Una mano stretta
intorno al volante, l’altra che descrive lenti cerchi sulla tempia sinistra; le
sottili linee che gli incorniciano gli occhi, questi che si socchiudono
dolorosamente a ogni tuono; la mascella serrata. Dean è un’insegna vivente del
mal di testa, e di come questo possa trasformarti nel peggior compagno di
viaggio possibile.
Non che in
genere sia così uno spasso, mi dico, con un sospiro, allungandogli delle
aspirine.
Soppesa la mia
offerta, scettico.
“Semplici aspirine,
capo” chiarifico. “Non sprecherei la mia scorta per te.”
“Non ci sono più
i pusher di un tempo” mormora, mandandole giù.
La sua voce è
strana, fuori tono.
“Continuo io per
un po’?”
“Sterrato,
pioggia e neopatentato strafatto non sono una buona combinazione, Cas.”
Sempre meglio di
un coglione in piedi per scommessa.
“Come
preferisci, non disturbarti a svegliarmi dopo lo schianto” concludo, affondando
nel sedile...
L’auto inchioda
di colpo. Vengo proiettato in avanti, ma Dean è pronto ad aiutarmi. Un incontro
con un braccio duro come una sbarra di ferro e torno seduto. Dovrei
ringraziarlo, suppongo, nonostante le proteste del mio sterno.
“Abbiamo poi
preso quell’albero, immagino” osservo, massaggiandomi il petto.
Dean mi riserva
uno sguardo omicida. “No, questa bagnarola ha deciso di tirare le cuoia,
semplicemente. Faceva le bizze da venti chilometri, ormai.”
“Potevi
chiamarmi.”
“Hai ragione,
dimenticavo il meccanico celato sotto la puzzolente scorza di patchouli”
commenta, lasciando l’abitacolo.
Rientra venti
minuti più tardi, bagnato fradicio.
“Allora?”
“Mi ci vorranno
ore, e un salvagente. Ci toccherà accamparci a Bosco Atro, augurandoci di non
ricevere hobbit.”
Di tanto in
tanto, ho ancora difficoltà nel decifrare le sue parole. Non questa volta. Seratina
all’aperto.
Be’, poco male.
I croats non si spingono mai così lontano dai centri abitati, inoltre la
foresta ci assicurerà un buon riparo. Poteva andarci peggio. Decisamente
peggio.
“Mi offro
volontario per il primo turno di guardia, signore.”
Dean fa un mezzo
sorriso al mio tono militaresco, poi torna serio. “Turno di guardia? Alle sei
del pomeriggio?” chiede.
“Ti proporrei
una partita a strip poker, ma ho lasciato il mio mazzo di carte al campo. E mi
seccherebbe lasciarti in mutande, con questo tempo.”
“Cas…”
“Andiamo, Dean,
c’è poco che tu possa fare con una tempesta in corso.”
E sei esausto,
lo sappiamo entrambi.
“Non appena…”
incomincia, tetro.
“…spiove sarai
il primo a saperlo, promesso.”
Finalmente, si
abbandona contro il sedile e nel giro di pochi minuti è profondamente
addormentato.
“Idiota”
sussurro, combattendo l’impulso di sfiorargli il viso. Tengo ancora alle mie
dita, grazie.
Mi concentro
sulla strada, incantato dai rigagnoli d’acqua che scivolano ai lati della carreggiata
e dal tamburellare della pioggia sul parabrezza. Una fitta di nostalgia per
quando ancora sentivo la vita fluire in ogni singola creatura. Come sempre, è
il suo respiro al mio fianco a rimettere tutto in prospettiva e a ricordarmi
che forse ne è valsa la pena. Già, forse...
“Dean.”
Le sue palpebre
tremolano un paio di volte, per poi sollevarsi. “Cas?” domanda, una
vulnerabilità tutta nuova nella voce. Una manciata di secondi e la sua maschera
è di nuovo in posizione. “È spiovuto?”
“Sì.”
Si mette a
sedere, e il mio giubbino gli scivola di dosso.
“Non sopportavo
più la tua faccia da culo” dico, togliendolo d’imbarazzo.
Annuisce e torna
al suo motore.
Lo raggiungo
subito dopo, le gambe indolenzite. Le sgranchisco rumorosamente e sulle labbra
gli si disegna una smorfia di solidarietà. Dopotutto, chi più di lui è abituato
a interminabili ore di viaggio?
“Ne avrò per
parecchio, Cas. Puoi tornare in auto oppure esplorare i dintorni alla ricerca
di Bigfoot. Resta a distanza di grido, comunque.”
Ecco, indispensabile
ancora.
“Preparerò un
bivacco, se a te va bene. Lo scatolame è meglio cotto.”
“Certo. Tieni il
fumo al minimo però.”
Lo lascio al suo
lavoro.
Torno qualche
ora più tardi. È ancora chino sul cofano; le spalle quasi del tutto scomparse
dentro di esso, una torcia fra i denti.
“Ancora restio a
farti aiutare?”
Sobbalza, le
mani in un attimo alla pistola. Quando si volta è però costretto ad appoggiarsi
alla carrozzeria.
Vertigini?
“Cazzo, non
farlo mai più” sibila.
“Scusa” replico,
in automatico. “La macchina?”
“Fa la preziosa.
La mia piccola non ha mai fatto di simili scherzi” aggiunge, con affetto. Come
se non l’avesse distrutta lui stesso.
Era accaduto
subito dopo Detroit. Non ricordo chi avesse avuto le palle di dargli la
notizia, solo la sua reazione. Aveva lasciato la stanza, e l’avevo seguito. Al
fiume, aveva raccolto una dozzina di grosse pietre. Si era messo di fronte
all’Impala, disponendole meticolosamente ai suoi piedi. Fino al primo lancio
non avevo creduto possibile che lo facesse davvero, poi aveva cominciato. Ogni
colpo inferto a quella dannata ferraglia era stato un colpo a suo fratello,
alla sua casa, alla sua famiglia. E a se stesso. Era andato avanti per
un’eternità, arrendendosi solo quando le sue braccia si erano date per vinte. A
quel punto si era lasciato cadere a terra, e io l’avevo abbandonato, sicuro che
in qualche modo avesse affrontato la cosa.
“Capito.
Pensiamo allo stomaco, adesso. Riprenderai più tardi.”
Meglio domani.
“D’accordo,
Cassandra” acconsente.
Cassandra?
Questa mi è nuova.
Mi fa segno di
fargli strada, e mi incammino.
La sua zoppia è
peggiorata.
“La gamba?”
domando, pur conoscendo già la risposta.
“È a posto.”
Come volevasi
dimostrare. Dean probabilmente pensa che House giri col bastone per sembrare più
affascinante.
Prende posto
accanto al fuoco. Le fiamme che crepitano l’assorbono così tanto che devo
chiamarlo più volte, prima di attrarre la sua attenzione.
Afferra
distrattamente il piatto che gli porgo, gli occhi distanti.
“Salsicce e
fagioli, manca solo l’erba mobile” commenta, assorto.
Rispondo con uno
sbuffo, ricordando le interminabili maratone western a cui mi ha sottoposto nei
primi mesi della nostra convivenza. Scuote la testa e accenna un sorriso,
probabilmente ripensando alla stessa cosa.
Giochicchia col
cibo, ma ne porta ben poco alla bocca.
“Sono ancora un
cuoco così scarso, eh?”
“C’è sempre il
rancio del carcere.”
Mi restituisce
la cena, senza altre parole. Mando giù qualche boccone e mi accomodo accanto a
lui, una birra in grembo. Quando accetta quella che gli offro, le nostre mani
si sfiorano. Le sue sono gelide.
Avvolge le
lunghe dita attorno al collo della bottiglia e la porta alle labbra,
sovrappensiero. L’osservo deglutire. Una goccia di iridata condensa scivola
lungo il vetro fino alla sua pelle, dove viene accolta da un timido brivido.
Gli schioppi e gli strepiti del legno che arde l’unico rumore.
Le nostre
ginocchia quasi si toccano, eppure non l’ho mai sentito tanto lontano. Sei
rimasto in quel supermercato, Dean? Se non fossi tornato, ti saresti lasciato
ammazzare?
Gli stringo la
gamba, e i suoi occhi incontrano i miei.
“Vuoi dirmi che
ti è preso lì dentro?”
Scuote la testa,
con un sorriso. “E dire che pensavo avresti propinato anche a me la puttanata
della percezione collettiva, Cas” mormora, avvicinandosi.
“Dean…”
Mi serra le
labbra, coprendole con le sue. Resto immobile, completamente senza fiato. Dean
immerge le dita fra i miei capelli, ancorandomi al suo corpo in fiamme. Alle
insistenze della sua lingua, dischiudo la bocca, lasciando che l’esplori in
affondi pigri e delicati. Il suo sapore mi pervade; birra e qualcos’altro,
qualcosa di più dolce e intenso, dal retrogusto un po’ amaro.
Questo è Dean,
la sua essenza, considero, in un ultimo sprazzo di razionalità. Poi il mio cervello
fa corto e devo abbandonarmi alla sua guida.
Sento la sua
mano sul collo, e porto la mia al suo viso. Brucia, di febbre.
Quando mi spinge
sul terreno ancora umido di pioggia, sono tentato di lasciarlo proseguire. Che
differenza ci sarebbe con tutte le donne che si porta a letto, troppo sbronzo
persino per tenersi in piedi? Di loro gli importa forse qualcosa?
Lo respingo,
deciso.
La verità è che
importa a me. Potrei anche accettare di stare con lui, pur sapendo che il suo
cuore non mi apparterrà mai, ma voglio che sia cosciente di quanto accada. Non
sopporterei il rimpianto o l’indifferenza nei suoi occhi, dopo.
Mi scruta
qualche istante, confuso; dopodiché il suo sguardo cambia. “Suppongo di essere
finito troppo in basso persino per te” sussurra, rialzandosi. “Oppure non ti
accontenti più di una sola persona per volta.”
“Dean, aspetta.”
Tutto inutile.
Mi volta le spalle e scompare nella foresta.
Note: Ed
eccoci al secondo capitolo. Non ho niente di illuminante da dire, storia
contemporanea mi ha fuso il cervello. Ringrazio ancora tutte per i commenti,
comunque, e vi propongo un giochino. Una frase all’interno del capitolo non è
mia, ma della Secchina/beta di cui
vi ho parlato. La prima di voi a capire qual è vincerà… niente :P
Mmh… forse così
non vi invoglio a partecipare però. Facciamo così, scriverò una fic a scelta della vincitrice. In bocca al lupo! ^^
*Coro delle
lettrici: “a noi fotte una mazza di te, della frase e della fic!”
XD*