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Autore: u n b r o k e n    20/08/2011    1 recensioni
Delilah è una ragazza bellissima ma con un oscuro passato alle spalle che tutti tentano di scoprire non appena arriva a Los angeles. Kimberly è sua cugina,dolce simpatica e sempre gentile innamorata del suo migliore amico Nicholas che sfortuntamente per lei è gia fidanzato. Nick e britney formano una bella coppia,se non fosse che lui è decisamente troppo umano per una tipa come lei. Intanto Kevin è stanco di lavorare in una concessionaria di auto con suo padre e cerca qualcosa di più dalla vita,e trova la felicità nella sua fidanzata danielle.Joe frequenta l'università solo per poter andare via di casa ed avere indipendenza ma è completamente rapito dall'alone di mistero che avvolge delilah. che cosa succederà quando la vita di questi sei ragazzi si intreccia?
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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salve a tutti gente :3 questo capitolo è arrivato un po' più in ritardo rispetto al ritmo in cui postavamo gli altri ma ci auguriamo di non deludervi,qui leggerete invece cosa succede nella vita del nostro fratellone più grande kev <3 grazie mille a tutti i recensori,ci date la carica e siete gentilissimi,speriamo solo di avere qualche lettore in più c.c nel prossimo capitolo ci trasferiremo a scuola e ne vedrete delle belle tra la fredda delilah,l'euforica kim,il migliore amico nicola e giuseppe signor gironudopercasa v.v  vi lasciamo con tanto zucchero tra kevin e danielle (: alla prossima <3
kevin;
Tic. Tac. Tic. Tac. Tic. Tac.
Il rumore quasi frastornante dopo un po’ era diventato l’unica cosa che riuscissi a sentire, era entrato nella mia testa e aveva cominciato a martellare incessantemente minuto per minuto, secondo per secondo, fino a quando non ero stato sicuro di essere vicino alla soglia della pazzia. Se anche solo il rumore si fosse fermato non me ne sarei accorto, perché ero sicuro che un angolino del mio cervello aveva cominciato a ticchettare all’unisono con esso, ed avrebbe continuato a farlo autonomamente anche senza quello stupidissimo orologio.
Eppure non era l’unico suono all’interno della stanza: c’era il computer preistorico dell’ufficio che emetteva ogni tanto sbuffi e lamenti, il signor McDonald che blaterava a vuoto con una voce roca e monotona, e si riuscivano anche a sentire i clacson delle automobili ed i vari rumori del traffico provenienti dalla strada. Eppure nonostante tutto, l’unica cosa su cui ero riuscito a concentrarmi era stato proprio il ticchettare ripetitivo e perenne dell’orologio, che sembrava aver voglia di continuare così all’infinito. Se c’era un suono che detestavo era proprio quello, associato alla consapevolezza che mancava ancora tanto, troppo tempo prima di potermi dichiarare finalmente libero. Non avevo neanche più voglia di posare il mio sguardo sulle lancette che, nonostante l’incessante e ripetitivo ticchettare secondo per secondo, sembravano essere sempre impassibili; perché dopo tutto sapevo che se l’avessi guardato sarebbero passati neanche cinque minuti dall’ultima volta che ci avevo dato un’occhiata.
Di norma non mi trovavo così annoiato a lavoro – okay sì, ma questa volta era un’esagerazione. C’era sempre qualcuno con cui discutere, parlare, qualcuno da consigliare e sì, anche da litigare. Ma il signor McDonald non era nessuno di questi. Non sapevo proprio il perché, ma non appena varcava la soglia di quell’ufficio tutto sembrava diventare grigio, e non perché mettesse paura o altro, ma semplicemente perché era un uomo monotono e… spento. Aveva gli occhi neri e bui, i capelli bianchi perfettamente pettinati con una riga laterale drittissima. La sua faccia, a parer mio, aveva sempre avuto qualcosa di strano: era sempre immobile e indecifrabile, anche quando parlava. Uno dei miei passatempi preferiti a lavoro era studiare le espressioni della gente – sì, perché non si è capito? Io a lavoro faccio tutto tranne che lavorare seriamente -, ma con lui era impossibile, in quanto non possedeva alcuna espressione: era perennemente immobilizzato, quasi avesse una plastica facciale perenne. E a vederlo in faccia non si direbbe proprio che in realtà fosse un tipo logorroico, anche se i suoi interminabili discorsi sembravano essere una continua ripetizione delle stesse parole: bla, bla, bla, e poi bla, bla, strabla, e ancora bla. A dire il vero non l’avevo mai ascoltato molto attentamente.
«Dovrei andare adesso. Passerò domani per parlare con tuo padre» mi disse l'uomo passandomi accanto. Annuii distrattamente, come ero solito fare. Non morivo esattamente dalla voglia di conversare con quell'uomo. Ad ogni modo vederlo andare via mi mise ancora più ansia. Volevo uscire da quell'ufficio perché una volta fuori avrei visto la luce del sole e respirato aria che non fosse già stata usurpata da una quarantina di persone in ufficio.
Quello non era ciò che volevo, non volevo diventare come McDonald: non volevo diventare spento, non volevo smettere di sentirmi vivo. Erano ben altre le cose che volevo e non comprendevano una noiosa vita da impiegato, volevo realizzarmi e dire di aver vissuto in pieno la mia vita, di aver lasciato il segno e di aver fatto qualcosa...
Il telefono squillò distraendomi dai miei pensieri, che erano sempre gli stessi, purtroppo. Risposi al cellulare senza neanche preoccuparmi di vedere il numero sul display. Sapevo solo che se fosse stato mio padre per dirmi di restare in ufficio oltre l'orario, sarei sbottato come mai in vita mia.
Ero di natura una persona abbastanza tranquilla, ma cavolo, quando si trattava del mio futuro mi alteravo. Il mio futuro non avrebbe potuto essere in quel maledettissimo ufficio, non lo avrei permesso perché avevo ancora abbastanza amor proprio.
«Amore, pronto?! Ci sei?» mi ammorbidii immediatamente nel sentire la voce della mia ragazza e sorrisi istintivamente. Almeno c'era lei.
La donna di cui ero completamente ed incondizionatamente innamorato, che riusciva sempre a farmi sorridere, che mi sosteneva anche in questo momento che consideravo transitorio nella mia vita. Mi diceva di non preoccuparmi, che gli sviluppi sarebbero venuti da sé, e io mi lasciavo cullare da quel dolce sorriso, rassicurato. Dovrebbe essere il contrario forse, eh? Sì probabile. Ma ad ogni modo, la mia donna era stupenda e a volte doveva fare la parte di tutti e due.
«Ciao amore» risposi senza trattenere un sorriso.
«A che ora stacchi oggi?» chiese lei non appena sentì la mia voce. Sbuffai. Non ne avevo idea, me lo chiedevo anche io da tanto.
«Non lo so» mugugnai sconfitto «Ora lascio un messaggio a mio padre e stacco. Non ne posso più di vedere cartacce e qua non entra nessuno. Il mondo ha smesso di comprare auto!» esclamai, ma in realtà era meglio così. Beh forse non per mio padre e la sua concessionaria di auto, ma per me era meglio così.
La sentii ridere leggermente dall'altro capo del telefono. «Va bene Kev, ci vediamo dopo, allora» riattaccò dopo avermi mandato un bacio, afferrai la giacca e scappai da quel posto deprimente.
Il traffico delle cinque del pomeriggio era a dir poco incredibile, non avevo mai visto una cosa del genere, poi. Mi ci volle un’oretta buona prima di arrivare davanti a casa di Danielle, e non ebbi neanche il tempo di passare a prenderle un mazzo di fiori.
Non avrebbe senso descrivere l’espressione che prese vita sul mio volto non appena lei aprì la porta di casa, perché basterebbe dire che ero il perfetto ritratto della felicità. Ogni volta che la vedevo, il solito enorme sorriso si impadroniva del mio volto, mi illuminava gli occhi come non mai e mi sentivo la persona più felice del mondo, semplicemente rispecchiandomi nei suoi occhi color cioccolato. Per me era questa la felicità, ed equivaleva ad un nome sulla terra: Danielle. Lei era il mio tutto e senza di lei non ero niente, ero miserabile. Non riuscivo ad immaginare una vita senza di lei, e addirittura non riuscivo a ricordare come facessi a vivere e andare avanti prima di incontrarla. Ma adesso lei era con me, e saremmo stati insieme per sempre, poco ma sicuro. Se qualcosa fosse successo tra di noi… no, non volevo pensarci. Non volevo neanche immaginarmi di stare separato da quegli splendidi occhi marroni.
«Amore» dissi facendo un passo in avanti sull’uscio della porta e cingendole i fianchi per attirarla a me.
«Amore, com’è andata oggi?» chiese lei sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi, e quasi meccanicamente un sorriso prese piede anche sul mio volto, più grande del precedente. Anche se si parlava di lavoro, cosa che io detestavo, con lei era tutto stupendo.
«Niente di che, le solite cose. Il signor McDonald si è chiuso nel mio ufficio per almeno due ore» commentai con una scrollata di spalle ed un’espressione annoiata «E la tua giornata com’è andata?» chiesi di rimando.
Lei scrollò le spalle a sua volta distogliendo lo sguardo, e giocherellando distrattamente con il colletto della mia camicia. «Sono stata tutta la mattina a casa. Questo pomeriggio sono uscita con mia madre, sono tornata un’oretta fa» spiegò lei annuendo e sollevai un angolo della bocca.
«Che ne dici piuttosto se entriamo? Non ho intenzione di baciarti sull’uscio della porta, davanti a tutti» risi leggermente: ero una persona a cui piaceva molto la privacy, e detestavo il fatto che qualcuno potesse guardarmi mentre passavo del tempo con la mia ragazza. Lei ridacchiò e mi tirò all’interno del salone. Chiusi la porta alle nostre spalle, per poi raggiungere le sue labbra con le mie.
   
 
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