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Autore: SFLind    23/08/2011    2 recensioni
Stoccolma è una città grande e splendida, e ogni giorno persone da tutto il mondo non fanno altro che arrivare, per testare la fama. Per riconsiderarne il nome di "Venezia del Nord".
Qui abita Eva, ordinaria ventenne francese, che non ama altro se non la città. Lavora al bar sotto casa, dove ogni giorno trova conforto e un passatempo.
Ma a Stoccolma abita anche qualcun altro. Qualcuno che ha già incontrato Eva, e continua a dimenticarla. Un avvenente ragazzo con cui non ha niente in comune. Che al contrario di lei, non fa altro che cercare qualcosa che per lui valga la pena ricordare.
O forse qualcuno che sia altrettanto egoista.
Questa è una storia per cui m'impegnai tantissimo, adesso dopo tanto l'ho ripresa in mano. Vi prego di commentare, grazie :)
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL BAR DI STOCCOLMA
 
1. QUELLE PANTOFOLE ROSSO CREMISI
Se non sbaglio una volta qualcuno disse che non si realizza un sogno rimanendo a contemplarlo nel letto.
 
Ma nel caso non si avesse un sogno… In quel caso, il detto varrebbe lo stesso?
 
Una domanda che sorge spontanea ogni mattina nella mia testa, che nel frattempo si angoscia per una prematura venuta del giorno e per il suono irritante della sveglia, che, instancabilmente, continua a suonare.
Fino a due mesi fa, la mattina non riuscivo nemmeno a fare colazione. Preparare il caffè non era un valido motivo per alzarsi cinque minuti prima, ma avevo risolto il problema comprando una di quelle macchinette automatiche. Basta impostare l’orario la sera prima e il gioco è fatto.
Alle 7.33 la macchina da caffè puntualmente trilla, ed è lì che non posso più gongolarmi.
E’ ora di alzarsi.
La giornata è iniziata anche per me.
Mi alzo mettendo giù un piede alla volta, e allo stesso modo infilo alla cieca le pantofole pelose che mia sorella mi ha “gentilmente” regalato il Natale scorso.
Completamente imbottite di pelliccia, quelle pantofole rosso cremisi sono l’unica cosa che mia sorella mi abbia mai regalato a Natale in diciotto anni della sua vita. Dentro vi aveva fatto cucire il mio nome in lettere dorate.
Eva.
Un’idea carina in effetti per farsi perdonare diciotto anni di regali mancati, ma non abbastanza per farmi cambiare idea sulla sua stranamente improvvisa voglia di venirmi a trovare nel bel mezzo di un gelido inverno svedese.
Indimenticabile era stata la sua chiamata di qualche giorno prima, quando insistentemente aveva cominciato ad affermare che un po’ di compagnia mi avrebbe fatto bene, e che vederla girare per l’appartamento mi avrebbe fatto sentire di nuovo a casa.
Una fastidiosa fitta allo stomaco.
Nessuno aveva mai parlato di volersi sentire come a casa.
Anzi, sinceramente, mai più mi sarei voluta sentire come a casa.
Nonostante io adori la mia famiglia, non posso non accusarla del fatto di avermi limitato eccessivamente nella mia convivenza con loro.
Le mie scelte sono state troppo spesso rifiutate e sottomesse, i miei atteggiamenti criticati e le mie aspirazioni respinte.
E’ anche vero che mia sorella non ha niente a che fare con il mio astio verso la parte dominante della famiglia, la parte dei “capostipiti”, per così dire. Considerando che poi lei è perfino due anni più giovane, non se ne è mai interessata particolarmente.
Ma qualcosa è cambiato, all’improvviso.
Dopo diciotto anni, ha comprato delle pantofole e ci ha fatto incidere il mio nome. Dopo diciotto anni, mi ha regalato qualcosa a Natale. Dopo diciotto anni, avrebbe voluto farmi sentire a casa.
Semplicemente “amore fraterno”?
Non ci avrei creduto nemmeno se fosse stato vero.
Dubitare dell’onestà della propria sorella, nemmeno questo è amore fraterno, ma se fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
 
Nella cucina regna quel profondo e forte odore di caffè, che bollente aspetta impazientemente di essere versato nella tazza. La mia solita tazza, comprata con poche corone in un negozietto nella vecchia città.
Di enormi dimensioni, interamente nera, ai bordi due fluorescenti linee rosse, al centro un grande teschio da pirata. Certamente non una bella tazza, ma da sempre da alla mia colazione un senso di amabile e ordinata quotidianità. Bere il caffè in quella tazza, solo e soltanto mia, mi ricorda che sono a casa da sola, è mattina e dovrei andare a lavorare. Ma principalmente che questa mia routine, è una scelta che ho preso io, da sola. Non c’è nessuno che la mattina possa venire a svegliarmi buttandomi giù dal letto, senza farmi realizzare un valido motivo per farlo. Niente Mamma, niente Papà onnipresenti. Nessun narratore onnisciente a raccontare la mia storia. Solo io, la mia casa, le mie pantofole e il mio caffè.
E Stoccolma.
                                                           
 
                                
                                         
L’orologio segna le 7.40 am, ho appena finito il mio caldo e amaro caffè, nella mia nera tazza da pirata, in questa mia e silenziosa casa a Stoccolma.
Ho ancora venti minuti, poi comincerò a recitare il mio solito copione. Qual è la trama della storia? Un bar, la sua unica cameriera nel turno diurno e i suoi clienti.
Uno stile di vita un po’ monotono lo so, ma “chi non ha ali non può volare alto”.
Avessi capito prima che scappare sarebbe stato possibile, mi sarei impegnata di più e probabilmente adesso avrei un lavoro decente o per lo meno starei studiando all’Università. Prima di sogni ne avevo, e anche tanti, ma adesso ne manca perfino il ricordo.
Mi sarebbe piaciuto essere un’artista, forse.
 
7.43 a.m., sono in ritardo di tre minuti sulla tabella di marcia, devo fare in fretta. Alle 8.00 a.m. inizia il turno. Alle 8.00 a.m., mance e sorrisi di cortesia cominceranno a riempire le tasche del mio grembiule marrone.
“Dovresti trovarti un ragazzo, hai bisogno di un po’ di movimento, sorella mia!” – Questo è quello che più e più volte mi ero sentita dire alla cornetta del telefono da mia sorella dopo il mio trasferimento lontano da casa.
Non dispiaceva nemmeno a me l’idea, ma mi reputo una persona troppo pigra e apatica per una relazione stabile. Per lo meno, questo è quello che negli anni mi è stato detto, gridato contro o semplicemente, quello che dopo anni e varie storie credo di aver compreso.
Generalmente iniziavo bene, mostravo il lato migliore di me. Ma poi c’era sempre qualcosa che andava storto. Improvvisamente cresceva la noia e l’indifferenza verso il ragazzo in questione. Dopo poco, anche il sesso diveniva una concessione, privo di piacere personale. Poi l’ultimo stadio, i litigi e i sospetti. Automaticamente venivo accusata di essere interessata a qualcun altro, un qualche mio amico, con cui magari temporaneamente avevo maggiore piacere a passare le mie giornate.
“E io avrei un altro? Ma cosa diavolo pensa questo? Non ho tanto tempo da perdere così!”.
Questo è quello che pensavo. Relazione per me è sempre stato sinonimo di “peso di troppo”.
Le giornate passano più tranquille quando non si ha nessuno a cui pensare. Quando sei tu a scegliere a chi o cosa rivolgere le tue attenzioni. Quando non c’è quella sottointesa costrizione che ti limita ad una persona sola per più e più tempo. E che per inerzia fa in modo che questo tempo si prolunghi giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto.
“Come fai a dire che ami una persona, quando al mondo ci sono migliaia di persone che potresti amare di più, se solo le incontrassi? Il problema è che non le incontri.”, Charles Bukowski, non per niente il mio scrittore preferito.
Leggendolo, le mie stranezze divenivano meno anormali, e magicamente diventavo un’ordinaria ventenne ribelle. Anzi, un’ordinaria ventenne ribelle, sola e lontana dalla vita di sempre. Fuggita con se stessa in una città lontana. Una città che si era sempre e solo limitata a sognare.
Sola e senza ragione.
Avevo tutto quello che mi sarebbe mai potuto servire. Era lì, in Francia. Denaro, casa, lavoro e amici. Ma vivere all’insegna della famiglia e del “rispetto per i più grandi” per il resto della mia esistenza, non era nei piani. E mai lo sarebbe stato. A me sarebbero bastati amore e libertà, e se li avessi avuti, allora sì che sarei rimasta a casa.
Ma io non potevo far altro che sognarli.
E ormai sognare era diventato noioso.
Ma poi chi lo sa. Chi lo sa perché ho scelto Stoccolma.
 
Ero sola e senza ragione.
 
O forse no. Forse non del tutto.
Forse è proprio per brama di libertà che sono andata via. Forse, è per brama d’amore che ho lasciato la Francia. Ma certamente l’amore di cui parlo, non racconta di un ragazzo.
E’ di Stoccolma che sono da sempre stata innamorata.
Non ci sarebbe stato ragazzo in grado di farmi sentire come quando sono sola nel mio piccolo appartamento, guardando fuori dalla finestra, ammirando la città in tutto il suo fascino.
Nessun ragazzo mi avrebbe reso tanto felice quanto mangiare uno di quei dolci tradizionali che spesso il proprietario del bar in cui lavoro, a fine giornata mi offre. O bere quei lunghi caffè girovagando per la città nel tempo libero. O andare in giro a chiedere informazioni giù nella metropolitana.
Nessun ragazzo ci avrebbe mai nemmeno provato.
 
Lentamente mi dirigo verso il bagno. Faccio un piccolo sforzo per aprire gli occhi. Mi guardo allo specchio. Voglio vedere se la mia faccia è ancora la stessa, la stessa di ieri o dell’altro ieri, se sarà la stessa che troverò domani.
Completamente identica.
Non credo di avere un fascino ordinario. Con il tempo ho maturato la concezione di essere una ragazza di bell’aspetto, di un interesse singolare, ma soprattutto soggettivo, dato che poi nessun ragazzo si è mai fatto avanti dal mio arrivo in città.
Al caffè spesso mi sento osservata, ma non saprei dire se positivamente o meno. Mi sorridono sia le ragazze che i ragazzi. Ma il modo in cui lo fanno è diverso.
Le ragazze mi sorridono come un adulto sorride ad un bambino che ha appena smesso di piangere. Ma non so se lo fanno con superbia o simpatia.
I ragazzi come si sorride ad una compagna di banco del liceo. E non so se lo fanno con attrazione o empatia.
Forse sono le lentiggini. Forse sono i capelli rossi. Forse sono le guance rosee.
Forse mi fanno apparire più piccola ed infantile di quanto io non sia.
Forse appaio troppo timida.
O forse solo trasparente.
Molto probabilmente non attiro l’attenzione e basta.
Sicuramente sono solo la ragazza del bar.
E sinceramente, va benissimo così.
 
Sciacquo il viso con dell’acqua fredda. Ho bisogna di svegliarmi, è quasi ora.
Lentamente tolgo il pigiama, rimango in biancheria. Il bagno è freddo, e non oso toccare la mia pancia, già troppo tesa per la fastidiosa sensazione di gelo.
Ancora lo specchio.
Sono dimagrita, noto con piacere e disgusto allo stesso tempo.
I miei piedi si godono il calore delle pantofole rosse mentre mi dirigo verso l’armadio.
Un paio di jeans scuri, un maglione marrone. Non ho bisogno d’altro.
Spruzzo un po’ di profumo. La vaniglia è il mio aroma preferito.
Mi dirigo verso il cassettone dell’intimo, lo apro. Vado sul classico, è lunedì mattina.
Slip e reggiseno nero.
I jeans freddi m’innervosiscono ulteriormente, ma il contatto dello spesso maglione con la mia pelle con un brivido riporta tutto, il mio corpo e i miei nervi, alla normalità.
Torno in bagno, guardo il riflesso nello specchio dei miei occhi, intenti a domandarsi anche oggi se vale la pena truccarsi.
La risposta è quella di ogni giorno. No.
Un rossetto color carne e del mascara. E’ tutto.
Sto per uscire dal bagno, ma mi volto ancora verso l’altra Eva, quella nello specchio.
Non riesco a non fissarle i capelli. Lunghi e troppo arruffati, le vanno continuamente in faccia.
Un semplice rimedio. Prendo un elastico per capelli ed ecco scendere dalla sua spalla destra una treccia rossa.
Adesso si, sono pronta. Finalmente un sorriso di sollievo. Anche oggi ce l’ho fatta, ho cominciato la mia giornata.
Esco correndo dal bagno e mi dirigo serena verso l’ingresso.
Devo scegliere le scarpe, così do uno sguardo veloce alla finestra. Nevica.
Bene, infilo gli stivali panna imbottiti di pelliccia color miele e il piumino beige.
Do un ultimo sguardo allo specchio prima di uscire, penso che vestita così non potrei andare da nessun’altra parte se non in un bar, dato che anche fuori mi scambierebbero per una cameriera.
Avvolgo la sciarpa bianco panna intorno al collo, i guanti mi scaldano già le mani e il berretto mi copre interamente la chioma rossa.
Sono le 7.57 a.m., e sono pronta ad uscire.
   
 
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