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Autore: Mushroom    05/09/2011    3 recensioni
"La città si era svegliata in un torpore ghiacciato, mentre (ancora) la pioggia – fitta – e il freddo – pungente – avevano deciso di accompagnare la Detective Beckett fino alla porta di casa Tudor e, forse il destino, aveva deciso che lo scrittore (detto così dalla nostra protagonista solo per non essere apostrofato con epiteti meno carini) la seguisse anche in quell'impresa."
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Strane giornate estive, partite a Cluedo e figlie incredule

Storia partecipante alla GI challenge
δικολòγος (patrocinatore, avvocato) -
διλογητέον (agg. verb. bisogna ripetere)

Il dottor Black era un uomo dalle mille vite. Chiunque avesse avuto l’onore – o il dispiacere – di conoscerlo, non aveva mai intuito quale fosse la sua vera natura, né se ne possedesse una. Si destreggiava tra il mondo e sé come il più esperto giocatore di scacchi; come un burattinaio senza burattini, che vigeva su tutti senza che nessuno lo sapesse. Il signor Black si sentiva un po’ Dio: peccava di Hybris dal primo giorno di coscienza e accentuava il proprio ego da quando era diventato un medico. Il migliore, dicevano.
Era il migliore.
Nessuno in quella stanza avrebbe scommesso un solo dollaro sulla sua etica, benché i suoi piani fossero oscuri a tutti. Allo stesso modo, però, comprendevano la moltitudine di alibi che avrebbero potuto procurare al Dottor Blake una dipartita così spiacevole e incresciosa.
Meritava la morte.
Ma questo non bastava. Qual motivo aveva spinto l’assassino a ridurre il medico in un corpo esanime, era pur sempre un’impresa macchiata dalla moralità. Un’impresa sporca, priva di qualsiasi patto cavalleresco. Era un omicidio, e tutti, in quella stanza, sapevano che vi era un killer tra loro; non vi era certezza né sospetto, eppure sapevano di dover stare all’erta.
Se il dottor Black era stato un pessimo individuo dalla dubbia identità e dubbi principi, anche loro non potevano vantare un passato del tutto immacolato: avrebbero potuto essere i prossimi.
Nelle nove stanze, ve ne era una ove era stato ammazzato, per poi venir trascinato in salotto. Era saltata la corrente, un urlo aveva invaso il salotto, e una cena di piacere si era trasformata in un circo degli orrori. Il sangue spandeva nel tappeto bianco, come a voler dipingere mille roseti di espiazione; si incrostava, mentre il corpo diventava freddo. Macchiava. E quel color così scuro, dissimile da ogni altro che i commensali avessero mai visto, offuscava tutto il resto.
Vi era un assassino, ed era uno di loro.
Il dottore si era vantato così tanto di quel tappetto color avorio. Andava dicendo che era il suo tesoro più prezioso, importato dalla lontana Asia. Il pellame, così liscio e ben lavorato, si diceva appartenesse a un animale mitologico, ma lui ci credeva assai poco. Rise, raccontando quell’aneddoto, e aggiungendo che non importava se il racconto era vero o meno, bensì come esso era narrato. Era questo che faceva di una leggenda una realtà ed era questo che l’aveva spinto a comprare il tappeto. Gli piaceva che ci fosse una storia dietro ogni cosa: dava un valore maggiore all’oggetto in questione. Un valore procace come un paradosso.
Era un uomo che aveva capito tutto dell’arte dell’inganno. Così tanto da venir ingannato egli stesso, artefice dell’invito spedito al proprio assassino.
La notte si inoltrava all’esterno del pianterreno di casa Tudor, ed era una di quelle sere che difficilmente New York avrebbe dimenticato. Il vento irrompeva picchiettando sulle finestre, trascinando con sé gocce di una pioggia interminabile. Un clima così, freddo e afoso, non si era mai visto in Agosto. Generalmente, era la settimana più calda di tutta l’estate: quei giorni l’asfalto sembrava diventare lava scura e il sole si beffava di qualsiasi organismo dotato di vita propria.
New York cadeva nel caos: abitanti poco contenti, vittime accaldate e lavoratori costretti in piccoli uffici senza condizionatore. Tutti sembravano sempre più nervosi. Tranne quel giorno.
La città si era svegliata in un torpore ghiacciato, mentre (ancora) la pioggia – fitta – e il freddo – pungente – avevano deciso di accompagnare la Detective Beckett fino alla porta di casa Tudor e, forse il destino, aveva deciso che lo scrittore (detto così dalla nostra protagonista solo per non essere apostrofato con epiteti meno carini) la seguisse anche in quell’impresa.
Bisogna ripetere che in quell’omicidio non vi era niente di normale. Tutt’al più, vi era qualcosa di sinistro. Il delitto era sospinto dal vento e occultato dall’acqua, e tutto si faceva sempre più buio. Tutto ti faceva sempre più simile a un romanzo giallo: bello per i lettori, terribile per i personaggi.
Kate Beckett portò una mano al mento, osservando la scena del delitto. Anni di esperienza, e ancora aveva problemi a trovare indizi; ancora, chissà come, non sapeva destreggiarsi in quel mondo fatto di carte e vittime. Si sporse verso Castle, al suo fianco, e indicò un punto del salotto << Lì è stata trovata la vittima >> ricapitolò << E in casa vi era una cena, organizzata a casa Tudor per… >>
<< È inutile >> rispose il compagno, prima ancora che essa potesse finire la frase. Provò quasi gioia nel vedere il volto della donna incupirsi. Quando adorava provocarla. << È stato il maggiordomo. È sempre il maggiordomo >>.
Kate trattenne un sorriso << Il maggiordomo? Se i tuoi gialli finissero così, ora saresti sicuramente uno scrittore fallito >>
<< Allora è la sorella >> rispose lampante, indicando una pedina << Aveva tutti i moventi e…. >>
<< Tutti hanno un movente >> ribatté piccata, scuotendo la testa << Se no il gioco sarebbe troppo semplice. Allo stesso modo, tutti hanno anche un alibi >>.
Alexis, dal l’altro lato della sala, osservava la scena. Alzò un sopracciglio, il frigo ancora aperto e l’acqua fredda in mano.
Scrittore di gialli e Detective: ossia due persone che hanno a che fare con la morte tutti i giorni. Perché non riescono a risolvere uno stupido gioco, allora?
Pensò che – probabilmente – erano lì a terra da ore, impuntati su teorie bizzarre e con pareri completamente discordi gli uni dagli altri.
<< Io sostengo la tesi del maggiordomo >>.
<< E sentiamo: Perché? >>
<< Il Cluedo – Castle sorrise, fiero e soddisfatto – fu inventato da  Anthony Pratt, impiegato presso un avvocato e nativo di Birmingham. Detto questo, bisogna ricordare che ogni avvocato odia per principio i maggiordomi >>  la Detective gli lanciò uno sguardo perplesso, carico di qualcosa si simile all’incredulità e all’ilarità << Inoltre i maggiordomi per eccellenza sono inglesi. L’ideatore è inglese; il maggiordomo è inglese; quindi è stato il maggiordomo >>.
<< Il maggiordomo ha ucciso il Signor Black? Ridicolo >>
Alexis aprì la bocca e la richiuse. Sembravano non averla notata.
Lanciò un ultimo sguardo ai due e sospirò; poggiò l’acqua e, senza bere, decise di tornare a dormire, sperando di non sognare partite a Cluedo e Detective impacciaci.
Davvero irrecuperabili.


Note: sì, lo so, è parecchio nonsense xD però, andiamo, il Cluedo! Con i prompt ottenuti e con questi personaggi, come potevo non incastrarli in un gioco che, per dei veri detective, è un passatempo paradossale? Scritta di getto in dieci minuti, quindi la storia (oddio, si può definire tale?) non ha il minimo senso. O meglio, la minima logica.
[A mia discolpa, però, posso dire che è abbastanza corta per non pretendere un senso in sé. Okay, è una scusa bella e buona. ]
L’inizio descrive il caso trattato nel gioco del Cluedo: La cena, la vittima e il pianterreno di casa Tudor, dove si gioca. Poi passa, ovviamente, alle riflessioni della detective. Spero che la parte non sia stata troppo, ehm, caotica.
I consueti pomodori in testa sono ben accetti, e anche gli insulti pesanti. Vietati i dizionari di latino e di greco – mi volete umiliare, non uccidere, giusto? O.o 

   
 
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