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Autore: Arial    15/09/2011    5 recensioni
Camp Chitaqua ha bisogno di nuove scorte di medicinali, ma la vita nel 2014, si sa, è piena di imprevisti. Rimasti soli, Dean e Cas dovranno affrontare una situazione estrema, che li costringerà a fare i conti con chi sono veramente e con i loro sentimenti.
Genere: Dark, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione
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Una mano stretta intorno al volante, l’altra che descrive lenti cerchi sulla tempia sinistra; le sottili linee che gli incorniciano gli occhi, questi che si socchiudono dolorosamente a ogni tuono; la mascella serrata. Dean è un’insegna vivente del mal di testa, e di come questo possa trasformarti nel peggior compagno di viaggio possibile.

Non che in genere sia così uno spasso, mi dico, con un sospiro, allungandogli delle aspirine.

Soppesa la mia offerta, scettico.

“Semplici aspirine, capo” chiarifico. “Non sprecherei la mia scorta per te.”

“Non ci sono più i pusher di un tempo” mormora, mandandole giù.

La sua voce è strana, fuori tono.

“Continuo io per un po’?”

“Sterrato, pioggia e neopatentato strafatto non sono una buona combinazione, Cas.”

Sempre meglio di un coglione in piedi per scommessa.

“Come preferisci, non disturbarti a svegliarmi dopo lo schianto” concludo, affondando nel sedile...

L’auto inchioda di colpo. Vengo proiettato in avanti, ma Dean è pronto ad aiutarmi. Un incontro con un braccio duro come una sbarra di ferro e torno seduto. Dovrei ringraziarlo, suppongo, nonostante le proteste del mio sterno.

“Abbiamo poi preso quell’albero, immagino” osservo, massaggiandomi il petto.

Dean mi riserva uno sguardo omicida. “No, questa bagnarola ha deciso di tirare le cuoia, semplicemente. Faceva le bizze da venti chilometri, ormai.”

“Potevi chiamarmi.”

“Hai ragione, dimenticavo il meccanico celato sotto la puzzolente scorza di patchouli” commenta, lasciando l’abitacolo.

Rientra venti minuti più tardi, bagnato fradicio.

“Allora?”

“Mi ci vorranno ore, e un salvagente. Ci toccherà accamparci a Bosco Atro, augurandoci di non ricevere hobbit.”

Di tanto in tanto, ho ancora difficoltà nel decifrare le sue parole. Non questa volta. Seratina all’aperto.

Be’, poco male. I croats non si spingono mai così lontano dai centri abitati, inoltre la foresta ci assicurerà un buon riparo. Poteva andarci peggio. Decisamente peggio.

“Mi offro volontario per il primo turno di guardia, signore.”

Dean fa un mezzo sorriso al mio tono militaresco, poi torna serio. “Turno di guardia? Alle sei del pomeriggio?” chiede.

“Ti proporrei una partita a strip poker, ma ho lasciato il mio mazzo di carte al campo. E mi seccherebbe lasciarti in mutande, con questo tempo.”

“Cas…”

“Andiamo, Dean, c’è poco che tu possa fare con una tempesta in corso.”

E sei esausto, lo sappiamo entrambi.

“Non appena…” incomincia, tetro.

“…spiove sarai il primo a saperlo, promesso.”

Finalmente, si abbandona contro il sedile e nel giro di pochi minuti è profondamente addormentato.

“Idiota” sussurro, combattendo l’impulso di sfiorargli il viso. Tengo ancora alle mie dita, grazie.

Mi concentro sulla strada, incantato dai rigagnoli d’acqua che scivolano ai lati della carreggiata e dal tamburellare della pioggia sul parabrezza. Una fitta di nostalgia per quando ancora sentivo la vita fluire in ogni singola creatura. Come sempre, è il suo respiro al mio fianco a rimettere tutto in prospettiva e a ricordarmi che forse ne è valsa la pena. Già, forse...

“Dean.”

Le sue palpebre tremolano un paio di volte, per poi sollevarsi. “Cas?” domanda, una vulnerabilità tutta nuova nella voce. Una manciata di secondi e la sua maschera è di nuovo in posizione. “È spiovuto?”

“Sì.”

Si mette a sedere, e il mio giubbino gli scivola di dosso.

“Non sopportavo più la tua faccia da culo” dico, togliendolo d’imbarazzo.

Annuisce e torna al suo motore.

Lo raggiungo subito dopo, le gambe indolenzite. Le sgranchisco rumorosamente e sulle labbra gli si disegna una smorfia di solidarietà. Dopotutto, chi più di lui è abituato a interminabili ore di viaggio?

“Ne avrò per parecchio, Cas. Puoi tornare in auto oppure esplorare i dintorni alla ricerca di Bigfoot. Resta a distanza di grido, comunque.”

Ecco, indispensabile ancora.

“Preparerò un bivacco, se a te va bene. Lo scatolame è meglio cotto.”

“Certo. Tieni il fumo al minimo però.”

Lo lascio al suo lavoro.

Torno qualche ora più tardi. È ancora chino sul cofano; le spalle quasi del tutto scomparse dentro di esso, una torcia fra i denti.

“Ancora restio a farti aiutare?”

Sobbalza, le mani in un attimo alla pistola. Quando si volta è però costretto ad appoggiarsi alla carrozzeria.

Vertigini?

“Cazzo, non farlo mai più” sibila.

“Scusa” replico, in automatico. “La macchina?”

“Fa la preziosa. La mia piccola non ha mai fatto di simili scherzi” aggiunge, con affetto. Come se non l’avesse distrutta lui stesso.

Era accaduto subito dopo Detroit. Non ricordo chi avesse avuto le palle di dargli la notizia, solo la sua reazione. Aveva lasciato la stanza, e l’avevo seguito. Al fiume, aveva raccolto una dozzina di grosse pietre. Si era messo di fronte all’Impala, disponendole meticolosamente ai suoi piedi. Fino al primo lancio non avevo creduto possibile che lo facesse davvero, poi aveva cominciato. Ogni colpo inferto a quella dannata ferraglia era stato un colpo a suo fratello, alla sua casa, alla sua famiglia. E a se stesso. Era andato avanti per un’eternità, arrendendosi solo quando le sue braccia si erano date per vinte. A quel punto si era lasciato cadere a terra, e io l’avevo abbandonato, sicuro che in qualche modo avesse affrontato la cosa.

“Capito. Pensiamo allo stomaco, adesso. Riprenderai più tardi.”

Meglio domani.

“D’accordo, Cassandra” acconsente.

Cassandra? Questa mi è nuova.

Mi fa segno di fargli strada, e mi incammino.

La sua zoppia è peggiorata.

“La gamba?” domando, pur conoscendo già la risposta.

“È a posto.”

Come volevasi dimostrare. Dean probabilmente pensa che House giri col bastone per sembrare più affascinante.

Prende posto accanto al fuoco. Le fiamme che crepitano l’assorbono così tanto che devo chiamarlo più volte, prima di attrarre la sua attenzione.

Afferra distrattamente il piatto che gli porgo, gli occhi distanti.

“Salsicce e fagioli, manca solo l’erba mobile” commenta, assorto.

Rispondo con uno sbuffo, ricordando le interminabili maratone western a cui mi ha sottoposto nei primi mesi della nostra convivenza. Scuote la testa e accenna un sorriso, probabilmente ripensando alla stessa cosa.

Giochicchia col cibo, ma ne porta ben poco alla bocca.

“Sono ancora un cuoco così scarso, eh?”

“C’è sempre il rancio del carcere.”

Mi restituisce la cena, senza altre parole. Mando giù qualche boccone e mi accomodo accanto a lui, una birra in grembo. Quando accetta quella che gli offro, le nostre mani si sfiorano. Le sue sono gelide.

Avvolge le lunghe dita attorno al collo della bottiglia e la porta alle labbra, sovrappensiero. L’osservo deglutire. Una goccia di iridata condensa scivola lungo il vetro fino alla sua pelle, dove viene accolta da un timido brivido. Gli schioppi e gli strepiti del legno che arde l’unico rumore.

Le nostre ginocchia quasi si toccano, eppure non l’ho mai sentito tanto lontano. Sei rimasto in quel supermercato, Dean? Se non fossi tornato, ti saresti lasciato ammazzare?

Gli stringo la gamba, e i suoi occhi incontrano i miei.

“Vuoi dirmi che ti è preso lì dentro?”

Scuote la testa, con un sorriso. “E dire che pensavo avresti propinato anche a me la puttanata della percezione collettiva, Cas” mormora, avvicinandosi.

“Dean…”

Mi serra le labbra, coprendole con le sue. Resto immobile, completamente senza fiato. Dean immerge le dita fra i miei capelli, ancorandomi al suo corpo in fiamme. Alle insistenze della sua lingua, dischiudo la bocca, lasciando che l’esplori in affondi pigri e delicati. Il suo sapore mi pervade; birra e qualcos’altro, qualcosa di più dolce e intenso, dal retrogusto un po’ amaro.

Questo è Dean, la sua essenza, considero, in un ultimo sprazzo di razionalità. Poi il mio cervello fa corto e devo abbandonarmi alla sua guida.

Sento la sua mano sul collo, e porto la mia al suo viso. Brucia, di febbre.

Quando mi spinge sul terreno ancora umido di pioggia, sono tentato di lasciarlo proseguire. Che differenza ci sarebbe con tutte le donne che si porta a letto, troppo sbronzo persino per tenersi in piedi? Di loro gli importa forse qualcosa?

Lo respingo, deciso.

La verità è che importa a me. Potrei anche accettare di stare con lui, pur sapendo che il suo cuore non mi apparterrà mai, ma voglio che sia cosciente di quanto accada. Non sopporterei il rimpianto o l’indifferenza nei suoi occhi, dopo.

Mi scruta qualche istante, confuso; dopodiché il suo sguardo cambia. “Suppongo di essere finito troppo in basso persino per te” sussurra, rialzandosi. “Oppure non ti accontenti più di una sola persona per volta.”

“Dean, aspetta.”

Tutto inutile. Mi volta le spalle e scompare nella foresta.

 

Note: Ed eccoci al secondo capitolo. Non ho niente di illuminante da dire, storia contemporanea mi ha fuso il cervello. Ringrazio ancora tutte per i commenti, comunque, e vi propongo un giochino. Una frase all’interno del capitolo non è mia, ma della Secchina/beta di cui vi ho parlato. La prima di voi a capire qual è vincerà… niente :P

Mmh… forse così non vi invoglio a partecipare però. Facciamo così, scriverò una fic a scelta della vincitrice. In bocca al lupo! ^^

*Coro delle lettrici: “a noi fotte una mazza di te, della frase e della fic!” XD*

   
 
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