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Autore: OpunziaEspinosa    08/09/2011    26 recensioni
E se Isabella Swan fosse la ragazza più popolare della scuola? Se fosse Edward Cullen il ragazzo nuovo in città? Chi dice che non sia LEI a doversi prendere cura di LUI? Breve FF su una semplice storia d'amore.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 11
 
Oddio, eccola: la luce in fondo al tunnel.
Sapevo che, prima o poi, sarebbe arrivata. Sapevo che James mi avrebbe ammazzato. L’ho intuito non appena ho messo piede in quella maledetta casa degli orrori. Un coltello piantato nello stomaco e una scarica di calci e pugni cos’altro avrebbero potuto fare se non spedirmi all’altro mondo? Non ho di certo il fisico di un lottatore o di un atleta! Uno come Jake, ad esempio, avrebbe potuto affrontarne dieci di James. Ma io… Che ne so di autodifesa? Che ne so di scazzottate? E il fatto che abbia visto quel capolavoro assoluto di Fight Club una decina di volte non è significativo. La teoria è una cosa, la pratica un’altra.
Santo cielo… quella maledetta luce si fa sempre più intensa. Cosa dovrei fare, ora?
Ho sempre sentito dire che la presenza di una luce alla fine di un tunnel non è un buon segno. Significa che, nella tua vita, qualcosa è andato storto, che la tua corsa è giunta al capolinea. Mi pare un tantino presto per porre fine al mio viaggio, però. Dopotutto ho solo diciassette anni!
Forse, se non seguo la luce, se mi mantengo nell’oscurità, non morirò.
A meno che… A meno che io non sia già morto! Oddio… il buio che mi circonda è una terra di mezzo? Una sorta di limbo che mi ospita in attesa che qualcuno decida cosa fare della mia anima, se mandarmi all’inferno o in paradiso? Spero di finire in paradiso… All’inferno gira un sacco di brutta gente e non avrei il coraggio di affrontarla per un tempo superiore ai cinque minuti. Figuriamoci per l’eternità!
In prima media ho copiato il compito in classe di matematica da Will Jenkis, e non è stata una bella cosa, lo ammetto. E neppure prendermi i meriti per l’ottimo voto ricevuto. Ma a mia discolpa posso dire che avevo passato tutta la settimana precedente a letto con l’influenza, che non avevo potuto studiare come si deve, e che quella è stata l’unica volta in cui ho barato. Copiare un compito in classe non mi pare una cosa grave al punto da meritare un posto tra le braccia di Satana! James, che mi ha ammazzato, che fine dovrebbe fare, allora?
“Edward… Edward…”
Ecco. Ora sento anche delle voci invocare il mio nome.
“Edward… Edward, ci puoi sentire?”
Una femminile e una maschile.
Se non altro non finirò all’inferno. Queste voci sono troppo gentili per appartenere a dei demoni.
Che strano, però. Oltre ad essere estremamente dolci queste voci assomigliano terribilmente a quelle dei miei genitori.
“Edward, amore…”
Ehi… Ma queste sono  le voci dei miei genitori!
“Edward…”
Questa è mia madre.
“Edward, mi senti?”
E questo è mio padre.
Allora non sono morto… non sono morto!
Con enorme fatica sollevo le palpebre, e quella stessa luce che fino a qualche istante fa cercavo disperatamente di fuggire mi investe in pieno, ferendomi gli occhi.
“Ma‒mamma… Pa‒papà…” riesco a dire. Vorrei aggiungere dell’altro. Vorrei chiedere: cos’è successo? Dove sono? Perché sto così male? Sono ancora vivo? È tutto vero o è un incubo? Ma non ci riesco. La voce non esce. Inoltre provo un dolore lancinante alla mascella ‒ beh, un po’ ovunque ad essere onesto. Ho le labbra e la gola secche, e mi sento come se il mio cervello fosse scollegato dal resto del mio corpo. Insomma, mi sento uno schifo.
“Edward… Edward ti sei svegliato!” Mia madre, seduta sul bordo del letto, mi prende il viso tra le mani e comincia ad accarezzarmi: le guance, la fronte, i capelli… Lo fa con estrema cautela e delicatezza, come se avesse paura di farmi del male, come se avesse paura di rompermi, o di vedermi scomparire da un momento all’altro. Dal tono della sua voce mi pare che stia piangendo, ma senza occhiali, e con questa luce accecante, non riesco a vedere bene l’espressione del suo volto. Non riesco a capire se è triste o felice. Credo sia felice, però. Ha detto: “Ti sei svegliato.” Immagino di aver dormito o di essere svenuto per un po’.
C’è anche mio padre. Riesco a distinguerne a malapena la sagoma, ma è lui. In piedi, dietro mia madre, le tiene le mani sulle spalle, come a darle coraggio, o a prenderne.
“Edward…” continua a dire. “Edward…” Pronuncia il mio nome, non fa altro, la voce rotta dal pianto.
“Chiama la Dottoressa Robinson, Carlisle,” sento dire a mia madre. All’istante mio padre si allontana da noi.
Mi guardo intorno, sbattendo le palpebre, cercando di abituare gli occhi alla luce.
Credo di essere a letto, in una stanza d’ospedale ‒ se non altro per il forte odore di disinfettante. Ma la luce è troppo intensa, non riesco a distinguere quasi nulla intorno a me.
Mia madre si rende immediatamente conto del mio disagio. “Ti dà fastidio la luce, amore?” chiede. E ancor prima di ricevere una risposta, si alza e si avvicina alla finestra. Poi abbassa le veneziane, creando una piacevole penombra.
Sì, è come sospettavo: sono a letto, in una stanza d’ospedale.
“Grazie,” riesco a dirle.
Molto bene. Mi è successo qualcosa di terribile e sono all’ospedale. Ma sono ancora in grado di parlare. Chissà se sono anche in grado di muovermi.
Cerco di spostare la testa di lato. Ce la faccio. Di sollevare una mano. Riesco a fare anche questo. Muovere un piede. Pure.
Perfetto. Non sono paralizzato. Sono vivo e non sono paralizzato. E riesco anche parlare, malgrado il dolore lancinante alla mascella. Sono così felice che potrei mettermi a ballare. E non me ne importerebbe nulla di essere preso in giro dai miei compagni di scuola.
“Ho… ho sete,” dico. Non credo di aver mai avuto la gola tanto secca in tutta la mia vita.
“Certo… certo, ti verso dell’acqua, amore.” Mia madre si avvicina e preme un bottone che fa alzare lo schienale del letto di qualche grado. Poi afferra una brocca posta sul comodino, versa dell’acqua in un bicchiere di plastica e me lo porge, aiutandomi a bere.
L’acqua è tiepida, ma deliziosa. Ne bevo a piccoli sorsi, provando immediato sollievo.
“Edward,” Una donna in camice bianco, sulla cinquantina, entra nella stanza, sorridendo. Credo sia la Dottoressa Robinson. Mio padre la segue. “Edward, ti sei svegliato, finalmente. Sai che giorno è?” chiede.
Ci rifletto per un attimo. “Domenica?”
L’ultima volta che mi sono alzato dal letto era sabato. Poi Rosalie è venuta a tagliarmi i capelli. Poi c’è stata la festa.  Poi… Poi.
Dovrebbe essere domenica.
“No, martedì pomeriggio.”
“Ma‒martedì ?!” balbetto.
Lei mi sorride, nuovamente. Ha l’aria gentile e simpatica. “Hai dormito per un po’,” si limita a dire, come se fosse una cosa normale restare privo di conoscenza per quasi tre giorni. Io lo trovo inquietante.
Poi la dottoressa Robinson inizia a esaminarmi. Mi controlla le pupille con una torcia minuscola, mi sente il polso, posa lo stetoscopio sul mio petto e mi chiede di respirare, fa lo stesso con la schiena, misura la mia temperatura corporea con un termometro digitale. Contemporaneamente mi fa delle domande, e io cerco di risponderle.
“Sai dove siamo?”
“In un ospedale.”
“Sai perché ti trovi qui?”
“Sì.”
“Cos’è successo?”
“Sono stato accoltellato.”
“Nient’altro?”
“Preso a calci. E a pugni, forse.”
“Ti ricordi chi è stato?”
“Sì.”
Che strano… Non ero mai stato ricoverato prima d’ora. Non ero neppure mai stato al pronto soccorso. Gli ospedali li ho sempre visti solo ed esclusivamente in TV. Ora mi pare di vivere una puntata di Grey’s Anatomy.
La dottoressa Robinson si sposta verso i macchinari a cui sono collegato e inizia a esaminarne i tracciati con estrema attenzione.
Da uno strano aggeggio dotato di monitor partono svariati fili appiccicati con delle ventose al mio torace. La macchina emette un bip, continuo e regolare. Spero sia un buon segno. Una cannula infilata sul dorso della mia mano sinistra è collegata ad una flebo. Un altro paio di tubicini mi fuoriescono dal naso.
“Mi pare vada tutto bene,” dice la Dottoressa Robinson, ma più a se stessa che a me o ai miei genitori che attendono impazienti in un angolo della stanza. Poi si volta nella mia direzione. “Tu come ti senti, Edward?” chiede.
Come mi sento? Non c’è una parte del mio corpo che non mi faccia male, ma mi pare di essere ancora tutto intero, di non avere nulla di rotto. E poi sono ancora vivo.
“Bene, credo…” rispondo.
“Sono un medico, uno scienziato,” dice lei. “Non dovrei credere nei miracoli, ma con te…” sospira e scuote la testa, incredula. “Penso ne sia accaduto uno, Edward.”
“Un… un miracolo?”
“Sarò sincera: eri messo male. Avevi questa ferita, molto profonda, da cui è fuoriuscito parecchio sangue. Ma quel coltello non ha colpito alcun organo vitale. Un centimetro più in là e le cose sarebbero andate diversamente.”
Ah. Interessante. Che reazione dovrei avere a una notizia del genere? Gioire? Rabbrividire? Sinceramente ciò che questa dottoressa mi sta spiegando è piuttosto inquietante. In sostanza mi sta confermando che mi sono trovato a un passo dalla morte.
“E tutti quei calci e quei pugni… Sei stato colpito anche in faccia, Edward, ripetutamente,” continua lei. “È davvero incredibile che tu non abbia nulla di rotto. Solo delle contusioni, per quanto estese, e un paio di costole incrinate. Nient’altro.”
“Nient’altro?”
“Nient’altro.”
“Sì,” balbetto, non riuscendo ancora a credere di essere sopravvissuto alla furia di James. “Sì, è… è incredibile.”
“Hai una tempra molto forte, Edward,” dice la Dottoressa.
Io? Edward Cullen? Una tempra forte? Questa, poi…
“Ora che sei sveglio la polizia vorrà parlare con te.” continua. “Sapere come sono andate le cose con James dopo che siete rimasti soli, prima che i tuoi amici e la polizia ti trovassero…”
James… Nell’istante esatto in cui sento pronunciare il suo nome ad alta voce, una serie di immagini spaventose mi riaffiora alla memoria: lui, la sua voce stridula, il suo sguardo da pazzo, i suoi occhi allucinati… il coltello…
Comincio ad agitarmi, facendo aumentare la frequenza dei bip emessi dalla macchina a cui sono collegato.  
Immediatamente la Dottoressa Robinson e mia madre sono al mio fianco.
“Tranquillo, Edward,” dice la Dottoressa. “Non è necessario che tu lo faccia subito.”
“Esatto, amore,” continua mia madre, sedendosi sul bordo del letto e prendendomi la mano. “Possiamo rimandare a domani, giusto?” E nel dirlo solleva lo sguardo in direzione del mio medico, in cerca di una conferma.
“Assolutamente, Signora Cullen. Domani. Ormai è tardi, Edward deve riposare.”
La Dottoressa Robinson inietta qualcosa nella flebo ‒ un tranquillante, credo, perché mi sento subito meglio ‒ mi dice che tornerà a controllare il mio stato tra un paio d’ore, mi prega di chiamare lei, o un infermiera, dovessi aver bisogno di qualcosa, e poi se ne va.
 
Una volta rimasti soli i miei genitori si avvicinano a me.
“Torna a riposare, Edward,” dice mio padre. “Ne hai bisogno. Hai sentito cos’ha detto la Dottoressa Robinson? È  stato un miracolo.”
Mentre lo dice la voce gli si incrina e gli si inumidiscono gli occhi, ma non piange. Lo conosco: è un uomo forte e orgoglioso. Non ama mostrare le proprie debolezze. Ho sempre pensato di non avere nulla in comune con lui, a parte la passione per lo studio. Ma forse gli assomiglio più di quanto credessi.
Sono molto stanco, oltre che indolenzito, e il tranquillante comincia a fare effetto. Tuttavia ho un pensiero fisso che mi tormenta e che mi impedisce di calmarmi del tutto. Un’immagine orribile impressa nella mente da quando la Dottoressa Robinson mi ha chiesto se ricordavo cosa fosse successo sabato sera: il volto pallido e lo sguardo terrorizzato di Bella l’ultima volta che ci siamo visti, prima che lei si mettesse a correre per andare a cercare aiuto. Qualunque cosa accadrà tra di noi in futuro, credo che non dimenticherò mai più i suoi occhi, quello che vi ho letto. In quel momento ho avuto l’assoluta certezza che l’amavo, e che anche lei mi amava. Che eravamo fatti per stare insieme, ma che la vita non ce lo avrebbe permesso. Perché per me era finita. Per sempre.
Invece sono ancora qui. Sono ancora qui è non voglio più tirarmi indietro. Non voglio più rischiare di perdere ciò che amo a causa delle mie sciocche e insensate paure. Non voglio più sprecare neanche un attimo di vita.
“Bella?” chiedo, cercando di tirarmi su. “Come sta, Bella? Sta bene? Lei sta…”
“Sta bene,” mi rassicura mia madre, accarezzandomi la testa. “È stanca, preoccupata… ma sta bene. Sarà felice di sapere che ti sei svegliato.”
“James… James le ha fatto… le ha fatto del male?” chiedo. Non è la domanda che vorrei fare, ma mio padre capisce immediatamente cosa intendo.
“No,” dice, scuotendo la testa con decisione. “James non l’ha toccata, e neppure i suoi amici. Solo…”
Solo ? C’è un solo ? Non voglio che ci sia un solo. “Cosa, papà?” chiedo, agitandomi nel letto. “Cos’è…”
Mio padre non mi lascia finire. “Niente,” si affretta a dire. “Niente, Edward. Bella sta bene.”
Sorride, ma mi sembra a disagio. Poi cambia discorso nel tentativo di distrarmi. E, purtroppo, ci riesce. Sono stanco e manco ancora di concentrazione. “Isabella è venuta a trovarti tutti i giorni, sai?” confessa.
“Tutti i giorni?”
“Sì,” annuisce mia madre, dandogli manforte. “Tutti i giorni.”
“Anche oggi?”
“Certo, Edward,” mi conferma. “Se n’è andata da poco, a dire il vero. Mezz’ora. Non di più.”
Non ci credo… Se mi fossi svegliato mezz’ora fa avrei potuto rivedere Bella. Avrei potuto rassicurarla, dirle che sto bene, che non si deve più preoccupare per me, che presto tornerò a casa.
Ho così tanta voglia di rivederla… voglio rivedere i suoi occhi. Ho bisogno di rivederli di nuovo felici e pieni di vita, e non disperati e terrorizzati. Quella è un’immagine che voglio cancellare.
“Potreste… potreste chiamarla? Dirle che sto bene? Che mi sono svegliato?” chiedo. Una parte di me vorrebbe mantenere il segreto, per farle una sorpresa domani quando tornerà di nuovo a trovarmi. Ma non voglio che continui a preoccuparsi e a stare male inutilmente. Voglio che sappia che è finita.
“Certo, Edward,” dice mia madre. “Lo avremmo fatto comunque. Bella ci ha chiesto di tenerla aggiornata. Di avvisarla immediatamente, nel caso in cui ti fossi svegliato.”
“È una ragazza meravigliosa, Edward,” aggiunge mio padre. “Davvero straordinaria. Ci tiene molto a te.”
Sorrido e faccio di sì con la testa. Forse arrossisco. “Lo so,” dico.
Poi i miei genitori iniziano a spiegarmi cosa è successo dopo che sono crollato a terra e ho perso i sensi a causa di tutti i calci e di tutti i pugni inferti da James.
Bella ha raggiunto Jasper, Emmett e Jake, nascosti in mezzo al bosco. Sono tornati indietro per aiutarmi ‒ tutti insieme, anche Bella. James era solo e per i ragazzi non è stato un problema bloccarlo e disarmarlo. Nel frattempo è arrivata la polizia e subito dopo un’ambulanza. Ora James si trova rinchiuso nel carcere minorile di Seattle, in attesa di essere processato. Il test tossicologico a cui l’hanno sottoposto ha dimostrato che ha agito sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
 
Verso l’ora di cena i miei genitori mi salutano con la promessa di tornare a trovarmi l’indomani. Io sono stanchissimo, e quando abbandonano la mia stanza mi addormento all’istante.
 
Il giorno dopo mi sveglio di buon’ora. Sono ancora terribilmente indolenzito, ma gli antidolorifici mi aiutano a stare meglio.
La DottoressaRobinsonè molto soddisfatta del mio decorso, quindi mi scollega sia dall’ossigeno che dai monitor, lasciandomi attaccato solo alla flebo. Dice che sto recuperando velocemente, e ancora una volta si complimenta per la mia tempra molto forte.
All’ora di pranzo riesco persino a mangiare qualcosa ‒ un passato di verdure e un budino al cioccolato ‒ e ad andare in bagno a fare pipì. Da solo. Che meraviglia.
Verso le due arrivano i miei genitori. Per quanto sia felice di vederli, c’è solo una persona che desidero incontrare più di chiunque altro: Bella.
Fortunatamente non devo aspettare a lungo. Solo un altro paio d’ore e, finalmente, lei sarà qui.
Mi vergogno un po’ a farmi vedere così. Il camice copre le ferite e gli ematomi su tutto il corpo, ma la mia faccia è un disastro. Quando mi sono specchiato, stamattina, ho avuto un sussulto. Ho uno squarcio sulla fronte ‒ sette punti di sutura protetti da un cerotto ‒ un occhio nero e tumefatto, un labbro spaccato, ed escoriazioni su entrambe le guance. Davvero non riesco a capire come James non sia riuscito a rompermi anche il naso o la mascella.
Esattamente come avevo chiesto, i miei genitori hanno informato sia Bella che i miei amici del mio risveglio e delle mie condizioni. Jasper e gli altri verranno a trovarmi in serata. Per l’incontro con la polizia, invece, pare che ci sia tempo. Mi hanno concesso un altro paio di giorni, per riprendermi e ricordare meglio.
In realtà ricordo tutto alla perfezione e non ho bisogno di pensarci o di rielaborare. Ogni singolo dettaglio di quella notte terribile è impresso a fuoco nella mia mente. Rivivere quei momenti fa male, però. Molto più di tutte le ferite. Quindi sono felice di non essere costretto a raccontare come sono andate le cose per un altro po’.
 
Sto chiacchierando con i miei genitori del più e del meno quando sento una voce.
“Edward…”
Alzo la testa. Bella è in piedi, ferma poco oltre la soglia della mia camera d’ospedale.
Mio Dio… è così pallida. Ha gli occhi rossi e cerchiati, come se non dormisse da giorni. Un cerotto sulla fronte, vicino all’attaccatura dei capelli, e un piccolo ematoma sullo zigomo sinistro. Ma è lei. È viva, sta bene ed è bellissima.
“Bella…”
“Sei… ti sei risvegliato…” dice in un sussurro, come se avesse paura di disturbarmi. Stringe un bicchiere di caffè in una mano e nell’altra tiene un libro.
“Sì,” confermo. E poi taccio. Ci sono un milione di cose che le vorrei dire, ma non riesco ad aprire bocca. Me ne resto lì, in silenzio, a contemplarla.
“Edward,” interviene mio padre, con enorme tatto. “Io e tua madre scendiamo in cortile a prendere una boccata d’aria. Torniamo più tardi.”
Vogliono lasciarmi solo con Bella, regalarci un po’ di intimità. Sono i genitori migliori del mondo.
Mi danno un bacio sulla fronte, entrambi. Poi escono dalla stanza, non senza aver salutato Bella, prima. Noto una certa dose di confidenza e intimità tra di loro, e non posso che esserne felice.
Quando la porta si richiude, finalmente siamo soli.
“Ciao,” mi dice.
“Ciao,” le dico.
“Ti sei risvegliato.”
“Sì, ieri pomeriggio.”
“Come stai?”
“Tu come stai?”
“Bene.”
“La tua fronte… e la tua guancia… Che ti è successo? È stato James?”
Bella scuote la testa. Se ne resta lì, con il suo caffè e il suo libro, lontana, troppo lontana. Poi, di punto in bianco, gli occhi le si riempiono di lacrime. Lascia cadere a terra sia il libro che il bicchiere di caffè, come se non avesse più la forza per reggerli. Porta la braccia al petto ed emette un gemito ‒ un suono gutturale, profondo e straziante. Un attimo dopo tutto il suo corpo è scosso dai singhiozzi e il suo volto è rigato dalle lacrime.
“Mi dispiace,” continua a ripetere. “Mi dispiace…” Piange disperata, il bel viso  deformato dal dolore.
Io non so che fare. Vederla così mi disorienta e mi spezza il cuore.
“È tutta colpa mia,” dice. “Ti ha quasi ammazzato… ed è tutta colpa mia…”
Colpa sua? Perché? Non è vero… “Bella, che dici? Non è‒”
“Sì, invece!” esclama disperata. “Mi dispiace, Edward… Mi dispiace tanto… io…”
“Bella, sono qui… non piangere…” la imploro. Ma non mi ascolta.
“È stato terribile,” continua. “Eri lì, a terra… non riuscivo neppure a capire se eri ancora vivo… cercavo di fermare il sangue, ma continuava a fluire… credevo che saresti morto tra le mie braccia…”
Oh, mio Dio… Bella mi ha stretto a sé mentre giacevo a terra, esanime. Bella ha tentato di salvarmi la vita. Non riesco a crederci. Non oso neppure immaginare lo strazio che deve aver provato in quel momento.
Se fossi stato al posto suo… se avessi stretto tra le braccia il suo corpo insanguinato e privo di conoscenza… io… io…
Non sopporto più di vederla in queste condizioni. Non sopporto più di vederla piangere e sentirle dire che la colpa di quanto è successo è sua. Mi fa male. Più di tutte le botte che ho preso, più delle ferite che porto.
“Vieni qui,” le dico, allungando una mano nella sua direzione. “Ti prego, Bella, vieni qui.”
Lei si avvicina, ma si ferma di fianco al mio letto, le braccia incrociate, le spalle che sussultano. Piange e non accenna a smettere. Non tenta neppure di asciugarsi le lacrime. Lascia che le sgorghino dagli occhi, che le righino le guancie, fino a raggiungere il mento e poi il collo. Le lascia cadere in piccole gocce salate sulla maglietta che indossa.
“Non piangere, Bella,” la supplico. “Ti prego, non piangere. Non è colpa tua, non è colpa di nessuno…”
Sollevo una mano e le asciugo le lacrime con il pollice. Istintivamente Bella abbandona il viso nel palmo della mia mano e chiude gli occhi. Sembra che questo piccolo contatto le regali un po’ di sollievo, eppure continua a singhiozzare, senza sosta. È come se stesse sfogando tutto il dolore e la paura accumulati in questi giorni in cui sono stato incosciente.
“Vieni qui,” le dico attirandola a me e facendole un po’ di spazio nel mio letto. Muovermi mi risulta difficile, molto difficile. Ma voglio abbracciarla, stringerla a me, proteggerla, in qualche modo. Sono io quello in un letto di ospedale. Sono io ad avere due costole incrinate, ematomi ovunque, e una ferita di coltello sotto il costato. Ma è lei quella che sta male, male sul serio. È lei quella veramente fragile, ora.
“Ti farò male,” singhiozza. “Non posso… non voglio…”
“Bella, ti prego… ti prego… vieni qui…” Lei ha bisogno di me, ma anch’io ho bisogno di lei. Tanto.
Bella si accoccola al mio fianco con estrema delicatezza. Io la cingo con un braccio e lascio che appoggi la testa sulla mia spalla. È così minuta… non me ne ero mai reso veramente conto.
“Shhh…” le sussurro, dandole piccoli baci sulla fronte e accarezzandole i capelli. “Shhh… va tutto bene. Sono qui… sono qui e sto bene. Non piangere, Bella… per favore, non piangere…”
Per quanto sia minuta, il peso del suo corpo addosso mi provoca piccole fitte di dolore. Eppure non sono mai stato meglio in tutta la mia vita. Bella è qui, tra le mie braccia. La stringo a me, l’accarezzo, le bacio la fronte. E non ho paura. Non mi sento inadeguato e non voglio scappare. Sono esattamente dove vorrei essere. Con la ragazza che amo.
 
Lascio che Bella si sfoghi, perché ne ha bisogno, è evidente. Non so quanto tempo passa. Cinque minuti, dieci, venti, un’ora.
Quando finalmente si è calmata cerco di capire cosa le è capitato.
“Ti sei ferita,” osservo, dandole un piccolo bacio sulla fronte, proprio sul cerotto. “Com’è successo?”
Come temevo Bella si irrigidisce e inizia a stringere tra le dita un lembo di tessuto del mio camice. “Non è niente…” dice. Ma non le credo. Non vuole che mi spaventi o che mi agiti, è chiaro. Ma io ho bisogno di conoscere la verità.
“È stato James?” le chiedo. Non so perché insisto. È evidente che Bella non vuole parlarne, ma quel discorso interrotto di mio padre mi ronza ancora nelle orecchie e voglio sapere.
“No,” risponde. “Non è stato James.”
“Uno dei suoi amici?”
Bella annuisce. “Ha cercato di…” Bella ha un attimo di esitazione. “… toccarmi.”
La confessione di Bella mi provoca un sussulto e una fitta lancinante al costato. “Di… di toccarti?” ripeto a denti stretti, cercando di calmare il dolore, non solo fisico.
Lei si solleva un poco, in modo da potermi guardare negli occhi, e mi accarezza il viso. “Non è successo niente,” si affretta a tranquillizzarmi. “Ci ha provato, ha allungato una mano, ma non è successo niente. Gli ho dato una testata.”
“Una testata?!” Tipico di Bella. Non è una che si lascia mettere i piedi in testa. È fenomenale.
“Sì, è così che mi sono ferita.”
“E l’ematoma sullo zigomo?”
Bella torna ad appoggiare la testa sulla mia spalla.
“Quel bastardo mi ha dato uno schiaffo,” borbotta.
Sto per avere un altro attacco di bile, ma Bella mi stupisce nuovamente. “Io gli ho dato un calcio nelle palle, però,” sghignazza. “Dovevi vederlo.” Solleva di nuovo la testa e mi guarda sorridendo, quasi divertita. “Boccheggiava, piangeva come una femminuccia, e tutti i suoi amici ridevano di lui, e James si è…”
Poi non so cosa mi prende. Forse sono i farmaci, forse sono ancora sotto shock.  Ma Bella è qui, tra le mie braccia, il suo volto è vicinissimo al mio. Gli occhi le brillano, profuma di buono, ed è bellissima.
Non la lascio neppure finire di raccontare la sua storia.
“Ti amo, Bella,” le dico tutto d’un fiato.
Il suo corpo è scosso da un fremito. Spalanca gli occhi e schiude impercettibilmente le labbra. Sembra quasi che abbia smesso di respirare.
Forse ho sbagliato a dirle che la amo, ma non mi importa. Sabato sera sono quasi morto pensando che non avrei mai più avuto l’opportunità di confessarle ciò che provo per lei. Invece sono ancora vivo e lei è qui, sdraiata al mio fianco. Che senso ha aspettare?
“Ti amo,” le dico di nuovo, prendendole la mano e intrecciando le mie dita alle sue. “Grazie per essere diventata mia amica. Grazie per avermi difeso da James e dai suoi amici. Grazie per aver visto in me cose che neppure io sapevo vedere. Grazie per aver reso la mia vita meravigliosa. Sei straordinaria, Bella. E io ti amo.”
Adoro il suono delle parole che escono dalla mia bocca. E adoro le sensazioni che mi provocano. Sono un fiume in piena, quasi non riesco a smettere.
“Non c’è bisogno che tu dica nulla,” la rassicuro, visto che lei mi osserva impietrita, senza aprire bocca. “Volevo solo che tu lo sapessi.”
È incredibile, ho appena confessato a Bella che la amo e non mi sento per nulla a disagio. Al contrario, non sono mai stato meglio in tutta la mia vita. Credo di dover ringraziare antidolorifici e tranquillanti per questo. Sono loro a regalarmi tutto questo coraggio e tutta questa calma, ne sono sicuro.
Bella continua a non parlare, ma il suo sguardo si ammorbidisce, lentamente. Scioglie le nostre dita intrecciate e mi accarezza i viso. Poi i suoi occhi si spostano verso la mia bocca. Prima che io possa rendermi conto delle sue intenzioni, prima che io possa capire cosa sta realmente accadendo, ci stiamo baciando.
È un bacio vero, il nostro, profondo, e le sue labbra sono esattamente come le ricordavo: morbide e al sapore di ciliegia.
Bella si appoggia a me e so che dovrei provare dolore ‒ ho pur sempre due costole incrinate, una ferita di coltello nello stomaco, ed ematomi sparsi un po’ ovunque ‒ ma non lo sento. L’adrenalina cancella tutto. Bacio Bella e, giuro, non vorrei fare altro per il resto dei miei giorni.
“Ahia!” Ok, forse è meglio darsi una calmata.
“Scusa, Edward… scusa… ti ho fatto male?” Bella si stacca da me e comincia ad agitarsi, mortificata.
“No… no, non è niente,” la tranquillizzo.
“Mi sono lasciata trasportare…”
“Bella, non è…”
“Forse è meglio che…”
Bella cerca di scendere dal letto, ma io la trattengo. “No, ti prego!” esclamo, forse con troppa foga. “Resta qui con me…”
Le afferro un braccio, e per un attimo mi sento come un bambino.
“Edward…”
“Se vuoi… solo se… se lo vuoi…”
Ti prego, Bella, dimmi di sì. Dimmi che vuoi restare. Dimmi che anche per te questo bacio è stato meraviglioso. Non è necessario che tu mi dica ‘Ti amo’. Dimmi solo che non te ne andrai.
Bella non dice nulla, come poco fa. Ma non mi importa, non mi preoccupo. I suoi occhi parlano per lei.
Torna a sdraiarsi accanto a me con estrema cautela. Torna ad accarezzarmi il viso con immensa dolcezza. La sua espressione si illumina di una luce calda e amorevole. E poi, di nuovo, le sue labbra sono sulle mie.
“Non vedo l’ora che tu stia meglio,” mi sussurra tra un piccolo bacio e un altro. “Non vedo l’ora che tu sia fuori di qui…” Mi sfiora le labbra, mentre parla. Le appoggia delicatamente alle mie, ci gioca. È la cosa più sensuale che le abbia mai visto fare. E la sta facendo per me. Solo per me.
Sollevo una mano e l’affondo tra i suoi lunghi e morbidi capelli. “Baciami, Bella,” le chiedo. “Baciami.”
E lei lo fa, ancora ed ancora.
Non sapevo cosa significasse sentirsi desiderato.
Ora lo so. E sono felice.

   
 
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