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Autore: Queen of Superficial    09/09/2011    8 recensioni
Due pseudogroupies incasinate con le stanze da letto che comunicano tramite un palo dei pompieri. Un non più giovane frontman di una band nel pericoloso olimpo degli dei del rock. Una ragazza innamorata di un'idea, di un artigiano di sogni inconfessabili che poco ha a che fare con l'uomo reale. Una serie di assurdità in fila per due, con la partecipazione straordinaria di ricordi rock, di band nevrasteniche, di chitarre ipnotiche, di fatti di vita non vissuta ma senz'altro vivibile. Così, senza ipocrisia, in una spirale di violente emozioni sulle note di una Manson che creano un'improbabile, tenera, storia d'amore. La storia, tirata a lucido, di qualunque di voi.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ai miei cari fantasmi:
questa volta indovinerò,
statene certi.

 

Vorrei ci soffermassimo un attimo sulla vita dei cavallucci marini.” disse Fleur, sbattendo la porta della sua vecchia Cadillac quando andai a prenderlo nel parcheggio stampa dell'Idroscalo.
Alzai gli occhi al cielo, e lui si sistemò il monocolo e si lisciò la polo bordeaux, già priva a monte di qualunque piega.
“Dov'è il bodyguard?”
“Se stai parlando Jimmy, non lo so.”
Infilò una sigaretta bianca nel bocchino d'avorio, camminandomi di fianco a passi leggeri.
“Ti dicevo, i cavallucci marini.”
“Sì.”
“Il cavalluccio è una specie che di solito passa piuttosto inosservata al mondo tutto, subacqueo e terrestre. Più che altro, una volta essiccato può essere carino come catturapolvere.”
Sorpassammo un portone metallico dall'aspetto carcerario e ci immettemmo in un lungo corridoio.
“Arriva al punto, Fleur.”
“Dunque, il cavalluccio marino è pieno di sé. Vaga impettito e solitario tra i coralli e le mangrovie, con la bocca a culo di gallina. Gli interessano solo i suoi pensieri, bada esclusivamente agli affari che lo riguardano, perfino la sua riproduzione è singolare. Partorisce il maschio. Espelle mini-cavallucci a raffica dalla pancia. Questo per sottolineare che deve fare tutto lui perchè lui solo sa, e lui solo capisce.”
Sorrisi, sbilenca. “Mi ricorda qualcuno.”
Un lampo di luce si riflesse sul monocolo del mio amico, precipitandoci in un'atmosfera da puntata dell'Ispettore Barnaby.
“Appunto, Ria. Appunto. Lui è un cavalluccio marino. Tu, invece, sei una medusa.”
“Sono una...?”
“Medusa. Sognante e vagabonda, con quei tentacoli iridescenti così affascinanti: potenzialmente innocua e bella da guardare, se la accarezzi dolcemente sulla cupola. Col cuore nella testa, un tutt'uno col cervello. Eppure, velenosissima, se presa dal lato sbagliato.”
Un altro corridoio, ancora più stretto del precedente.
“E questa efficace metafora ittica dove ci porta?”
“Tu sei una medusa, Ria, e lui è un cavalluccio marino. Capisci da te che medusa e cavalluccio non hanno molto da dirsi, nella loro carriera pescifera.”
Avevo afferrato il concetto. Le meduse, comunque, sono mortali tempeste elettriche; i cavallucci marini, per quanto siano indiscutibilmente dei pomposi rompicoglioni, no. E quindi, per non ucciderlo, una medusa perbene si sarebbe allontanata. Ma io frequentavo i Sevenfold, ed è cosa risaputa che le meduse perbene non se la fanno coi satanisti.
“Scusa, Ria, dove stiamo andando? Non mi sembra che ci siano palchi, qui intorno.”
Non risposi, stirando invece un sorriso gioviale all'indirizzo di una signora in divisa con un cartellino che le pendeva dal collo a mo' di cappio.
“Mi scusi, sto cercando un amico, ha detto che veniva qui alle piscine...”
La signora, senza rifletterci un attimo, rispose: “Il cerebroleso pieno di tatuaggi che voleva fare i 500 metri a farfalla?”
Chiusi gli occhi.
Quando li riaprii, Synyster, ciabattando verso di noi, si stava faticosamente infilando una maglia. Dalla parte sbagliata.
Gliela tolsi, la raddrizzai e gliela cacciai in testa, mentre alzava le braccia per centrare le maniche.
“Grazie.”
“Nella scala evolutiva dei pesci tu sei senza dubbio una trota, Synyster.”, gli dissi.
Non capì.
“C'è l'ultimo soundcheck tra sette minuti circa, e il chitarrista solista di punto in bianco sparisce.”
Sorridevo, però.
Con l'amaro che mi faceva su e giù per la gola, e troppi giorni che le mie braccia non stringevano la sua schiena inglese.

 

Chissà se mi ritroverai,
se parleremo un po' di noi
come buoni amici.”

 

C'è mio cugino in giro, forse è meglio che tu vada.”
Altrimenti detto vattene, o mio cugino ti spara nelle gambe.
Avevano una rotondità, queste parole, una sonorità così soave e rassicurante, che, lo ammetto, amavo ripeterle. Infatti non avrei mai finito di ringraziare Trè Cool per avermi dato occasione di sventagliargliele davanti, quasi fischiettandole, forte di quella protezione blindata che forniva la presenza di mio cugino nel raggio di 17 chilometri, e dei suoi quattro amici ugualmente guerrafondai dei quali ero la prediletta, anche se Johnny era un po' basso per fare paura davvero.
Con mio cugino in giro, sarei stata capace di commettere serenamente un omicidio senza temere ripercussioni. La sola eventualità che un mio timido vagito l'avrebbe fatto accorrere a tutta velocità dopo aver estratto il crick dal bagagliaio della macchina mi tranquillizzava immensamente. Aveva proprietà lisergiche, Jimmy Sullivan.
Comunque, restava da risolvere il mistero del perchè dovunque fossi io c'erano pure i Green Day.
“Domani siamo headliner.”, rispose alla mia muta domanda Trè, “Cosa gliene frega a tuo cugino se siamo qui a parlare?”
Aprii la bocca, cercando una risposta plausibile.
“Ria, mi hai chiamato?”
No, non lo avevo chiamato. Ma c'era comunque: caratteristica primaria e peculiare di quest'uomo.
“Oh, Jimmy.”, risposi, fingendo sorpresa. Poi aggiunsi, teatralmente, “Toh, mio cugino. Proprio.”
Jimmy mi fissò interdetto.
“Ti senti bene?”
“Ah, è lui tuo cugino?”, proruppe Trè.
“Sì. Vi conoscete?”
“Certo, ci siamo fatti un paio di feste folli insieme. Come stai, Rev? Ci tenevo a salutarti, ero venuto anche a cercarti prima.”
Si abbracciarono rievocando vecchie scenette di tale depravazione da ferire le orecchie, di cui nessuno voleva in realtà sapere niente, finchè si ricordarono che c'ero anche io.
“Ria, non mi hai mai detto che The Rev è tuo cugino!”
“Non ho neanche mai detto a The Rev che sono due anni che ci provi con me.”, sorrisi, benevola.
“Beh, non penso che lui abbia niente in contrario, no?”
Jimmy sorrise. “Non chiedere, Trè, potresti non voler sapere. Scusaci, io devo essere sul palco tra un quarto d'ora.”
Gli trotterellai accanto, traboccando di gratitudine.
“Cos'è questa storia?”, mi chiese.
“Quale storia?”
“Questa di Trè che ci prova con te.”
“Non ci pensare, JJ. Hai visto Bliss?”
“Sì, è già sotto il palco, ti conviene raggiungerla.”
Ci fermammo davanti a un bivio: una porta dava sullo stage, l'altra sullo spazio davanti al palco.
Lo guardai.
“Sei un figo.”
Mi sorrise, mentre gli aggiustavo il nodo della cravatta. Portava solo quella, sul petto nudo, come al solito.
“E un tamarro. Esagerato.”
“Dammi un bacio, piccola.”
Gli gettai le braccia al collo e lo strinsi forte.
“Dici a Zacky di mirare bene quando lancia i plettri, o finisce che mi prende un'altra volta nell'occhio. E dai un bacio a tutti.”
“No, mi rifiuto di baciare Johnny.”
“Fai come vuoi.”
“Ci vediamo dopo.”
“Vai.”
Immaginate due sagome che si allontanano al ralenti verso due porte vicine; i contorni che sfumano, il boato della folla, la luce bianca che si sprigiona dalle porte mentre le aprono.
Immaginate, fin quando potete.
Io ho capito che, spesso, non abbiamo nient'altro che questo selvaggio immaginare.

 

Tell me you love me,
come back and haunt me.”
(Coldplay.)

 

NOBODY SAID IT WAS EASY
NO ONE EVER SAID IT WOULD BE SO HARD.

 

Questa frase di Chris Martin, appuntai mentalmente, dovevo richiederla come incisione sulla lapide alle pompe funebri. Appena finito il concerto.
L'avvento di Matt Shadows sul palco fu salutato da un coro di strilli diluviani, l'avvento di Synyster, invece, come assodata consuetudine, da una pletora di svenimenti. Quattro giovani signorine mi galleggiarono sopra la testa, trasportate da enormi addetti alla sicurezza verso sedie sulle quali infermiere stizzite le avrebbero schiaffeggiate fino a fargli riaffiorare i ricordi della prima infanzia.
Quando apparve Jimmy, facendo vorticare una bacchetta nella mano destra, urlai fortissimo. Non forte quanto una dietro di me, però. Mi voltai. Ci guardammo. Vidi nei suoi occhi una specie di disgusto malcelato svanire quasi subito per far posto alla confusione.
“Ok, Idro. Siamo fottutamente felici di essere qui con voi stasera, e scusate per i problemi che ci sono stati con le date. Ho promesso che, prima di iniziare il concerto, avrei fatto un favore a un amico. Quindi vi chiedo dieci minuti di pazienza, perchè lui ha qualcosa di fottutamente importante da dire.”
Un presentimento mi colpì in testa, ma finsi di non averlo sentito. Mi domandai, invece, quanti altri 'fottutamente' ci volevano per arrivare al punto.
“Sono tutti tuoi, amico.”, aggiunse Shadows, voltandosi verso le quinte.
“PLEASE GIVE IT UP FOR MATTHEW FUCKING BELLAMY!”
Mi girai di scatto verso Bliss.
“Cos'ha detto?”, urlai, “Ho sentito male.”
Fleur ridacchiò. Gli tirai una cinquina su un braccio.
“Voi ne sapevate qualcosa, maledette bietole.”, strillai ancora.
Splinter e Andrea “Ann” O'Malley spuntarono accanto a me, inseguendo il vizio di amici e parenti di materializzarsi dal nulla. Sorridevano, pure loro. Sorridevano tutti. Sembrava la gita di Pasquetta.
Matt spuntò con le braccia al cielo. Lo riconobbero, e applaudirono il suo sorriso sbilenco, la rosa rossa che aveva in mano, il suo abbigliamento insolitamente sobrio, i suoi occhi azzurri. La Glitterati a mo' di zainetto dietro la schiena.
Abbassò gli occhi.
Presto, dov'è la mia espressione più dura. Tu non sei donna da piegare, Ria Montague.
Ma, che volete: io, scioccamente, lo amavo.
Un amore inequivocabile e sintomatico: assi d'acciaio rovente che si piegavano nel mio stomaco, calore alle tempie, lacrime potenziali che bruciavano tra le ciglia, acrobazie della valvola del piloro. Misto di tristezza e gioia che rende inqualificabile qualunque possibile reazione. Come stai, non lo so. Sarei potuta morire, di tanto amore.
Chiese silenzio, abbassando le braccia, e come sempre ottenne ciò che voleva.
Una luce soffusa imprigionò il palco mentre i tasti di un pianoforte solitario suonavano ipnotici, producendo una eco che prese tutti allo stomaco e al cuore: lui chiuse gli occhi, e si appoggiò al microfono a due mani.


Your yellow-gold tinted eyes watching every move I make, and that feeling of doubt, it's erased. I'll never feel alone again with you by my side, you're the one and in you I confide.


La canzone, se vi interessa, si chiamava Warmness on the Soul. L'aveva scritta Shadows in un'altra era, per un altra persona. E il pianoforte, quel maledetto pianoforte, lo suonava, guarda un po', il mio mefistofelico cugino. E mentre le lacrime mi inchiodavano sul posto lui, a occhi chiusi, cantava. E non c'era altro suono, non c'era altra luce.


And we have gone through good and bad times, but your unconditional love was always on my mind... You've been there from the start for me, and your love has always been true as can be. I give my heart to you: I give my heart, cause nothing can compare in this world to you.

 

Sulla “y” di “you”, lentamente prese la chitarra e suonò, ad occhi bassi, chiuso in sé stesso, per una manciata di secondi, fondamentalmente, prima di riprendere a cantare. Ma a me parve un secolo. Nella seconda strofa, vidi Shadows prendere un microfono e fargli da controcanto. Tutto ciò aveva del brutale e dell'incredibile. Vedi tu se le sorti della mia salute dovevano decidersi all'Idroscalo.
Ma la chitarra e il pianoforte suonavano, e quei due cantavano, e il mio cuore si deframmentava come una RAM inceppata.
Quasi mi sfuggì, l'applauso sul finale, perchè le mani gentili di Fiorellino mi voltarono verso il pubblico nel momento in cui dagli spalti in alto si srotolava un enorme striscione e una marea di lanternine prendevano il volo verso il cielo.
Sullo striscione c'era scritto: MARRY ME, RIA MONTAGUE.
Ora. Io ho vissuto una vita intera preda di una serie di preconcetti generati dall'ambiente circostante e dal mio machiavellico, sterminato immaginario: mai, però, sarei arrivata a pensare che Andrea O'Malley si sarebbe presa la briga di prodursi in quell'opera d'arte che era letteralmente caduta in testa alla gente dagli spalti, né che Shadows e soci, che poi sarebbero i miei vecchi amici, sarebbero stati così romantici da dare una mano significativa a Matt nell'ultimo exploit della sua megalomania. Però sorrisi, in mezzo a qualche lacrima d'emozione, perchè in fondo, molto in fondo, sono una donna anche io: e le donne ci rimangono sempre un po' così, davanti a una dichiarazione del genere.
Mi voltai verso l'inafferrabile, inaffidabile, insondabile amore della mia vita, che vantava al suo attivo tutta una serie di aggettivi che iniziavano per “i”. A partire da “improbabile”.
Feci un salto nella quarta dimensione, e riuscii a salire sul palco senza neanche sciuparmi il vestito. Avevo le ballerine, quindi per una volta non avevamo problemi di altezza. Era stato bello, tutto sommato, stare insieme a lui. Bello e pericoloso, come un atterraggio d'emergenza. Presi la rosa che mi porgeva, e non ci dicemmo niente perchè non c'era niente da dire. Un unico respiro di un migliaio di persone si tese, aspettando la mia risposta. I Sevenfold si strinsero tutti da una parte, e incrociai i loro occhi e i loro sorrisi. Quanto lo avevo amato. E quanto avevo dovuto pagare, per averlo amato. Annusai la rosa, e sapeva di pioggia e promesse da marinai.
La mia esitazione profilò a mio cugino un quadro abbastanza chiaro della situazione da indurlo a concertarsi velocemente con i compagni di band: proprio mentre Shadows stava per parlare, lo anticipai e, se permettete, una cosa la dissi io.
“Perchè?”
Matt mi guardò. I Sevenfold mi guardarono. I miei amici, di sotto, mi guardarono. Il pubblico mi guardò. Lucrezia Borgia, se ci fosse stata, mi avrebbe guardata anche lei.
“Perchè te lo meriti.”, proruppe Matt, con uno sguardo paziente e consapevole.
“No, non mi sono spiegata: perchè dovrei sposarti?”
Un respirone di sorpresa generalizzato proveniente della platea praticamente ci assordò.
Matt si mise le mani in tasca, e scoppiò a ridere.
“Perchè ti amo.”
“Grazie, altrettanto. Ma non basta, si è visto.”
Chiacchiericcio concitato tutto intorno a noi.
“Me la vuoi far pagare perchè ti ho tradito?”
Il pubblicò sospirò sorpreso e indignato.
“Perchè ho messo incinta la mia ex?”
Altro sospiro, peggiore del primo.
“Perchè sono stato meschino e incapace?”
“E stronzo. Hai dimenticato stronzo.”
Applauso.
“Ria, ascoltami: ho passato tutta la mia vita a schizzare qui e là come una pallina da flipper e, quel che è peggio, ho totalizzato ben pochi punti. Ho creduto più di una volta di aver capito come andava il mondo, e di poter essere finalmente sereno e tranquillo, ma tu mi hai mostrato che non era così. Tu hai scardinato tutti i miei paralleli e i miei meridiani. Ti ho amata e rifiutata con tutto me stesso. Perchè amarti significava viaggiare su tutt'altro binario rispetto a quello a cui ero abituato, oltre che fare i conti con una testa anche più dura della mia. Ma rifiutarti significava spegnermi come un tamagotchi abbandonato, e tu lo sai che sono un narcisista, non sopporto di farmi del male.”
Ironico, come al solito, il maledetto.
La gente si produsse in un sospiro di tenerezza che, per quanto mi riguarda, poteva anche tenersi.
Annusai di nuovo la rosa. Puzzava di pericolo lontano un miglio.
“Tra mio cugino, la mia adultera migliore amica, i miei amici satanisti, i miei amici sodomiti, insomma i miei amici in generale, mio padre, te e il mio infausto criceto finirò senza dubbio dritta all'inferno.”, dissi.
Alzò le sopracciglia, in attesa.
“Comunque,”, dissi, “in genere mi sono sempre piaciuti i posti caldi.”

 

Sei bella che si balla solo come vuoi tu
non servono parole,
so che lo sai:
le mie parole non servon più.

 

Icontrarvi seduti sopra quel treno,
tutti e quattro avevate vent'anni in meno
come in fondo ad un buco che dà nel tempo.

 

Dire all'uomo che fuma senza parlare
“fuma piano, ti prego”, e poi capire
che il futuro è già stato
e non può tornare.

 

Mi svegliai nel cuore della notte.
Nel letto accanto a me lui dormiva; lo osservai a lungo. La pallida luce della luna filtrava dalla finestra. Saranno state le quattro, forse le quattro e venti.
Mi soffermai sul suo profilo, sulle ciglia scure, sull'eventualità.
Afferrai il telefono e lui rispose al primo squillo, come faceva da tutta una vita.
“Jimmy?”
“Ciao, scarafaggio.”
Trassi un respiro profondo e mi allontanai dal letto cercando di fare meno rumore possibile: uscii sul balcone rotondo che dava sul mare, e mi sedetti sul muretto che faceva da ringhiera, dondolando le gambe nel vuoto, a fumare.
“Cosa ci fai sveglia a quest'ora, Ria?”, mi chiese, mentre in sottofondo si sentiva un gran rumore di chitarre e amplificatori. Stava facendo le prove.
“Cosa ne sai tu che ore sono qui?”
“Sono sempre stato piuttosto bravo in matematica, e lì dovrebbero essere circa le quattro del mattino. Ci sono andato vicino?”
“Vicino.”
Tacemmo per un po'. Sentii che anche lui accendeva una sigaretta.
“Vorrei che fossi qui.”, gli dissi.
“Tre giorni e arrivo, abbi un po' di pazienza. Il day zero si avvicina a grandi passi.”
Si riferiva al mio, di day zero.
Erano passati otto mesi dalla dichiarazione di Matt. Poi era nato il bambino di Dana. E mio padre e Dana si erano lasciati, per una volta, con la verità.
“Hai presente quella canzone di Rihanna?”
Mio cugino sospirò.
“In this California King Bed we're ten thousand miles apart?”
Centro al primo colpo.
“Conosci le canzoni di Rihanna?”
“Generalmente no, ma chissà come mai quando ho sentita questa alla radio ho pensato a te. E ho avuto paura.”
“Sei incredibile. Ti sposerei domani.”
“Sì, ma non ci sposiamo. E io non credo nel matrimonio. E abbiamo lo stesso sangue nelle vene, finisce che esce, non so, un bambino con la sindrome di Dawn.”
“Ma quando mai, i Mayfair si sono sposati tra di loro per generazioni e nessuno è mai nato cerebroleso.”
“Sì, ma quelli sono i libri di Ann Rice. Questa è la realtà.”
“La realtà dici, eh?”, dissi, sorridendo, e lanciando con una schicchera la sigaretta giù dal balcone.
“Cosa fai, non lo inviti?”
Sorrisi di nuovo.
“No, non potrei mai fargli questo. Da una parte se lo meriterebbe pure, oddio, ma dall'altra...”

Silenzio.
“Quindi l'hai invitato?”
“Ma certo.”
“E ha detto che verrà?”
“Verrà.”
“Da solo?”
“No, non credo.”
Sospirai.
“Credi sia stato tutto inutile?”, mi chiese, ma la risposta la conosceva già, era da qualche parte dentro di lui.
No, no. “No. Non sarei mai stata con un uomo meschino ed inutile. Sono stata con un uomo straordinario. E lo straordinario comporta sempre una serie di complicazioni e lasciti scomodi, lo sai.”
“E ora voli via, uccellino.”
“Johnny è ancora tutto intero o gli hai spezzato qualcosa?”
“No, è tutto intero. Piuttosto, lì che si dice?”
Gettai uno sguardo dentro, e lui era lì. Si stava rigirando nel letto, allungava il braccio cercando qualcosa. Me.
“Qui si dorme.”, risposi, scostandomi i capelli da una spalla.
“Ria, sei felice?”
“Oh, Gesù, Jimmy, queste domande cosa le fai a fare? Per capire se sono riuscita a colmare un vuoto incolmabile e tenermi ancorata a un passato ormai polverizzato nella memoria?”
Jimmy sorrise, lo intuii dal sospiro, quel soffio d'aria che gli increspava le labbra. I nostri legami, i nostri difetti di pronuncia, il nostro immaginario singolare. Si nasce in coppia, uno perfettamente uguale all'altro, e io ero felice che quel qualcuno, quell'intero perfetto che mi somigliava in tutto e per tutto nelle cose importanti fosse mio cugino. Ero felice ed onorata di esserci cresciuta insieme, di averlo avuto sempre accanto, ed ero cosciente dell'immensa fortuna che avevo avuto. Molti di noi non trovano mai l'altro, e sono destinati ad essere soli al mondo. Altri lo trovano, troppo presto o troppo tardi. Ma questo non era successo a noi. Nel mio mondo, noi eravamo insieme, e questo era ciò che contava davvero.
I giorni passano, ed erano passati anche i miei, volando su ciuffi di nuvole silenziose o in terrazza a guardare le serie tv storiche senza cuffie acculturando il vicinato sul libertinaggio dei Tudors. Non erano un po' simili a noi, forse, un'enorme famiglia scapestrata con intrighi, misteri, errori, risonanze, amori, fraintendimenti, tatuaggi... Beh, a parte i tatuaggi.
“Jimmy?”
“Piccola.”
“Secondo te noi non somigliamo un po' ai Tudors? A grandi linee, dico.”
Rise, dall'altra parte del telefono e dell'oceano.
“Vai a dormire, è tardi..”
“Sono quasi le cinque del mattino, quindi, direi che è presto, più che tardi.”
“Dipende da come la vedi.”
“Tu come la vedi?”
“La vedo che Johnny mi ha fregato il pad e devo andare a scotennarlo di mazzate. Ti lascio, ci vediamo presto.”
“Mai troppo presto.”
E a quel punto avrei voluto fare un gesto teatrale, tipo lanciare il telefono dal balcone, e sentirmi libera da tutto e legata a niente. Ma io, come Enrico VIII, avevo un po' troppe catene intorno alle mani. Fosse stato lui, però, il cellulare lo avrebbe lanciato. Così, per rabbia. Ma io non ero arrabbiata. Ero solo... arrivata al punto.
Lo so cosa volete sapere... Volete sapere cosa realmente risposi a Matt, quel giorno. Volete sapere se Bliss e Dom hanno finalmente trovato la pace. Volete sapere se mio padre ha trovato una nuova donna, se Lucrezia Borgia è ancora tutta intera, se Chichi cuce ancora quelle stupide coperte multicolore, se Chris e Fiorellino hanno fatto altri dieci figli, la verità.
Matthew Bellamy mi aveva svuotata come un uovo, è questa la verità. Quell'uomo, con una caparbietà elegante, era riuscito a risucchiare da me tutto il buono che potevo dare. La perfidia e il sotterfugio non erano mai stati cosa mia, quindi mi era rimasto, da dare, soltanto un dettaglio: la fantasia. E avevo ripreso a scrivere, a pieno ritmo e come non succedeva da tempo.
Sapevo che era lui, dovunque fosse, a tenere stretta quella piccola sfera luminosa che era tutto il meglio di me, e nessuno sarebbe mai riuscito a rubargliela, a portargliela via, con qualunque mezzo avesse tentato.
Mia madre riposava serena in un letto nella mia memoria, e ogni tanto arrivava un ricordo a rimboccarle le coperte.
La mia incorreggibile, impareggiabile migliore amica sarebbe arrivata l'indomani, con il suo carico di novità, mia sorella e suo marito.
E io... beh. Io sfioravo e risfioravo quel bel vestito bianco appeso in un angolo della stanza, dubbiosa come immagino chiunque a questo mondo davanti a una svolta del genere.
Però, e ne ero sicura, avrei preso la decisione giusta.
Una volta tanto, nella vita, bisogna pur farlo.

 

Questo capitolo, mie dilette, ha una serie di peculiarità. Punto primo, è corto. Punto secondo, è ambiguo. E punto terzo, è il penultimo capitolo della storia.
Vi lascio con tutti questi punti interrogativi ammonticchiati in testa, lo so, ma questa volta dovrete pazientare molto meno. Molto, molto meno. E' una promessa. (Non da marinaio.)
Vi voglio bene, tutte.
Q.





 

   
 
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