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Autore: adamantina    30/08/2011    2 recensioni
Sono passati tre anni da quando Vanessa, Damien, Lily, Charlotte, Blake, Arthur e Jonathan si sono separati con l’intenzione di tornare alla loro vita normale. Ma cosa significa normale per chi è dotato di poteri che potrebbero cambiare il mondo? Blake non si è arreso e continua a lottare. Ma anche chi ha da tempo rinunciato a combattere per un mondo più giusto dovrà tornare in campo quando le persone a lui più care saranno minacciate …
«Non puoi biasimarci per averne voluto restare fuori, Blake. Quello che tu stai facendo è fingere di essere ancora al Queen Victoria’s, e ti rifiuti di andare avanti con la tua vita. […]»
«Stavo cercando di impedire un omicidio!»
«Sei un idealista» taglio corto, incrociando le braccia. «Ammettilo, lo sei sempre stato. E credo che il tuo vero scopo sia riportare Lily sulla retta via. Ammettilo, ancora ci speri […].»
Genere: Dark, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Queen Victoria's College'
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~THE HOSPITAL~
 
[Damien]
 

«Damien?»

Apro gli occhi di scatto, risvegliato da uno scossone improvviso che mi distoglie da sogni luminosi e allucinati.
Tossisco un paio di volte e mi metto a sedere, salvo poi ricadere sui cuscini per un giramento di testa.
«Damien?»
Il mio sguardo si opacizza per una visione improvvisa di cani neri che abbaiano furiosi, forse partecipanti involontari di un combattimento clandestino.
«Damien?»
La voce si alza di tono e vengo scosso di nuovo. Sbatto le palpebre rapidamente e tento di schiarirmi i pensieri, provando a ricordare come escludere queste immagini dalla mia mente.
«Damien? Per favore, rispondi, mi stai facendo preoccupare.»
Visualizzo una porta e mi sforzo di liberare la mente per richiudervi dietro tutte le visioni. Ci riesco abbastanza in fretta, determinato a tornare lucido.
«Damien!»
Mi volto, e finalmente rispondo.
«Sì.»
La mia voce suona debole e incerta, ma sembra creare un certo sollievo nel mio interlocutore.
«Oh, grazie a Dio. Cosa ti succede? Stai male?»
Con più cautela, mi siedo sul letto e poso gli occhi su Arthur, seduto accanto a me con gli occhi colmi di ansia, facendo ancora fatica a metterlo a fuoco.
«Un po’» ammetto.
«Ok. Vestiti, andiamo all’ospedale.»
Scuoto la testa con decisione, anche se questo mi fa quasi cadere di nuovo –ma Arthur mi sorregge.
«Non è il caso» mormoro.
«Non me ne frega niente di cosa ne pensi tu, Damien. Ti do cinque minuti.»
Sospiro. Di norma, la testardaggine di Arthur non lascia spazio ad obiezioni di nessun tipo, ma non è la prima volta che riesco a fargli cambiare idea su questo argomento in particolare.
«Lo sai che non possiamo. Se mi facessero degli esami del sangue … » tossisco di nuovo prima di riuscire a proseguire la frase «Potrebbero capire che c’è qualcosa di strano.»
«Non mi interessa.»
«Ci siamo già andati, Art. Tre volte.»
«Eppure non sei guarito.»
«Senti, non … » Un ennesimo attacco di tosse mi impedisce di continuare. Mi porto d’istinto una mano davanti alla bocca. Quando l’attacco si placa, la ritiro e, come in un incubo, la vedo macchiata di rosso. Art segue il mio sguardo. Lo vedo impallidire prima di infilarmi a forza una maglietta, stringermi un braccio e teletrasportarci entrambi via.
 
Tre ore e infiniti colpi di tosse dopo, sono ancora seduto su una sedia di plastica bianca in uno squallido corridoio dell’ospedale di Cape Coral.
Sentire il mio nome chiamato con aria annoiata da un infermiere mi riempie di sollievo, soprattutto perché, se avessimo dovuto aspettare ancora, credo che Arthur avrebbe ucciso qualcuno. Mi alzo e, traballando appena, entro nello studio del medico, il dottor Carver.
Questi, un uomo sulla cinquantina, alto e possente, mi squadra da sopra le lenti degli occhiali firmati. Ormai allenato, colgo immediatamente la scintilla di disgusto che lampeggia per un solo istante nei suoi occhi quando vede Arthur accanto a me. Lo catalogo come omofobo in meno di due secondi e sono già tentato di andarmene.
«Bene, signor … » consulta la cartella sulla scrivania «Signor Knight. Mi pare che lei sia già stato qui, non è vero?»
«Sì» rispondo «Più di una volta.»
«E, se non vado errato, le era stata diagnosticata una mononucleosi piuttosto acuta.»
«Esatto.»
«Ha seguito tutte le prescrizioni mediche? Ha preso i medicinali con regolarità?»
«Sì, e sono stato meglio per un paio di mesi, ma adesso è di nuovo tutto come prima.»
Carver mi guarda con aria dubbiosa, evidentemente non ritenendo che io sia stato fedele alle sue precise indicazioni.
«In tal caso» borbotta «Le rinnoverò le ricette e potrà cominciare un nuovo periodo di … »
«No» ringhia Arthur, deciso. «Per tre volte ha preso quelle stupide medicine e non è mai servito a nulla. Voglio che lei gli faccia fare degli altri esami.»
Carver guarda Art con sufficienza.
«Lei è un medico?»
«No» risponde a denti stretti Arthur.
«Allora temo che non sia nella posizione di giudicare l’efficacia delle terapie a cui sottopongo i miei pazienti.»
Vedo Arthur stringere i pugni e prevedo quello che succederà senza bisogno di alcuna visione. Gli metto una mano sul braccio per dissuaderlo dal fare scenate inutili, e intercetto di nuovo il disprezzo negli occhi del medico.
«Va bene» dico. «La ringrazio. Arrivederci.» Strattono Art e lo costringo ad andarsene subito.
Non appena siamo fuori, esplode.
«Quel brutto bastardo!» urla.
«Shh. Zitto, Art, per favore.»
«Come si permette? Lo sa benissimo di avere sbagliato, e … »
«Art, basta. Non è il caso di reagire così. Senti, facciamo una cosa. Adesso ce ne torniamo a casa e domani, con calma, avremo tempo ad andare in un altro ospedale, magari in un’altra città, e consultare qualcun altro. D’accordo?»
Mi squadra, indeciso.
«Avanti» insisto. «Non serve a niente pretendere di … » Senza preavviso, ricomincio a tossire, sempre più violentemente, e all’improvviso i miei occhi si scuriscono e mi sento cadere, senza nulla a cui appigliarmi per non precipitare nel vuoto.
 
Mi risveglio in una stanza minuscola con le pareti bianche. Accanto a me c’è Art, ancora, e vedo che ha lo sguardo perso nel vuoto, soprappensiero.
«Ehi» mormoro.
Lui sussulta e mi guarda.
«Oh. Sei sveglio. Devo avvisare il dottore.»
«Aspetta. Cos’è successo?»
«Sei svenuto e ti hanno ricoverato qui, ma non mi hanno detto nulla. Volevano che li avvisassi quando ti fossi svegliato.»
Esce un momento e rientra con il dottor Carver, seguito da un’infermiera bionda che non esita a puntare gli occhi su Art e fargli un sorriso. Lui non ricambia, gli occhi fissi su me e Carver.
«Come si sente, signor Knight?»
«Esausto» dico con onestà.
«Beh, credo che questo sia dovuto alla sua evidente mancanza nel seguire la mia prescrizione. I sintomi sono quelli della mononucleosi, non c’è ombra di dubbio. Credo che lei possa andare a casa anche subito, purché si impegni a prendere i suoi medicinali.»
«Che cosa?» È di nuovo Arthur a intervenire, furioso. «Non fa altro che tossire. È dimagrito, è sempre stanco, e tutto questo non è cambiato nonostante abbia preso tutte le medicine che lei gli ha dato! E adesso lei vuole mandarlo a casa senza aver risolto nulla?»
«Senta, le ho già detto prima cosa ne penso. Se seguiterà a comportarsi in questo modo aggressivo, farò chiamare la sicurezza.» Poi si rivolge all’infermiera: «Compili i moduli di dimissione e glieli faccia avere il prima possibile.»
La ragazza annuisce e se ne va con lui.
Art mi guarda, ancora tremante di rabbia. Quindi si lascia cadere sulla sedia accanto al letto.
Mi stupisco ancora di quanto sia cambiato. Una volta, all’inizio, non avrebbe preso le mie difese davanti ad un individuo come Carver. I primi tempi non tollerava alcun tipo di effusione in pubblico, e non riusciva neanche a tenermi la mano. E, se lo faceva, era per qualche malsano senso di colpa causato dalle occhiatacce che gli lanciavo se rifiutava. Si imbarazzava facilmente, ed ogni sguardo gli sembrava ostile.
Poi, circa sei mesi dopo l’inizio della nostra storia, sono stato male per la prima volta. Mi ha accompagnato in ospedale, e mi è rimasto accanto come attirato da una calamita. E quando, prima di un esame particolarmente fastidioso e invasivo, un’infermiera gli ha detto “se vuole, può restare insieme a suo fratello” –riferendosi a me-, lui ha scosso la testa stupito, dicendo con decisione “non è mio fratello, è il mio ragazzo”.
Da allora, non ha più dimostrato alcun imbarazzo.
«Dammi il tuo cellulare» dice piano, la voce forzatamente calma, riportandomi al presente.
Stupito, obbedisco, tirandolo fuori dalla tasca dei jeans.
Lo accende e vedo che entra nella rubrica.
«Cosa vuoi fare?» chiedo, allarmato dalla sua espressione rabbiosa.
«Sappi che non c’è nessun’altra persona al mondo per cui farei questa telefonata, Dam.»
Questo mi preoccupa ancora di più.
«Chi vuoi chiamare, Art?» insisto.
Mentre esita nel premere il tasto di chiamata, ricomincio inevitabilmente a tossire. Questo sembra fargli prendere una decisione, perché schiaccia il pulsante, sebbene con un’espressione quasi disgustata.
«Charlotte? Sono Arthur.»
Non ci credo. Spalanco gli occhi, incredulo. Ha davvero chiamato Charlotte? Quella nella top ten delle persone che detesta di più? Quella –cito testualmente- secchiona presuntuosa, arrogante e saccente?
«Senti» vedo che si sforza per essere gentile, specialmente vista l’occhiataccia preventiva che gli lancio «Scusa se ti disturbo, ma … avrei davvero bisogno di una mano. Sei al lavoro? C’è un posto in cui posso teletrasportarmi senza essere visto?»
Comincio a intuire cosa vuole fare.
«Bene. Grazie. Ci vediamo tra poco.»
Chiude la telefonata e mi restituisce il cellulare.
«Cambio di programma» annuncia. «Andiamo a Baltimora.»
 
Charlotte Miller, il più giovane medico primario che si ricordi oltre che il migliore, non può che lavorare qui: al Johns Hopkins Hospital di Baltimora, da diciotto anni al primo posto della classifica dei migliori ospedali degli Stati Uniti.
Art segue le sue indicazioni e ci teletrasporta entrambi in una stanza vuota. Quando la terra torna sotto ai miei piedi, un nuovo giramento di testa rende necessario il suo sostegno.
La porta si apre ed entra Charlotte.
Non la vedo da più di tre anni e il suo cambiamento è incredibile. I capelli biondi sono legati in uno chignon sul capo. Indossa il camice bianco su un tailleur impeccabile con un paio di tacchi di altezza considerevole. Sul viso, un leggero strato di trucco.
«Ciao» dice con un sorriso che non nasconde la sua preoccupazione. Sa che, se Arthur l’ha chiamata, il motivo deve essere serio.
«Ciao» replico, ancora cercando di riconoscere in lei la diciottenne timida e geniale che ricordo.
I suoi occhi si fermano su di me e vedo che mi studia con occhio clinico. Non può non notare la mia magrezza e il pallore cadaverico.
«Cosa succede?» chiede.
«Damien sta male da mesi» replica prontamente Art. «Tossisce, è dimagrito, è sempre stanco, spesso ha la febbre alta. All’ospedale gli hanno diagnosticato la mononucleosi, ma le medicine non fanno effetto. E non può fare gli esami del sangue per paura che scoprano … »
Charlotte annuisce, seria. Apre la porta e chiama un’infermiera.
«Ho bisogno di una camera per questo paziente. Voglio che prenoti uno screening completo e procedi con esami del sangue e … »
Delle parole che seguono capisco soltanto le congiunzioni: evidentemente Charlotte non è cambiata tanto come sembrava a prima vista. Concluso l’elenco di esami, congeda l’infermiera.
«Vi accompagno in camera» dice, e ci fa strada lungo innumerevoli corridoi.
Nel frattempo, il suo cercapersone suona qualcosa come dodici volte, e si allontana di fretta.
Mi siedo sul letto e Arthur si mette accanto a me dopo aver chiuso la porta.
«Come stai?» indaga.
«Meglio.»
«Sul serio?»
Mi stringo nelle spalle e mi appoggio a lui, chiudendo gli occhi.
«Sono contento che tu sia qui» sussurro.
«Non potrei essere da nessun’altra parte, Dam.»
«Ti amo.»
«Ti amo anch'io.»
   
 
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