Di quell’inverno, Hermione Granger avrebbe per sempre
conservato i colori.
Come il bocciolo di un fiore raro e inaspettato, la vita le
si era schiusa davanti e le era parsa bellissima.
Di quell’inverno, tuttavia, Hermione Granger avrebbe
custodito soprattutto una certezza: il passaggio dall’infanzia all’adolescenza
sarebbe stato il più profondo e indimenticabile dei dolori.
L’essere donna, una condanna del cuore.
***
Dopo la colomba, una rosa.
A fidare nei simboli, la chiave di una promessa tragedia è
già nelle sue mani, perché al candore innocente di un uccellino da nulla,
seguono le spire involute del più pericoloso dei fiori.
La bellezza punge, Hermione, le sussurra il buonsenso; a
quindici anni, nondimeno, puoi anche scegliere d’essere sorda.
Sorda e felice.
Felice e condannata.
Tra le sue dita, la rosa si sgrana e libera un impalpabile
pulviscolo d’argento.
Ti aspetto in riva al lago.
D.M.
La sicurezza con cui Malfoy anticipa ogni sua scelta la
stringe agli angoli di una strategia che non può prevedere, e che dunque le
ricorda la sua fragilità.
Esiste un desiderio, però, che grida più forte dell’istinto
di autoconservazione: è quello che dice dei tuoi anni migliori, del coraggio
disperato con cui pretendi di mordere la vita, anche se quel che ti aspetta è
veleno.
Draco è digitale purpurea, ma saperlo non basta, perché
conoscere non salva mai la vita: al più ti avvia a una fine consapevole.
Hermione accarezza quel che resta della rosa e la nasconde
tra le pagine di un libro che non aprirà fino a sera, perché è una leonessa che
sa rischiare il disturbo di un amore.
È il figlio di Lucius Malfoy, è il compagno di un mago
crudele e pericoloso, ma non le importa più: a contare sono i suoi occhi
trasparenti e quel sorriso strano, che le fa prudere il cuore.
Hermione sorride, perché l’attrazione non si nutre di
metafore barocche, ma d’insulse evidenze: lo stomaco pieno di farfalle, il
grat grat sornione di un pensiero scorretto, un solletico imprevisto alla
radice del naso; l’attrazione è un brivido della pelle nuda, che assecondi senza
un perché, o non gli assegneresti il nome della forza con cui si cercano i poli
di una calamita.
Incerta e disorientata, sa che non potrebbe trovare aggettivo
più adatto a descriversi: ha perso l’Oriente cognito per sostituirlo con un
ragazzo d’argento e luna.
Sono ridicola.
Alle due del pomeriggio, il sole è già basso sull’orizzonte.
I monti che orlano la conca di Hogwarts si allungano come
ombre maligne sui prati cauterizzati dal gelo; l’invadenza dei muschi dà
qualcosa di malarico alle grosse pietre che segnano il percorso sino al lago,
quasi fossero erme lebbrose.
Hermione sbuffa dense nuvolette di vapor d’acqua,
rimboccandosi le cocche della sciarpa per ignorare la tetraggine del panorama,
ma qualcuno la richiama a gran voce.
Benché sia d’indole poco atletica, Neville risale rapido
l’erta degli orti e la raggiunge.
Perfetto: abbiamo un testimone, suggerisce una vocina
maligna nella sua testa. Uno in più uno in meno, è quanto ricorda a se
stessa, perché Miss-so-tutto-io vanta un imponente curriculum anche sul
fronte dei colpi di testa.
“Ciao! Cercavo proprio te.”
Hermione azzarda un sorriso tirato. “A quale proposito? Al
momento non ho bisogno di altri ragguagli in Erbologia, ma…”
Le orecchie di Paciock brillano di un bel rosso fiammante,
mentre il loro proprietario distoglie imbarazzato lo sguardo.
Oh, no. Per favore, non anche…
“Vorresti essere la mia dama per il Ballo del Ceppo?”
Se fossi caduta in un calderone di filtro d’amore, lo
capirei, ma…
Neville la fissa con una speranza tanto genuina nello sguardo
che negarsi le pare una crudeltà.
Almeno ai suoi occhi sei una donna, rallegrati, la
incalza la solita vocina, questa volta con toni che le ricordano
malauguratamente Ron.
“Mi dispiace, ma… La verità è che sono già stata invitata,”
replica con una punta d’imbarazzo.
Paciock incassa il colpo con dignità, senza perdere quel suo
sorriso aperto e buono. “Peccato… Un po’ ci speravo,” le dice. “Anche se
immaginavo che…”
“Ho davvero un cavaliere, Neville. Se non avessi già
dato la mia parola, sarebbe stato un grande piacere, per me, presentarmi al tuo
braccio.”
Ma anche no, borbotta, maligna, la sua coscienza più
nera. E di seguito: speriamo che se la beva.
Hermione sente qualcosa di simile al senso di colpa pungerla,
perché è meschina e liquida la gentilezza onesta di Paciock con parole di
circostanza.
Ha quindici anni, però: alle piccole donne, nessuno può
imporre la perfezione.
“D’accordo… Spero di trovare un’altra dama, allora!”
Neville si congeda con rapido cenno, proseguendo per
Hogwarts. La strada è di nuovo sgombra, come non è invece libera la sua mente.
Draco Draco Draco.
Può mentire a se stessa e dire che no, lo asseconda solo
perché deve; perché è la migliore amica del Bambino Sopravvissuto; perché Malfoy
porta con sé un profumo oscuro, che una strega di rango non ignorerebbe mai.
Può essere onesta, adolescenziale e patetica; può scoprire le
carte – anche quelle che fanno male – e dire che le piace. Punto.
È bello, ma soprattutto possiede il fascino di un’avventura
proibita. Un fascino irresistibile.
“Pensavo che non saresti venuta.”
La aspetta in riva al lago, là dove si sono sfiorati la prima
volta. I fotogrammi di quel giorno le hanno cauterizzato la retina,
condannandola a sogni liquidi, fatti d’ombra e sussurri.
Ricorda tutto, Hermione: il freddo dell’alba, l’erba umida,
la superficie oleosa e ferma del lago; e poi quei capelli fini e lucenti come
fili d’oro, la sua bocca bellissima, gli occhi trasparenti…
“Sul mio conto, pensi di sapere proprio un mucchio di cose,
vero?”
Draco sorride e tanto basta a irritarla.
Non riesce a capire cosa pensa e cosa vuole. Non riesce a
illudersi che voglia proprio lei – no, fin lì non arriva. Non è così ingenua.
“No. Hai avuto questa impressione?”
Hermione apre il libro e la rosa dispiega ancora una volta i
suoi petali. “Sapevi che avrei dato il mio assenso a Krum. Sapevi che avrei
accettato di rivederti.”
“Sono uno scommettitore fortunato.”
Hermione solleva ironica un sopracciglio. La sua è
un’occhiata provocatoria e un bluff pietoso: il cuore scalpita, ma il buonsenso
ha perso le briglie qualche secolo fa.
L’acqua del lago è immobile. Cupa e ferrosa nei toni, brulica
di vite discrete. Di quando in quando una crepa biancastra si apre sulla
superficie oleosa, ma ogni guizzo dura un battito di ciglia, né basta a spezzare
l’imbarazzato silenzio che li avvolge.
“Ora, però… Sono qui,” articola a fatica Hermione. “Forse
dovresti dirmi che intenzioni hai.”
Gli occhi di Draco sono così pallidi da nascondere ogni
emozione – che ne provi anche lui, poi, è tutto da dimostrare.
La scrutano attenti, ghiaccio oltre il grigio chiaro e
vellutato delle iridi.
“Che io partecipi o meno a quella festa, per te non cambierà
nulla. Hai già una dama, mi pare, e parliamo nientemeno che di una Greengrass…”
“L’ha deciso mio padre, non io. Se avessi potuto davvero
scegliere…”
“Non dirlo, perché non è vero.”
La sua voce suona inconsistente. Vorrebbe arrendersi al
calore di una bugia ma quella stupida di Hermione preferisce sempre la verità.
“Cosa?”
“Non avrei preso comunque il suo posto. Non so ballare, non
sono una lady e non sono bella.”
“Non sei una signora, quello no, però…”
Malfoy le accarezza il capo, sfilandole il fermaglio d’osso
cui è demandato l’arduo compito di domare la crespa anarchia dei suoi capelli.
“Tu mi hai salvato la vita. Il minimo che possa fare, è
salvare la tua.”
“Spingendomi tra le braccia di Krum? Hai una percezione
surreale e ottimista delle studentesse di Hogwarts, sai? Perché ti anticipo cosa
accadrà: Hermione Granger apparirà al fianco di uno dei campioni e, nella
migliore delle ipotesi, tutte mi odieranno.”
“Nella peggiore?”
“Non vuoi saperlo.”
Draco le stringe la mano, guidandola sino al cerchio di
pietre ove già una volta hanno bivaccato.
“Per la verità, volevo rubarti a Potter; assicurare una degna
compagna al campione di Durmstrang, è pur sempre un modo di contribuire alla
causa, no?”
Hermione scuote il capo e sospira. “Maschi… Pensate di
sapere tutto, ma, a quanto pare, il vostro spirito di osservazione fa cilecca!”
“Non il mio.”
“Oh, sì, signor Malfoy!”
La provocazione è un piacere sottile, un potere imprevisto.
È di nuovo al sicuro, Hermione: all’incertezza del silenzio,
si è sostituito un motteggio dal sapore tutto adolescenziale.
“Perché non credo d’essere il genere di ragazza che Harry
vorrebbe invitare.”
Draco apre la bocca, ma non dice nulla.
“Non fingere d’essere sorpreso, perché non lo sei. Anzi: non
puoi esserlo. Una come me non ha niente che possa interessare…”
“Invece c’è qualcosa nella tua intelligenza, associato alla
tua completa incapacità d’intuirne l’effetto sugli altri, che ti rende a dir
poco irresistibile.”
Hermione distoglie lo sguardo.
“Astoria è una bambola, tutto qui. È bella da vedere, ma ci
hai mai parlato un quarto di clessidra?”
“È una studentessa di Serpeverde. Se posso, evito.”
Draco sogghigna. “Be’, quello che voglio dire è che sei un
tipo interessante.”
“Cioè quello che di solito si dice alle ragazze non molto
carine per togliersi dall’impaccio di dover inventare un complimento.”
Draco rotea gli occhi, esasperato. “D’accordo, sei brutta.
Preferisci che ti dica questo?”
Hermione sorride: non sa come, ma ha l’impressione di averlo
stretto agli angoli.
Ora è Malfoy a giocare in difesa, succube di una strategia
che gli è sfuggita di mano.
“No. Ci sono bugie che fanno meno male dell’onestà.”
Draco socchiude le palpebre, si sporge su di lei e le sfiora
la fronte con le labbra. “Lasciami essere il tuo Pigmalione. Sarà una notte
indimenticabile.”
***
Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentis
viderat, offensus vitiis, quae plurima menti
femineae natura dedit, sine coniuge caelebs
vivebat thalamique diu consorte carebat.
interea niveum mira feliciter arte
sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci
nulla potest, operisque sui concepit amorem.
virginis est verae facies, quam vivere credas,
et, si non obstet reverentia, velle moveri:
ars adeo latet arte sua. miratur et haurit
pectore Pygmalion simulati corporis ignes.
saepe manus operi temptantes admovet, an sit
corpus an illud ebur, nec adhuc ebur esse fatetur.
oscula dat reddique putat loquiturque tenetque
et credit tactis digitos insidere membris
et metuit, pressos veniat ne livor in artus,
et modo blanditias adhibet, modo grata puellis
munera fert illi conchas teretesque lapillos
et parvas volucres et flores mille colorum
liliaque pictasque pilas et ab arbore lapsas
Heliadum lacrimas; ornat quoque vestibus artus,
dat digitis gemmas, dat longa monilia collo,
aure leves bacae, redimicula pectore pendent:
cuncta decent; nec nuda minus formosa videtur.
conlocat hanc stratis concha Sidonide tinctis
adpellatque tori sociam adclinataque colla
mollibus in plumis, tamquam sensura, reponit.
Festa dies Veneris tota celeberrima Cypro
venerat, et pandis inductae cornibus aurum
conciderant ictae nivea cervice iuvencae,
turaque fumabant, cum munere functus ad aras
constitit et timide « si, di, dare cuncta potestis,
sit coniunx, opto, » non ausus ‘eburnea virgo’
dicere, Pygmalion « similis mea » dixit « eburnae. »
sensit, ut ipsa suis aderat Venus aurea festis,
vota quid illa velint et, amici numinis omen,
flamma ter accensa est apicemque per aera duxit.
ut rediit, simulacra suae petit ille puellae
incumbensque toro dedit oscula: visa tepere est;
admovet os iterum, manibus quoque pectora temptat:
temptatum mollescit ebur positoque rigore
subsidit digitis ceditque, ut Hymettia sole
cera remollescit tractataque pollice multas
flectitur in facies ipsoque fit utilis usu.
dum stupet et dubie gaudet fallique veretur,
rursus amans rursusque manu sua vota retractat.
corpus erat! saliunt temptatae pollice venae.
tum vero Paphius plenissima concipit heros
verba, quibus Veneri grates agat, oraque tandem
ore suo non falsa premit, dataque oscula virgo
sensit et erubuit timidumque ad lumina lumen
attollens pariter cum caelo vidit amantem.
Madama Pince ha l’aspetto di un avvoltoio denutrito, una
frequentazione delle lingue morte pari a quella del professor Rüf, e una
provvidenziale indifferenza ai casi dei vivi: a Hermione è bastato millantare
una ricerca sulla Trasfigurazione nei Classici perché ottenesse una traduzione –
involuta ma passabile – del decimo libro delle Metamorfosi.
Pigmalione, disgustato dai vizi illimitati che la natura ha dato
alla donna, viveva celibe.
A lungo rimase senza sposarsi e senza una compagna che
dividesse il suo letto. Un giorno, tuttavia, con invidiabile arte, scolpì nel
bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza che nessuna donna vivente
sarebbe stata in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.
L’aspetto era di autentica fanciulla e l’avresti detta viva e
in grado di muoversi, se a frenarla non fosse stata la ritrosia: tanta era
l’arte che nell’arte si cela.
Pigmalione ne era incantato e in cuore bruciava di passione
per quel corpo simulato. Sovente passava la mano sulla statua per sentire se
fosse carne o avorio, e non voleva ammettere che fosse solo osso. La baciava e
immaginava d’esserne ricambiato, l’abbracciava e la baciava, convinto quasi che
le sue dita potessero affondare nelle membra che sfiorava e lasciarle un tappeto
di lividi.
Ora la vezzeggiava, ora la copriva di doni graditi alle
fanciulle: conchiglie, pietruzze levigate, piccoli uccelli, fiori di mille
colori, gigli, biglie dipinte e lacrime d’ambra stillate dall’albero delle
Eliadi. Le ornava il corpo di vesti, le infilava brillanti alle dita e al collo
monili preziosi; piccole perle le pendevano dalle orecchie e nastri dal petto.
Tutto le stava bene, ma nuda non pareva per questo meno
bella.
L’adagiava su tappeti tinti con porpora sidonia, la chiamava
‘mia sposa’ e con delicatezza, quasi potesse sentirlo, le faceva posare il capo
su morbidi cuscini.
E venne il giorno consacrato a Venere, festa in tutta Cipro:
le giovenche con le corna fasciate d’oro erano già cadute, il candido collo
trafitto, e sottile fumava l’incenso, quando Pigmalione, deposte le offerte
accanto all’altare, timidamente disse: “O dei, se è vero che tutto potete
concedere, vorrei in moglie” (e non osò dire ‘la fanciulla d’avorio’) “una donna
che sia pari a quella che ho scolpito nell’avorio.”
L’aurea Venere, presente alla festa, colse il significato
profondo di quella preghiera e, in segno di favore, fece per tre volte palpitare
una fiamma.
Tornato a casa, Pigmalione corse a cercare la statua della
sua fanciulla e, chinatosi sul letto, la baciò. Gli parve allora che emanasse
tepore. Accostò di nuovo la bocca a quella di lei e le sfiorò il seno: sotto le
sue dita, l’avorio si ammorbidì e, perduto il suo gelo, cedette duttile alla
pressione, come al sole torna morbida la cera dell’Imetto e, plasmata dal
pollice, si piega in mille forme.
Stupito, felice, ma incerto e timoroso d’ingannarsi, più e
più volte l’innamorato toccò con la mano il suo sogno: era un corpo vero!
Allora il giovane di Pafo rivolse a Venere parole traboccanti
di gioia per ringraziarla, e con le labbra accarezzò labbra che non erano più
finte.
Vide la fanciulla arrossire a quei baci, levando intimidita
gli occhi alla luce; e, con il cielo, ella colse il volto di colui che l’amava
più di ogni altra cosa. (1)
Divora i versi con ansia febbrile, Hermione, chiedendosi se
Draco abbia citato il mito per conoscenza diretta, oppure non abbia rievocato le
lusinghe di un altro – forse proprio quel suo padre astuto, corrotto e
sfuggente.
Parole intrise di suggestioni lontane, per emozioni nuove.
Se raccontasse a sua madre che vestirà di panni di Audrey
Hepburn (2), la prenderebbe per pazza?
Forse sì, ma non importa. Meglio essere pazzi e felici.
Pazzi e ciechi.
“Non vedo l’ora di sapere che faccia farà Ron,” sogghigna
compiaciuta: poi qualcosa attira la sua attenzione.
Accanto allo scaffale dedicato all’Alchimia delle
Trasmutazioni, Florian Von Kessel e Severus Piton s’intrattengono con una
familiarità che non le piace per niente.
Vedi, cretina? Tu pensi alle balze e Harry rischia la pelle,
sibila la solita, fastidiosa vocina.
Hermione si chiede dove sia l’interruttore, quando serve;
soprattutto, perché non possa essere la compagna di un eroe, anziché la paladina
delle cause perse.
***
Caro Sirius,
immagino che Harry ti abbia già scritto almeno dieci volte.
Ron ed io abbiamo mantenuto il segreto, come ci hai chiesto,
tuttavia ti consiglio di trovare una soluzione, perché la mia bocca è sempre
cucita, ma quella di Weasley si allenta con facilità.
Se ti scrivo, in ogni caso, è per questioni ben più serie.
Mentre studiavo in biblioteca, ho visto il professor Piton intrattenersi con
quel mostruoso tedesco di Durmstrang.
Ora: di te mi fido, ma non di Piton – e sai che ho le mie
buone ragioni per dubitare di lui. Tra doppi e tripli giochi, converrai che non
è facile capire chi siano i buoni e chi i cattivi.
Se devo prepararmi al peggio, in ogni caso, preferirei
saperlo per tempo: ho un carnet di ballo complicato e ti assicuro che manca solo
il nome di Chi-Sappiamo.
Eliza Doolittle
“Eliza Doolittle?” grugnisce Buck Bello. “E chi
sarebbe, questa?”
Note: (1) Ovid., Metamorph., X, 243-295. La
traduzione (libera) è mia.
(2) Il mito di Pigmalione è stato riproposto al cinema nella
pellicola My fair Lady (1964), a sua volta adattamento dell’omonimo
musical del 1956 di Alan Jay Lerner e Frederic Loewe, mutuato dall’opera
Pigmalione di George Bernard Shaw. Audrey Hepburn interpreta la fioraia
Eliza Doolittle.