Fui improvvisamente inondata da una vampata di calore ardente che mi avvolse interamente, dai capelli alle punte dei piedi,
non sapevo da dove provenisse, forse, pensai, erano i raggi del sole che battevano violentemente sulla mia pelle bianca come
il latte.
Desiderai in quel momento di avere la forza anche solo per aprire gli occhi e scoprire quale fosse la fonte di questo calore
così rovente che divampava velocemente sul mio corpo freddo, e proprio in quell’istante, quando divenne bollente ed
insopportabile, quando provai quell’orrenda sensazione che si prova quando ci si getta una pentola d’acqua bollente su ogni
singola parte del proprio corpo, in quel momento serrai le labbra e gemendo aprii con forza gli occhi.
Il panorama perfetto che mi ritrovai davanti fu lo stesso della notte appena trascorsa.
Nulla era cambiato: il suono acuto dello schianto delle onde contro gli scogli era rimasto sempre invariato e i gabbiani
continuavano inesorabili a volare sereni sul cielo sopra la mia testa.
L’unica differenza che riuscii a notare fu il colore che mi ritrovai a fissare con il naso all’insù e gli occhi rivolti verso l’alto:
ora il cielo era di un azzurro immacolato, cristallino, mentre prima era dominato dalle tenebre, da un nero troppo scuro per
essere vero –uno scenario perfetto per uno stupro- pensai tra me, cercando di cogliere per quanto fosse possibile un po’ di
ironia in ciò che era accaduto.
Allungai una mano come per prendere qualcosa ma tutto ciò che riuscivo a sentire al tatto era sabbia, solo tanta bianca sabbia
che sarebbe riuscita a confondersi perfettamente col mio corpo se non fosse stato per la lucentezza che irradiava.
D’un tratto un brivido mi percorse da capo a piedi e fui presa dalla voglia irrefrenabile di alzarmi, di reagire in qualsiasi
modo possibile.
Fermai la mano che ancora accarezzava dolcemente la sabbia e con la maggior violenza possibile la bloccai bruscamente e
tentai di farla rimanere ben salda al suolo.
Mi ci volle un po’ per far svegliare le mie gambe dal lungo letargo in cui le avevo trascinate, ma non appena riuscii a sentirle,
a sentirle di nuovo mie, facendo pressione sulla mano che, incerta, mi sorreggeva, e sui piedi altrettanto deboli, mi alzai
finalmente da terra.
Non so dire con precisione quanta gioia provai in quell’istante, quanta felicità sentii divampare dentro di me e crescere
sempre più velocemente a tal punto da pensare che quello fosse soltanto un sogno.
Si dice infatti che dopo un incubo, un incubo talmente orrendo in grado di sconvolgere completamente un’esistenza, si vada a
cercare sicurezza dentro di sé e la si trovi solamente sognando.
Ed è sognando che, dopo un incubo talmente brutto –come sognare di essere morti, di esser stati rinchiusi in una bara contro la
propria volontà essendo ancora vivi ed in grado, per molto poco ancora, di respirare- si riesce a ristabilire l’ordine della
realtà.
Per questo pensavo di sognare, per questo pensavo che dopo l’incubo quella fosse soltanto “la fase successiva”, la fase in cui
avrei dovuto sognare qualcosa di felice, di sereno, ma essendo cosciente che presto mi sarei svegliata anche da quel sogno
così bello.
Quando però, in piedi sulla sabbia contemplando il mare, in grado finalmente di poter pensare liberamente, osservai che non
avevo addosso nulla, che il mio cellulare era sempre lì accanto a me come anche quelle insulse bottiglie vuote, proprio in quel
momento compresi che non sarebbe potuto essere un sogno poiché in un sogno non avrei mai aggiunto questi dettagli per me
orribili.
Era la realtà.
Ero, per fortuna o per sfortuna, tornata di nuovo alla realtà.
Non volli pensare a ciò che era successo, non in quel momento.
Volevo soltanto sentirmi per un singolo istante in perfetta e totale solitudine, e allora mentre per l’ennesima volta udii lo
squillo del mio cellulare risuonare nell’aria lì attorno, ascoltai la voglia delle mie gambe di correre senza sosta, correre senza
fermarmi, e corsi, cosi fino a scontrarmi dolcemente con l’acqua salata del mare che bagnava ogni parte del mio corpo.
Non c’era un singolo angolo della mia pelle che non fosse stato toccato da quelle bestie, che non fosse stato preda di quella
caccia, ed ora non c’era angolo della mia pelle che non si fosse “ripulito” di quella strage.
L’acqua attraversava ogni parte di me, dalle dita dei piedi fin sulle gambe, percorrendo perfettamente ogni curva del mio
corpo.
Entrava e usciva dalla mia pelle ad un ritmo calmo e rilassante provocando in me un intenso piacere quando raggiungeva la
timida apertura delle mie gambe, e saliva poi poco a poco sui miei fianchi, arrivando infine ad accarezzare dolcemente il mio
seno.
Mi rilassai più che potei, trattenni il respiro e mi immersi sott’acqua per tutto il tempo che mi fu possibile.
Nuotai aspettando il momento in cui mi sarebbe occorsa nuova aria e sarei dovuta risalire a galla.
Immaginavo di essere un pesce, di poter nuotare liberamente come loro, fino a quando non sarebbero stati catturati da chissà
quale rete di chissà quale pescatore.
Ed ecco che, mentre seguivo il filo dei miei pensieri, avvertii quella sensazione che attendevo e risalii il più in fretta
possibile in superficie respirando a fondo quell’aria che ai miei occhi appariva tanto pulita.
In quel momento però iniziai ad avvertire dei brividi corrermi lungo la schiena e scendere ancora più in basso, arrivando fin
sotto alle caviglie: l’acqua stava diventando più fredda.
Non sapevo che ora fosse, avevo perso la cognizione del tempo, ma di certo doveva esser di poco passata l’alba poiché la
temperatura dell’acqua iniziava a diventare di ghiaccio.
Mi bagnai per un’ultima volta il volto, ed uscendo mi diressi verso il luogo del massacro.
Presi in mano il mio cellulare ed osservai il display: sessantacinque chiamate senza risposta del mio amato Kevin, settantadue
dei miei cari genitori e cinquantaquattro del mio adorato fratello Alex.
In quel momento non riuscii a pensare ad altri che a Kevin.
Era preoccupato per me, preoccupato che mi fosse successo qualcosa, ed io comportandomi come la solita egoista quale ero
non avevo risposto a nessuna delle sue chiamate.
Pensai a quanto Kevin mi amasse e a quanto io amassi lui, pensai alla nostra storia e pensai a quante volte avevamo litigato
per cose futili, ma pensai anche a quanto ogni volta fosse stato bello far pace con lui.
Non avevamo mai fatto l’amore, è vero, ma il nostro amore non necessitava di un rapporto sessuale per avere inizio, ed
entrambi lo sapevamo.
Quell’atto d’amore per noi sarebbe stato solo l’apice di un amore intenso e passionale, non avrebbe fatto altro che renderlo
completo.
Sapevo che lui avrebbe voluto far l’amore con me quasi quanto lo volessi io, ma non mi sentivo ancora pronta.
Non avevo ancora ricevuto quella scarica di energia, di una voglia irrefrenabile, in grado di farmi dire “Voglio fare l’amore
con te, adesso.”
Lo amavo, stavo solo aspettando il momento giusto, il momento che avrebbe reso tutto perfetto, e lui lo capiva, lui capiva
qualsiasi cosa io gli chiedessi.
Ora forse però mi sarei pentita di aver atteso così allungo una scarica elettrica che probabilmente esisteva esclusivamente
nella mia testa, perché adesso quel momento che per me sarebbe stato magico era svanito.
Era stato cancellato con violenza e con altrettanta violenza mi era stato strappato via dalle mani.
Il campo bianco, il nostro campo innevato, che avrei voluto attraversare per la prima volta con lui, un campo ancora in
costruzione ma perfetto e che presto sarebbe stato pronto per essere attraversato, ora era svanito.
Era tutto svanito nel nulla. In quel momento il cellulare squillò tra le mie mani , era lui.
Non attesi neppure che i “Green Day” pronunciassero la prima parola della canzone che tanto amavo, e schiacciai la cornetta.
Non parlai, non uscì alcun suono dalla mia bocca, bastò un pianto afflitto perché lui capisse tutto ciò che era accaduto in pochi
secondi.
-Dove sei?-
La sua voce era straziata, sofferente, ma al contempo anche infuriata tanto che non riusciva neppure a parlare, gli si
bloccavano le parole in gola, e sapevo quanto fosse furioso e quanto cercasse di controllarsi.
Non sopportava l’idea che qualcuno potesse farmi del male, lo sapevo, e sapevo anche che per lui non sarebbe finita lì.
– Amore, dove sei?! -
Questa volta la sua domanda non lasciò trapelare alcuna emozione.
Tentai di immaginare il suo volto, doveva essere molto simile a quello di una statua, se si fosse potuto rompere in mille pezzi
in quel momento sarebbe accaduto.
Il silenzio era rotto soltanto dal mio pianto angosciato.
Ad un tratto, cercando di farsi uscire di bocca la voce più dolce che in quel momento fosse in grado di fare mi disse:
–Avanti tesoro, calmati, dimmi dove sei, ti raggiungerò in un attimo e potrai sfogarti con me per tutto il tempo che vorrai, ma
dimmi dove di trovi, per favore.-
A quel punto uscì un sibilo dalla mia bocca e alla fine riuscii a malapena a pronunciare – Sunny Beach… – e immediatamente
lui rispose – Sto arrivando. -
Chiuse la conversazione e in un attimo gettai il telefono a terra e mi lasciai cadere sulla sabbia, le gambe contro il petto ed il
viso affondato tra le ginocchia, e così, in questo modo, attesi l’arrivo dell’unica persona su questa Terra che sarebbe riuscita
persino in quel momento a farmi tornare il buonumore.