vedeva il sorriso e il tacito ringraziamento che rivolgeva, anche senza bisogno di parole, a chi sapeva stargli vicino nei momenti più scomodi e difficili. Passava per un tipo strano, estremamente preciso, ma solo la ragazza sapeva quanto nobile e sensibile fosse quel cuore; non poteva negarne l'indole pigra e a tratti sbrigativa che emergeva di quando in quando, nè la superficialità adottata mettendosi in relazione con alcuni individui a lui antipatici, però sarebbe stato ingiusto non ammirarne la tenacia e lo spirito di abnegazione. Probabilmente era la sua disponibilità a lasciare la scena ad altri per lavorare indisturbato dietro le quinte che la affascinava così tanto: se ne sentiva talmente attratta come mai avrebbe creduto possibile.

Non avrebbe saputo dire da quanto tempo era immersa in quelle considerazioni allorchè lui aveva alzato lo sguardo verso di lei, non sentendo il fruscìo dei vestiti nè ante di armadi chiudersi od aprirsi.
"Come mai non lavori?", aveva chiesto.
La ragazza si sentiva in estremo imbarazzo. Certamente spiegarglielo sarebbe stato un suicidio, quindi, riprendendo in fretta a piegare un pezzo di tulle bianco, "Niente, niente. Mi ero solo distratta per un po'."
"Sai, devo dirti una cosa. Era già da tempo che progettavo di parlartene, ma c'era sempre troppa gente. Mi conosci, no ? Non amo che i fatti miei diventino di dominio pubblico."
Se fosse stata facile allo svenimento, c'era da credere che in quel momento non avrebbe avuto la forza di rimanere salda sulle gambe, aggrappandosi in maniera inconsulta alla maniglia dell'armadio. Fortunatamente simulava la normalità in modo tale che solo un attento osservatore sarebbe stato in grado di notare in lei un diffuso tremore, o almeno questo si augurava.
"Dimmi."
"Ecco, io.. sono innamorato di Elisabetta."

  
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