Cadence of Her Last Breath
Capitolo IV: Cowardice &
Bravery
Quella sera,
Althea concluse di scrivere il tema di Pozioni molto prima di quello che si
aspettava e passò molto del suo tempo in Sala Comune a lanciare occhiate
nervose alla sua borsa. A mezzanotte meno un quarto, Judith si decise
finalmente ad andare a letto e molti altri seguirono il suo esempio nell’ora
successiva. Solo quando la stanza fu vuota ad eccezione di un paio di studenti
del settimo anno che lei era sicura non le avrebbero mai prestato attenzione,
Althea tirò fuori il libro e se lo mise sulle ginocchia.
A prima
vista, sembrava molto antico e fragile: la copertina era di un rosso sbiadito e
il titolo, scritto in rilievo, una volta doveva essere stato dorato. Passò una
mano sopra alle lettere dell’intestazione, fermandosi sopra ad ognuna con un
misto di attenzione e terrore: ‘La pure et vénérable Lignée De
La Broquiere’.
Si chiese chi potesse averglielo mandato.
Non erano in molti a sapere il suo segreto, anzi, era piuttosto
convinta che l’unica persona al di fuori della sua famiglia che ne fosse al
corrente era Sirius.
Cosa le avrebbe consigliato lui se avesse saputo che cosa le era
stato recapitato quel giorno?
Se non vuoi leggerlo, almeno
sfoglialo, Althea.
Lo aprì e la
sua speranza, che non sapeva nemmeno di aver nutrito, di trovarci un biglietto
o il nome del mittente venne subito infranta. Quindi lo chiuse, lo rigirò tra
le mani e cercò una data di pubblicazione o qualcosa che potesse farle intuire
almeno l’età della persona che gliel’aveva mandata. La trovò nella penultima
pagina: 1813.
Wow, fu tutto quello che il suo cervello riuscì ad elaborare.
La Casata di
Laila era anche più antica di quella dei Black.
Non di molto,
certo, ma pur sempre più vecchia.
Althea iniziò
a sfogliarlo e si accorse che era completamente scritto a mano e in francese.
Per fortuna,
lei era bilingue perché Laila era francese e a volte preferiva parlare nella
sua lingua madre piuttosto che in inglese. Era stata la sua matrigna a
insegnarle quella lingua straniera e lei, per conto suo, si era interessata
alla letteratura della Francia e aveva studiato anche un po’ di francese
antico.
Chiunque
fosse stato a mandarle quel libro, doveva per forza saperlo, altrimenti perché
prendersi il disturbo? Lei non lo avrebbe capito.
Althea lo
sistemò sul tavolino davanti a sé e lo osservò a lungo, provando disgusto e
repulsione per quella copertina malandata e per il contenuto di quel volume,
qualsiasi esso fosse. Rimase a lungo a riflettere su tutte le persone che
l’avevano maneggiato e vi avevano aggiunto, anno dopo anno, generazione dopo
generazione, le cronache di personaggi di una nobile famiglia magica francese
dalla vena squilibrata tanto quanto quella dei Black o dei Gaunt. Avrebbe
potuto leggerci storie di incesti o di torture e rimedi disgustosi; avrebbe
potuto trovarci tradizioni terribili o rituali legati alle Arti Oscure.
Un brivido di
paura la scosse, ma quella era solo una delle tante emozioni che provava.
Infatti, una
parte di lei era assolutamente curiosa di scoprire qualcosa di più; dopotutto,
non era l’occasione che aspettava da un sacco di tempo? Era sempre stata così
impaziente di scoprire il cognome di Laila fosse così importante, ma ora che ne
aveva la possibilità la stava scacciando e si stava precludendo l’opportunità
di scoprire tutta la verità.
Perché,
Althea lo sapeva e lo aveva capito da tempo, se Laila aveva insistito tanto era
perché lei era per forza collegata a quella casata. Non sapeva come né perché
lo fosse, ma doveva sicuramente esserci un legame tra la pura e venerabile
Casata De La Broquiere e
Althea Malfoy.
La ragazza
rifletté, come aveva fatto innumerevoli altre volte, su questa questione: era
sicura di non essere connessa ai De La Broquiere da parte di madre; sia Laila che
Abraxas le avevano assicurato che era inglese tanto quanto lo erano i Malfoy, i
Prewett, i Black e le altre famiglie Pureblood che conosceva. Era vero che Althea non era sicura
di poter riporre la sua totale fiducia nella matrigna, ma era certa che il
padre non le avrebbe mai mentito al riguardo.
Quindi
cos’era che la univa a quel cognome?
Qualche
parente di cui non conosceva l’esistenza?
L’essere
stata promessa in sposa a qualcuno di loro appena dopo la sua nascita?
No,
quest’ultima cosa era assolutamente impossibile e impensabile: il Medioevo era
finito già da un po’.
E allora,
cos’era?
Althea guardò
ancora il libro e si rese conto che le era quasi insopportabile fissarlo.
Tutte le
risposte erano lì: che aspettava ad aprirlo?
Lo prese in
mano per l’ennesima volta e represse a fatica l’istinto di scagliarlo nel fuoco
e dimenticarsi di averlo ricevuto. Sapeva che sarebbe stato impossibile
cancellare l’immagine di quel tomo, ma era sicura di essere ancora in grado di
rilegarla in qualche angusto angolo della sua mente con relativa facilità.
Vigliacca.
Dopo
lunghissimi e astiosi minuti di indecisione, si recò in camera e, spostandosi
con circospezione per non far svegliare le sue compagne, andò a tentoni verso
il suo letto. Quando lo raggiunse, aprì le tende del baldacchino e sussurrò: «Baule Locomotor»,
puntando la bacchetta sul bagaglio che voleva spostare.
Lo trasportò
sopra al letto, dove poi anch’ella salì e poi richiuse i tendaggi.
«Lumos».
Incastrò la
bacchetta sulla testiera del letto in modo di poter usufruire della luce che
produceva con il più il vantaggio di avere le mani libere e con molta calma e
in silenzio, iniziò a svuotare il baule di tutto il suo contenuto. Quando la
sua opera fu completa prese il libro e lo depose sul fondo, nell’angolo in alto
a sinistra, poi coronò il tutto con un semplice: «Bagaglius!» che rimise al suo posto
originario tutto ciò che era stato tirato fuori per far posto al volume. Spinse
il baule giù dal letto, stando sempre attenta a non fare troppo rumore e poi si
cambiò velocemente nella fretta di mettersi sotto le coperte e cadere nel dolce
oblio del sonno, per iniziare a dimenticare.
***
Due vispi
occhi cerulei l’osservavano curiosi e impazienti da circa un quarto d’ora.
Lucius, con la coda dell’occhio, la spiava mentre si teneva stretta con le
manine al bordo del tavolo e rideva sotto i baffi pensando alla possibilità di
far crollare il suo equilibrio precario con un brusco e “casuale” movimento del
braccio.
Erano in
biblioteca, in un caldo pomeriggio dell’estate del ’67: Abraxas e Laila erano
usciti e la piccola Althea era stata affidata al fratello maggiore, un
quindicenne già molto responsabile. Quando i suoi genitori erano in casa,
Lucius era solito ignorare l’esistenza della sorella, semplicemente perché non
la considerava tale. Ricordava bene il giorno in cui quella bimba era entrata a
far parte della famiglia, ma nella sua memoria era ancora più vivo il monito
di sua madre.
Lei non è tua
sorella. Non è mia figlia. È feccia. Trattala come più ti pare e piace.
Lucius non
aveva certo disobbedito e spesso aveva abusato della sua posizione di fratello
maggiore e figliol prodigo della madre per divertirsi ai danni della sorellina.
Si
limitava ad imitare il comportamento di Laila e lasciava che fosse Abraxas a
occuparsi di dare alla bimba l’affetto di cui necessitava –cosa che
naturalmente non era stato in grado di fare, visti gli innumerevoli impegni e
la sua scarsa disponibilità.
Althea,
dal canto suo, aveva sempre dimostrato una grande curiosità nei suoi confronti,
probabilmente perché lo vedeva per poco tempo all’anno e anche perché
desiderava scoprire come conquistarsi il favore della matrigna. L’aveva
sorpresa più volte a guardarlo di nascosto o ad imitarlo in qualche movimento;
anche se non avrebbe mai osato ripeterlo a voce alta, tutta quell’attenzione da
parte della sorella gli piaceva e a volte lo faceva sentire orgoglioso di se
stesso per essere in grado di suscitare tanta ammirazione in un’altra persona.
La bimba
si schiarì rumorosamente la voce. Lucius venne distolto dai suoi pensieri e si
voltò verso di lei. Non sapeva perché, ma era curioso di sentire che cosa
volesse Althea da lui; da quando lei aveva iniziato a parlare, non le aveva mai
rivolto la parola durante le poche settimane all’anno che passava al Manor.
«Voglio chiederti
una cosa».
La voce
della sorella era chiara, ferma e decisa. In quel momento, Lucius ebbe
l’impressione di parlare con una ragazzina di almeno dieci anni e non con una
bambina di sei.
«Parla».
«Chi è la
mia mamma?»
Il giovane
Malfoy stette in silenzio e ripose a se stesso la domanda: in effetti, chi era
la mamma di Althea? Era sicurissimo del fatto che fosse un’amante fissa di suo
padre o qualcosa del genere, visto che sua madre supponeva di conoscerla da
molto tempo e ne aveva sempre parlato in termini molto sgarbati, ma non avrebbe
saputo dire altro. A volte, durante i litigi più furiosi, Laila parlava di
Parigi e sostituiva all’inglese la sua lingua madre, il francese. Lucius lo
comprendeva, pur non parlandolo benissimo, ma quando la madre era molto
arrabbiata utilizzava spesso delle espressioni dialettali tipiche della sua
regione di provenienza di cui lui non conosceva il significato.
Decise di
essere sincero con la sorella, nella speranza che lei andasse ad indagare da
Abraxas e poi venisse a chiarire anche i suoi dubbi.
«Non lo
so,» disse «ma non credo sia inglese».
Il viso di
Althea non rivelò alcuna emozione nel sentire la risposta del fratello. La
bimba lo ringraziò per la disponibilità che le aveva dimostrato e poi tornò ai
suoi esercizi di lettura e scrittura.
***
Il mattino
dopo, Althea si alzò di buonumore, con l’impressione di aver goduto di un lungo
e bellissimo sonno ristoratore. Non sapeva se aveva sognato e, anche nel caso
in cui fosse successo, non ricordava nulla. Sostituì la divisa al pigiama,
preparò la borsa dei libri e svegliò Judith.
«Buongiorno!
Sorgi e splendi!»
L’amica la
guardò, gli occhi ancora impastati dal sonno, facendo evidentemente molta
fatica per metterla a fuoco.
«Cos’è tutto
questo entusiasmo?»
«Perché, non posso
essere di buonumore?»
«Mi fai paura
quando sei così esuberante,» ammise l’altra, aggrottando le sopracciglia, senza
comprendere il motivo per cui Althea potesse essere tanto contenta «mi sono
persa qualcosa?»
La domanda
fece sparire il sorriso dal viso della ragazza che improvvisamente rivide
vivida nella sua mente l’immagine del libro che quella notte, con prudenza,
aveva nascosto.
Tutte le
risposte erano lì: che aspettava ad aprirlo?
Judith si
accigliò ancora di più al cambio repentino dell’umore dell’amica.
«E ora che
c’è?»
«Niente,»
mentì Althea e ostentò altre manifestazione di un entusiasmo ormai spento
«muoviti, dai!»
Vigliacca.
***
Nel corso dei primi
quattro mesi di scuola, James Potter era cambiato e non c’era anima viva ad
Hogwarts che potesse testimoniare il contrario.
Dall’inizio dell’anno
fino all’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale, era stato in punizione
solamente cinque volte. Poco
importava che la durata di ognuno di quei castighi variasse dai sette ai
quindici giorni; erano comunque sole cinque misere circostanze.
Ovviamente, tutta la
scuola era in subbuglio per questa singolare novità: ogni Casa –addirittura Slytherin- non poteva dirsi stupita di tale cambio di
condotta e si vociferava che Potter avesse avuto qualche serio problema durante
l’estate. Ad un certo punto, venne anche confermata la notizia che era stato
ricoverato per un intero mese al San Mungo e che alcuni Guaritori fossero
riusciti a mettere a freno la sua voglia di cacciarsi nei guai.
I suoi compagni Gryffindor,
dal canto loro, sapevano benissimo che cosa stava succedendo al Capitano della
loro squadra di Quidditch, ma trovarono molto più
divertente l’idea di fomentare le dicerie piuttosto che di raccontare a tutti
che cosa frullava davvero per la testa del fulcro di tutto quello scompiglio.
Inoltre, tutti i membri della Casa di Godric
mettevano in giro storie assurde e testimoniavano per le voci più improbabili
soprattutto perché spesso erano inventate da James stesso e faceva sperare loro
che non avesse perso la testa del tutto: nessuno avrebbe potuto sopportare di
perdere la finale contro Slytherin.
La triste realtà era che
James Potter era davvero innamorato del Prefetto Gryffindor dalla fulva chioma,
Lily Evans, e che, tra il quinto e il sesto anno, era pertanto inceppato in uno
strano e misterioso processo che prima o poi colpiva tutti gli adolescenti di
questo mondo: la maturazione.
Il Gryffindor aveva
vagliato e analizzato con estrema minuzia tutti i suoi gloriosi cinque anni di
istruzione magica e si era reso conto di aver perso molto più tempo a scontare
punizioni che non a seguire lezioni. Non che questo gli recasse qualche genere
di dispiacere, tutt’altro; uno dei frutti del suo cammino verso la
responsabilità era proprio la sua accettazione di ciò che era stato fino ad
allora. Riconosceva di aver fatto cose davvero stupide che avevano compromesso
non solo la possibilità di concludere più brillantemente la sua carriera
accademica, ma anche di accaparrarsi le simpatie della ragazza che le aveva
rubato il cuore da tempo immemore. In particolare, si era reso conto che
l’essere stato complice di uno scherzo che aveva rischiato di concludersi molto
male per un caro amico d’infanzia di quest’ultima, l’aveva fatto rinsavire e
pian piano lo stava indirizzando nella giusta carreggiata.
Rimaneva comunque un
ragazzo molto divertente, estroverso e senza peli sulla lingua; la differenza
sostanziale stava nel fatto che ora era decisamente meno vivace, appena più
rispettoso nei confronti dei professori e delle loro lezioni e che s’impegnava
per cercare di far perdere alla sua Casa meno punti possibili. Per ora, questo
non sembrava aver impressionato più di tanto Lily perché, molto probabilmente,
era ancora convinta che lui si stesse solo prendendo un periodo di pausa e che
poi sarebbe tornato con qualche progetto epico, come far saltare in aria il
bagno di Moaning Myrtle.
Quello sì che avrebbe scatenato un vero
putiferio.
E anche qualche urla di
gioia da parte delle ragazzine del primo anno che non sapevano che non si può
far morire un fantasma e che non avevano ancora imparato ad evitare quel posto.
Per fortuna della
popolazione di Hogwarts, c’era ancora Sirius Black ad allietare le noiose
giornate scolastiche, anche se lui stesso ammetteva di sentire la mancanza del
suo migliore amico a dargli man forte. Non che non girassero sempre insieme,
con Remus Lupin a fianco e Peter Pettigrew al trotto,
ma ora James non lo intratteneva nei momenti di noia come un tempo e ogni tanto
aveva nostalgia di quei diversivi. Soleva quindi crearseli da solo, a volte in
compagnia di Remus, e quindi finiva comunque per dover scontare punizioni su
punizioni, settimana dopo settimana.
Sirius, però, era diverso
da James, molto di più di quanto non lo fossero dal punto di vista estetico.
Con un po’ di fantasia e una buona dose di distrazione, qualcuno avrebbe anche
potuto dire che avessero qualche genere di parentela alla lontana: entrambi
avevano capelli corvini, erano di bell’aspetto e avevano modi di fare e
abitudini molto simili. Tuttavia, una volta che l’incauto osservatore avesse
apprestato più attenzione, avrebbe notato che i tratti di Sirius erano molto
più aristocratici di quanto non lo fossero quelli di James e che ogni suo
minimo movimento era accompagnato da una eleganza, quasi trascurata. Inutile
dire che la combinazione di queste due particolarità aveva sempre permesso a
Black di riscuotere un successo leggermente maggiore rispetto al suo migliore
amico, tra la popolazione femminile s’intende.
Poi, c’erano altre
peculiarità, legate soprattutto alla natura dei due, che li rendeva
profondamente diversi, seppure uniti in un rapporto intimo che ricalcava in
tutti i sensi la connessione che esiste tra due fratelli.
Mentre James, nel corso
degli anni, si dimostrò essere una persona fondamentalmente semplice, onesta,
coraggiosa e davvero generosa, pur essendo stato viziato in modo quasi
increscioso dai genitori; questa parte della natura di Sirius, che con lui
condivideva, si manifestava in maniera assai più mite.
Non che Sirius fosse
cattivo, non lo era mai stato e mai aveva intenzione di esserlo in futuro,
aveva solo un’indole molto più complessa dell’amico. Nonostante provenisse da
una famiglia su cui le Arti Oscure avevano sempre esercitato un certo fascino e
che aveva tendenze sconsiderate e vari casi di follia da annoverare tra le sue
progenie, non aveva mai mostrato né segni di instabilità né alcuna propensione
a fare del male.
Se si escludeva
quell’incidente riguardante Snape, certo.
Ma Snape,
con la sua cricchia di amici, era ambiguo e gli stessi Slytherin a volte
preferivano non averci a che fare. I pupilli di Salazar erano privi del
valoroso spirito Gryffindor che li avrebbe spinti a scoprire in che cosa si
stesse ficcando il loro compagno. Preferivano salvarsi la pelle piuttosto che
deperire in battaglia per essersi ficcati in mezzo a cose che non li
riguardavano direttamente, loro.
Trascurando l’incidente
con Snape, che poteva anche essere considerato uno
dei tanti frutti della rivalità millenaria tra le due Case e condotto senza
intenzioni tanto crudeli, Sirius era a posto. In linea di massima era gentile e
disponibile, soprattutto se si trattava di ragazze, anche se molto riservato
per quanto riguardava le sue faccende personali. Ciò che lo distingueva, era il
singolare entusiasmo con cui si lanciava in una sfida o in una battaglia, di
qualsiasi genere esse fossero.
A Sirius piaceva
combattere.
A Sirius piaceva ottenere
quello che voleva.
A Sirius piaceva vincere,
anche mettendosi completamente in gioco e rischiando la pelle.
Non vincere alla maniera
delle Serpi, strisciando e calcolando.
Lui si esponeva ed era
disposto a sacrificare anche se stesso.
Era vero che il fine era
sempre quello di avere successo, ma lui aveva sempre saputo che tra impegnarsi
per i suoi ideali e che seguire alla cieca valori imposti da decenni di follie
familiari c’era tutta la differenza del mondo.
***
Fiocchi candidi e grossi
vorticavano sospinti da un rigido vento al di fuori delle mura del castello, ma
erano solo un fischio lontano per Sirius, che si trovava seduto accanto al
fuoco, sulla sua poltrona prediletta, e ne osservava le fiamme guizzare
allegre, perso nei suoi pensieri.
Era molto tardi, la
mezzanotte era già passata da diversi minuti e normalmente avrebbe iniziato a
salire le scale del dormitorio per andare a coricarsi, ma quella sera era
l’ultima prima delle vacanze di Natale quindi si stava permettendo di allungare
il suo coprifuoco.
Da qualche tempo, Sirius
aveva notato qualcosa di diverso nel suo amico James, una cosa che era
sicuramente sfuggita a tutti i suoi compagni di Casa che non lo conoscevano
come lui e soprattutto avevano lo stesso spirito di osservazione di un sasso. Per
questo motivo in quel momento era ancora in Sala Comune invece di infilarsi tra
il guanciale e le coperte del suo letto; era l’unica occasione in cui poteva
parlare con l’amico a faccia a faccia prima che tornasse a casa Potter per le
vacanze. James l’aveva invitato a passare con lui quelle due settimane di
riposo dall’attività accademica, ma Sirius aveva rifiutato l’invito con una
scusa; in realtà aveva delle faccende ben precise da sbrigare.
Per sua fortuna, la
persona da lui desiderata si affacciò giusto in quell’istante dal buco del
ritratto della Fat Lady, custode della Torre dei
Grifoni, reduce dall’ultima punizione prima delle vacanze.
«Buonasera Prongs» lo
accolse con calma, stando ben comodo nella sua poltrona preferita vicino al
fuoco «Com’è andata?»
«Sai com’è Slughorn: sono passato dalle cucine prima di andare da lui,
gli ho portato un po’ di ananas candito e mi ha alleggerito il lavoro» rispose
l’altro, lasciandosi cadere su un divanetto di fronte a lui.
Sirius lo guardò con
occhio critico e James non gli parve per niente rilassato, nonostante avesse
appena ammesso di non aver scontato uno dei suoi peggiori castighi.
«A me sembri distrutto,
però» osservò.
Il suo amico fece per
ribattere, ma lui lo interruppe, non volendo sentire altre scuse.
Ogni volta che cercava
d’indagare su quello che lo affliggeva davvero, James era solito cambiare
discorso o giustificare tutto con la Evans, esattamente come faceva con gli
altri compagni Gryffindor. Sirius si dispiaceva sinceramente di questa
reticenza dell’amico e per un po’ era riuscito a rispettarla perché era leale a
chi era stato in grado di volergli bene senza riserve, anche se questo lo
escludeva dai suoi pensieri e dalle sue preoccupazioni. A lungo andare, però,
quella situazione lo aveva stancato e ora desiderava mettere bene in chiaro che
poteva benissimo non renderlo partecipe delle sue angherie, ma non poteva prenderlo
in giro rifilandogli le stesse giustificazioni che dava a chiunque altro.
Erano fratelli,
dopotutto.
Non di sangue, ma erano
fratelli.
«James non raccontarmi
balle, è da un po’ che sei così giù. Non voglio costringerti a parlarne, ma
sappi che ci sono se hai bisogno di una mano, capito?»
«Se ti dico che cosa mi
frulla per la testa da qualche tempo a questa parte come minimo mi riderai in
faccia».
Sirius si sentì ferito da
questa considerazione dell’amico: lo credeva insensibile e poco maturo?
Solo perché non mostrava
quella parte di se stesso, non stava certo a significare che non esisteva per
niente, e Prongs avrebbe dovuto saperlo bene.
«Mettimi alla prova».
James lo guardò a lungo,
soppesando le alternative e alla fine decise di dar fiducia a Padfoot.
«Sirius, io voglio
impegnarmi seriamente. Non voglio più perdere tempo fra punizioni e
divertimenti. Hai presente quello che sta succedendo là fuori? Strane
sparizioni, casi sparsi di Caccia ai Muggles, gente
come Snivellus che parla di un Signore Oscuro, di
ripristino del potere dei Pureblood... Sono
sinceramente preoccupato. Non credo siano solo sciocchezze messe in giro da uno
stupido Slytherin o notizie relativamente allarmanti, ma che riflettono una
situazione di timore momentaneo e risolvibile come le solite del Daily Prophet. Sono
convinto che ci sia qualcosa di grosso e di pericoloso in arrivo e io voglio
prepararmi al meglio per questo. Riuscire anche a combatterlo se posso».
Sirius, che si era
aspettato qualche inquietudine di natura decisamente più futile, si stupì nel
confutare a quale grado fosse arrivata la maturità del suo migliore amico.
Sorrise, si dichiarò
d’accordo e poi aggiunse: «Cerchiamo di tenerci lontani dai guai, allora, così
la smetteremo di far impazzire Moony».
James rise e poi piegò le
labbra in una finta espressione innocente: «E dai, Padfoot, dovresti saperlo
che sono i guai a trovare me».
Sirius si lasciò andare
alla sua risata simile a un latrato, felice che l’amico si fosse confidato con
lui e soddisfatto nel ritrovarsi ancora una volta sulla sua stessa lunghezza
d’onda. Ora, sentiva il cuore infinitamente più leggero e già pregustava il
momento in cui avrebbero detto a Remus che non l’avrebbero più fatto andare fuori di
testa e che si sarebbero dati una calmata.
Lui non ci avrebbe mai
creduto, lo sapevano entrambi, ma la loro intesa non li avrebbe fatti cadere in
tentazione: dovevano prepararsi a qualcosa di più grande ed era utile conoscere
il più possibile per poterlo affrontare.
Sirius sarebbe stato al
fianco di James in questo come lo era stato negli scherzi e in tutte le altre
vicende che li avevano uniti.
Avrebbe combattuto con lui, qualsiasi cosa fosse
quella che gravava minacciosa su di loro.
Leale fino alla fine.
«Speriamo che domani
Remus sia della luna giusta così
potremo sorprenderlo per bene con questa notizia dei Marauders
che si prendono una vacanza».
«Sirius, domani torno a
casa,» gli ricordò Prongs, senza nascondere un certo rammarico «ma perché non
vuoi venire a passare il Natale da me? Anche tu mi stai nascondendo qualcosa».
Padfoot ghignò.
«Ma che ragazzo attento e
intelligente che sei diventato: siamo sicuri che tutto questo discorso di
ideali, battaglie e conoscenze non sia un altro modo per arrivare alla Evans?»
ipotizzò, malizioso.
«No,» rispose l’altro,
risoluto «ci credo davvero in quello che ti ho detto e l’unica cosa che posso
fare riguardo a lei è sperare che dimostrarle che non sono un idiota la
convinca ad uscire con me» sorrise, ma solo per un attimo perché poi guardò
serio l’amico, dietro le lenti tonde degli occhiali «Tu invece stai eludendo la
mia osservazione».
Sirius ricambiò il suo
sguardo in silenzio, nessuna ombra di divertimento sul suo volto.
Avrebbe voluto parlare a
James di quello che aveva in mente, ma lo avrebbe fatto a tempo debito.
Quello, non era il
momento giusto e Sirius voleva rimuginarci su ancora un po’ prima di farne
parola con anima viva –o morta, perché ad Hogwarts non si poteva mai sapere-
che fosse.
Si alzò dalla poltrona.
«Non ti preoccupare,
Prongs, lo saprai» si avviò verso le scale del dormitorio maschile, le mani
intrecciate sulla nuca «Buonanotte e buone vacanze,» si girò per fargli
l’occhiolino «sii bravo con la mammina e il paparino Potter e salutali da parte
mia».
James fece una smorfia
fintamente infastidita e non riuscì a non sorridere: gli tirò dietro la prima
cosa che gli capitò in mano, la quale fortunatamente era un cuscino.
A Sirius piaceva combattere.
A Sirius piaceva ottenere quello che voleva.
A Sirius piaceva vincere, anche mettendosi
completamente in gioco e rischiando la pelle.
Ma soprattutto, a Sirius
piaceva prendere in giro James e godere della sua compagnia.