Allo scadere del tempo
Ma sarà troppo tardi;
ed io me ne andrò
zitto… con il mio segreto.
Fra giusto e
sbagliato il confine è labile.
Mi sono sempre
considerato una persona a modo. Una persona capace di riconoscere quel confine.
Credevo di non essere in grado di superarlo, eppure, ancora oggi, non
saprei dire con certezza se l’ho fatto oppure no. E’ una linea
sottile, quel maledetto confine; non si trova sempre nello stesso punto:
cambia, di tanto in tanto, lasciandoti intravedere un margine diverso. Non è
possibile dire con certezza se una cosa è bene o male: ci sarà sempre il dubbio
di essersi sbagliati, di aver dato un giudizio sbagliato.
I rimorsi rimangono: tornano ad assalirmi alle volte, prepotenti.
Penetranti come il profumo dei gigli.
Difficilmente però, potendo tornare indietro, mi comporterei
diversamente da come feci.
- Sicura che ti piaccia? -
Serena sorrise con aria
condiscendente, trattenendo a stento un sospiro prima di rispondermi pacata:
- L’ho già detto e lo ripeto
– mormorò – Non abbiamo altra scelta, Paolo -
Mi oscurai in volto, pronto a
tornare indietro, quando lei aggiunse:
- E poi mi piace: è carino;
particolare, diciamo così -
Sorrisi a mia volta, stringendole
la mano e aprendo il portone in legno.
Aveva ragione lei, come sempre:
non avevamo altra scelta che prendere una stanza in quell’albergo. Per
quanto malandato, sperduto e sconosciuto che fosse. Tempesta in avvicinamento,
così avevano ribadito le previsioni della radio: avventurarsi oltre, in quel
momento, sarebbe stata una pazzia. Perciò avevamo fermato la macchina in vista
del primo riparo: un alberghetto ben nascosto dalla vegetazione, vicinissimo al
lago ma al tempo stesso ben protetto. Esattamente ciò che ci occorreva.
Non avevamo intenzione di fermarci
a lungo: un giorno, massimo due… Avremmo
aspettato che la tempesta si allontanasse e poi via, di nuovo in macchina,
pronti a continuare la vacanza.
- Ci vorranno più di due giorni temo, signori -
Sollevai lo sguardo, incontrando
subito quello perplesso e deluso di Serena.
- Co… come? –
balbettai, non certo di aver capito bene.
- Mi duole dirle che una tempesta
di questa portata, solitamente, dura per più di due giorni – ripeté
l’uomo dietro il bancone, porgendoci una chiave arrugginita.
- Oh – mormorai, assorbendo
il colpo. Non me lo aspettavo.
Presi la chiave, avvolgendo con il
braccio i fianchi di Serena per rassicurarla:
- Fa niente, vero? – cercai
di sorridere – Ci divertiremo ugualmente -
Lei non annuì. Lo fece Silvestro, premuroso,
guardandomi con aria affabile e disponibile.
Silvestro era il proprietario
dell’hotel: vicino ai cinquant’anni, stempiato e con parecchi
capelli grigi a far capolino fra i ricci corvini; gli occhi scuri, ingranditi
da un paio di occhiali neri, sembravano spenti.
- Non abbiamo molti ospiti in
questo periodo dell’anno – iniziò, leggermente a disagio –
Solo due, per la verità – continuò, sorridendo ancora – Vi ho dato
una stanza sul loro stesso piano, le camere sono adiacenti. Nel caso però che
preferiate una diversa ubicazione… -
- No, no – lo interruppe
Serena, rapida – Meglio così. Ci sentiremmo troppo soli altrimenti
–
- Come volete – acconsentì
Silvestro, annuendo con il capo.
Gli feci un rapido cenno,
avviandomi già verso le scale più vicine, quando la mano di Serena mi bloccò.
Mi voltai, incuriosito dalle sue parole:
- Come mai si chiama Candela? – aveva chiesto,
riferendosi all’albergo.
- Per via delle candele –
rispose l’uomo con ovvietà, indicando con la testa tutto attorno a sé
– Succede spesso che se ne vada la corrente, da queste parti; così
ovunque sono posizionate innumerevoli candele, pronte all’occorrenza -
Serena annuì, ricominciando a
camminare. Quattro rampe di scale ed eravamo arrivati al piano giusto: per
tutto il tragitto non avevo fatto altro che guardarmi attorno. Mi piaceva quel
posto, inutile negarlo: che fosse l’aria antica, l’aspetto
malandato, il legno… era tutto in legno, scuro, chiaro, di qualunque
tipo. E mi affascinava: era spettacolare. Certo, come mi fece subito notare
Serena, sotto un certo punto di vista ricordava il film Shining, ma per il resto era perfetto. Romantico, inquietante
volendo, ma unico.
Non intendevamo trascorrerci più
di un paio di giorni, ci avevano detto che ve ne avremmo passati di più e invece,
alla fine, alloggiammo all’hotel Candela
soltanto quella notte.
La stanza era carina,
l’ultima nel corridoio: un letto matrimoniale, una cassettiera, un
armadio e un bagno. Niente di speciale, certo, ma il meglio era la finestra:
occupava quasi un’intera parete e aveva un terrazzo. Uscendo, cosa che
non facemmo per via della pioggia scrosciante, ci si affacciava direttamente
sul lago.
Spettacolare. Un panorama da
mozzare il fiato.
- Ehm… è permesso? -
Sussultammo entrambi, colti di
sorpresa da quella richiesta inaspettata.
Un uomo sulla trentina era
poggiato allo stipite della porta socchiusa, le nocche della mano che bussavano
aritmicamente sul legno. Era alto, occhi azzurri, una corta zazzera bionda.
Sorrideva, teneramente.
Aveva un sorriso che incantava.
Due fossette ai lati della bocca, cordiale, aprì lentamente la porta.
- Spero di non disturbare –
mormorò, affabile – Ho sentito delle voci e stentavo a crederlo vero
– rise – ma siete qui, quindi immagino di dovermene fare una
ragione -
- Le spiace? – chiese
Serena, avvicinandosi di un passo, già conquistata dall’uomo.
- Tutt’altro – sorrise
lui, scuotendo appena il capo – Mi sembrava troppo bello per essere vero
–
Sorrisi a mia volta, incapace di resistere. Gli porsi la mano che lui prontamente
strinse.
Una stretta calorosa: mi trascinò
verso di sé, dandomi anche una pacca sulla spalla.
- E’ un piacere avervi qua
– disse, entusiasta – Io sono Gianluca, onorato di conoscervi
–
- Paolo - mi presentai – E
lei è la mia fidanzata, Serena –
Gianluca annuì, scoccando due baci
sulle guance di un’emozionata Serena. Ripiegò le maniche della camicia
fino ai gomiti e poi, con noncuranza, poggiò i pollici nei passanti dei jeans.
Sempre sorridendo.
- Cenate giù, stasera? –
chiese, lanciando un’occhiata all’orologio – Vi andrebbe per
caso di unirvi a me? -
Non risposi subito, aspettando un
cenno da parte di Serena e guardando a mia volta l’ora per prendere
tempo. La risposta, tuttavia, la diede lei:
- Certo – ridacchiò,
contenta – Sarebbe bellissimo. E almeno saremo in compagnia -
- Proprio così – approvai,
tanto per darmi un tono mentre aspettavamo la replica dell’uomo. Non
tardò ad arrivare, solare come sempre:
- Scendiamo allora – disse,
facendoci strada con destrezza – La cena è calda fino alle otto, siamo ancora
in orario -
Lo seguimmo condiscendenti,
provati dal viaggio e scombussolati da quella sosta di emergenza.
Il mio senso
dell’orientamento è sempre stato pessimo, ne sono consapevole. Oggi come
allora, non sarei capace di dire che strada percorremmo: i corridoi come le
rampe di scale sembravano tutti uguali, si susseguivano davanti ai miei occhi
senza alcun ordine logico. Ci lasciammo guidare, già rapiti da lui.
Gianluca era bravo. Aveva carisma,
inutile dirlo, e sapeva perfettamente come sfruttarlo.
La sala in cui ci fu servita la
cena era completamente vuota: una serie disordinata di tavoli di tutte le
dimensioni occupavano il poco spazio a disposizione, ma la vista, ancora, era
magnifica. Due pareti su quattro erano occupate da finestre: mostravano la
notte, in tutta la sua eleganza e magia.
La tempesta infuriava, eppure
quasi non ce ne accorgemmo. Non ci facemmo caso, persi nei racconti offertici
dal nostro commensale: Gianluca fu un perfetto intrattenitore, abile nel
giostrare qualsiasi conversazione; non si stancava mai, la risata sempre
pronta, gli occhi vivaci. Offrì lui la cena: ottima e calda, servita al lume di
candela; per far onore all’hotel, infatti, la corrente era già andata via
diverse volte, spingendoci a chiedere di spegnere direttamente la luce e
accendere invece qualche candela.
Il chiarore nella sala, così,
proveniva unicamente dalle numerose, piccole fiammelle e dal grande camino alle
nostre spalle. Il tempo volò: le otto passarono, seguite subito dalle nove.
Un’altra mezz’ora e sarebbero state le dieci, per quanto strano
fosse. Non oso immaginare come sarebbe stato il nostro soggiorno senza
Gianluca: era lui l’anima della serata. Ci parlò di sé, del suo lavoro:
si definiva una specie di piccione viaggiatore. Si spostava, in continuazione,
stentando a restare fermo in un posto. Era sposato da diversi anni: la sua
ragazza del liceo; amava i cavalli, i film in bianco e nero e le arance…
anche le notizie più futili e banali, se dette da lui, sembravano segreti di
stato. Avrebbe potuto e dovuto fare il politico, credevo allora e continuo
ancora a esserne persuaso.
- E quanto ti tratterrai? –
Non ricordo se a chiederglielo fui
io oppure Serena: rammento solo la domanda e l’espressione pacata di
Gianluca. Bevve un ultimo sorso di caffè prima di rispondere, inclinando appena
la testa:
- Parto domattina – disse,
telegrafico.
Annuii, leggermente spaesato per
il tono serio di lui.
- Mi spiace – mormorai,
sincero, subito imitato da una contrita Serena – Avevamo appena trovato
una valida compagnia – aggiunsi, facendo per alzarmi.
La manina bianca di Serena mi
bloccò, arpionandomi il braccio: - Dove vai? – chiese, allarmata.
- Ho bisogno di una sigaretta
– risposi, sorridendo – Mi accompagni sopra? -
- Certo, ma… - si girò verso
Gianluca, speranzosa – Ci rivediamo dopo? Parliamo ancora un po’ o
giochiamo un po’ a carte, non saprei… -
Scossi la testa, divertito da
quella scenetta. Gianluca dovette trovarla spassosa almeno quanto me perché ridacchiò, prima di affrettarsi a rispondere,
nuovamente cortese:
- Naturalmente, la notte è
giovane, no? -
Fu solo merito di Serena, lo dico
senza peli sulla lingua, se raggiungemmo il nostro piano in tempi brevi. Fosse
stato per me, vi avrei impiegato metà della non così lunga notte. E il restante
tempo per trovare la camera. La voce di lei mi fece compagnia per
l’intero tragitto: elogi su lodi, tutti per Gianluca.
- E’ educato, vero? –
chiedeva, senza aspettarsi alcuna risposta – E gentile, simpatico, oltre
che molto affascinante, ovviamente – continuava, instancabile – La
sua voce, poi… - mugolò - … Dio, se è sexi: farebbe sciogliere
chiunque, vero? Ho ragione, vero? -
All’ultima domanda eravamo
ormai di fronte alla nostra stanza. Serena si girò verso di me, le spalle alla
porta: fu a quel punto che mi chiesi se per caso non stesse aspettando una
risposta. Come al solito, però, mi sbagliavo. Preso in contropiede, decisi di
deviare il discorso, scherzando appena un po’:
- Non vorrai mica lasciarmi per
lui? – chiesi, sarcastico.
Attesi una replica altrettanto
velenosa che, tuttavia, non arrivò: mi accorsi solo in quel momento dei cenni
che Serena mi stava rivolgendo; inclinava di tanto in tanto il capo verso
destra, in direzione del corridoio. Istintivamente mi voltai, trasalendo come
una ragazzina: c’era un ragazzo a pochi metri da noi, fermo di fronte
alla terza porta del corridoio. La prima era la nostra, la seconda era di
Gianluca e la terza, a quanto pareva, era sua. Il terzo ospite di cui ci
eravamo completamente dimenticati.
Mi passai una mano sulla fronte,
dispiaciuto per quella reazione inappropriata: mossi un passo verso il giovane
ma quello non si girò, come perso nei suoi pensieri.
Lo guardai meglio, sorpreso ogni attimo di più: era alto, molto, anche più di
Gianluca. Eppure era come il suo opposto, la sua antitesi.
Slanciato, gracile e pallido: una
barba di pochi giorni ad oscurargli le guance; i capelli erano lunghi, neri
come la pece e legati in un codino. Solo gli occhi erano chiari, fin troppo.
Sembravano pallidi anche loro, rifulgenti di una luce propria. Elettrici, come
dotati di vita. E in perfetto contrasto, le occhiaie pronunciate.
Le braccia erano abbandonate sui
fianchi, immobili, esauste.
Mossi un altro passo, facendo per
allungare una mano nella sua direzione. Lui però non mi guardò, così vicino a
me eppure lontanissimo. Fissava un punto indefinito di fronte a sé, le unghie
che improvvisamente gli si conficcavano nei palmi. Dischiuse le labbra secche,
esibendosi in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Terrificante, inappropriato
e, soprattutto, non rivolto a me.
- Rosi – chiamò, la voce che
non sembrava appartenergli – Vieni, dobbiamo rientrare -
Ritirai la mano, seguendo il suo
sguardo che vagava nel corridoio buio. In un corridoio vuoto.
- Paolo – sentii Serena chiamarmi,
tirandomi per la manica della felpa – Andiamo, ti prego – mugolò,
serrandomi il polso. Mi voltai, pronto a seguirla. Fu più forte di me girarmi
un’ultima volta verso quel ragazzo: ma lui non c’era più, la porta
che gli si chiudeva alle spalle silenziosamente.
Entrai in camera con Serena, la
mano nella sua. Un silenzio irreale vagava fra di noi,
apparentemente infrangibile. Non durò molto, tuttavia. Lo scatto del mio
accendino fu sufficiente a risvegliare entrambi.
- La miseria – borbottò lei,
lo sguardo allucinato – Sembrava un incubo – continuò, la voce
tremante – Io… lui… è pazzo! -
Non dissi niente, aspirando con
calma.
- Avevo i brividi, Paolo. Ho i
brividi! – si accalorò Serena, imperterrita – Non era con noi, te
ne rendi conto? Parlava… parlava da solo. O… o con chi diavolo
stava parlando? -
- Rosi – mormorai
impercettibilmente, soffiando fuori una boccata di fumo.
- Mi… mi ha spaventata
– concluse, nel momento esatto in cui si aprì la porta della camera,
facendola quasi gridare dalla paura. L’espressione sorpresa di Gianluca
fece capolino dalla fenditura:
- Qualcosa non va? – chiese,
un sopracciglio inarcato – Chi ha spaventato chi? –
Serena si lasciò cadere sul letto,
facendogli segno con la mano di entrare: prese un bel respiro poi gli raccontò
tutto, veloce e prorompente come un fiume in piena. Gianluca annuì, un
sorrisetto saputo.
- Era Ivan – disse, sicuro
– Non è pericoloso, tranquilla -
- Ivan? – chiedemmo insieme, un alone indistinto di fumo sopra di noi.
- Ivan – approvò Gianluca
– E’ un po’ particolare, lo ammetto, ma non c’è da
temere –
- Lui… - balbettò Serena, ma
non riuscì a concludere.
- Lui non farebbe del male a una
mosca –
- Ne sei certo? –
Gianluca annuì, grattandosi il
mento: - Tuttavia… -
- Tuttavia? – lo incitò
Serena, avida di informazioni più di quanto normalmente non fosse.
- … ce l’ha con me
– continuò Gianluca, pensieroso – Non saprei dire come mai.
E’ un po’ instabile il ragazzo, lo avrete notato. E nei miei
confronti è sempre stato duro. Gelido. Cattivo, quasi –
- Come fai ad esserne tanto certo?
– gli chiesi, confuso – Lo conosci? –
- Non è la prima volta che
alloggio qui –
- E c’era ogni volta Ivan?
– domandai ancora, sempre meno convinto: qualcosa non andava.
Gianluca si strinse nelle spalle,
puntando gli occhi sul pacchetto di sigarette che stringevo in una mano. Gliene
offrii prontamente una, incurante della conversazione
che lui e Serena avevano cominciato. Con un semplice cenno del capo, quasi
ignorato, uscii dalla stanza. Poggiai le spalle contro la porta, accendendomi
una seconda sigaretta: non ricordavo nemmeno quando avevo finito la prima.
Mossi qualche passo per il
corridoio, gli occhi socchiusi, aspirando con avidità. Fu con sorpresa che mi
accorsi del labile chiarore proveniente dalla terza porta: era socchiusa, quel
tanto che bastava per sbirciare all’interno. Non lo feci. Mi avvicinai,
la sigaretta abbandonata fra le labbra e le nocche a pochi centimetri dalla
porta: bussai una, due, tre volte. Non giunse alcuna
risposta.
Ripensandoci adesso, con
cognizione di causa, probabilmente avrei dovuto girare i tacchi e lasciar
perdere. Sarebbe stata un’ottima decisione: avrebbe denotato un minimo di
intelligenza, se non altro.
A quanto pareva, tuttavia, in
quanto a quoziente intellettivo sono sempre stato carente…
Aprii ugualmente la porta, malato
di un’inguaribile curiosità. Per niente scalfito dal silenzio ambiguo che
aleggiava nell’aria, mossi qualche passo all’interno della stanza.
Era molto simile alla mia, notai, espirando una boccata di fumo: l’unica
differenza era la presenza di due letti singoli al posto di quello
matrimoniale.
E il fantomatico Ivan era
presente, malamente illuminato da un paio di candele.
Se ne stava fiaccamente sdraiato
su uno dei materassi, le braccia piegate dietro il capo in una posizione
riposata e naturale. Lo guardai per un po’ mentre la scena avvenuta prima
in corridoio si ripeteva nella mia testa; immagino fu quello il motivo per cui,
quando i suoi occhi si aprirono di scatto bloccandosi nei miei, sussultai penosamente.
Ricambiai l’occhiata glaciale, apparentemente assente, incapace di
proferir parola.
- Brutto tempo – mormorò il
ragazzo, abbassando lentamente le palpebre.
La voce non sembrava la sua, o meglio,
non era la stessa di prima: non era quella che avevo istintivamente associato
alla sua persona. Più roca, spezzata, finalmente reale. La voce di chi sa ciò
che dice.
- Sembra non voglia smettere di
piovere – riuscii ad articolare dopo non so quanto tempo.
- E deve ancora venire il peggio
– aggiunse Ivan, carezzandosi la barba con una mano – Non bisogna
mettere fretta al tempo, giusto? –
Inarcai un sopracciglio,
disorientato, ma lui non mi diede modo di rispondere:
- C’è un posacenere sulla
scrivania – disse, senza accennare alcun movimento. Mi guardai attorno,
individuando l’oggetto di lì a poco: vi lasciai cadere la sigaretta ormai
spenta e sospirai, poggiandomi stancamente ad un muro.
- Come mai alloggia qui? –
chiesi, incapace di trattenermi ancora.
La risposta, questa volta, si fece
attendere:
- Aspetto – sillabò alla
fine, mentre un suono grave si diffondeva attorno a noi: si ripeté per dieci
volte, cadenzato. Ivan aveva sempre gli occhi chiusi, perfettamente a suo agio:
- La pendola – spiegò,
apatico – Sono le dieci –
- Cos’è che aspetti? –
domandai, passando senza accorgermene a dargli del tu. Mi veniva naturale.
- Che arrivi il momento giusto
–
- Quale momento? –
Ivan non rispose subito. Aprì di
scatto gli occhi e li fissò nei miei, i suoi si erano improvvisamente spenti:
- Sul quadrante di un orologio ci
sono tre lancette – disse – Quella delle ore, quella dei minuti e
l’ultima: quella dei secondi. Si rincorrono, una
è sempre più indietro rispetto alle altre. E’ interessante come si muovono…
- prese un bel respiro, mettendosi piano a sedere - … non si affrettano,
mantengono il loro ritmo naturale. Sintomo di estrema pazienza. Aspettano,
aspettano il momento giusto -
Dischiusi le labbra, tentato e già
pronto a fare una nuova domanda, ma gli occhi del ragazzo si spostarono dai
miei. Deviarono a sinistra, accesi nuovamente dalla luce che li aveva
abbandonati:
- Come dici,
Rosi? -
Fissava il letto al suo fianco. Un
letto perfettamente rifatto.
- No, non conosco il signore
– mormorò, assente.
Un letto vuoto.
- Sì, Rosi: manca poco, non
preoccuparti -
E la voce era di nuovo lontana,
irreale e alterata. La voce di chi parla con qualcuno che non c’è.
Arretrai, silenzioso, uscendo
dalla stanza. Non fu per codardia, o almeno di questo mi piace convincermi.
Solo, bisogna ammetterlo: quella
situazione era a dir poco inquietante. Senza mezzi termini.
Continuai a camminare
all’indietro, le braccia rilasciate lungo i fianchi. Perché…?
- Ehi! -
Mi girai di scatto,
maldestramente, il volto distorto da un’espressione mortificata:
- Mi scusi – cominciai,
scuotendo la testa senza motivo – Io… io non volevo, davvero. Ero
con la mente altrove, io… non l’ho vista – conclusi,
osservando la persona con cui mi ero scontrato.
- Ci credo – disse la donna,
esasperata – Camminava all’indietro, come avrebbe voluto vedermi,
mi dica? –
- Mi dispiace – ripetei,
incapace di dire altro.
Lei sospirò, stringendosi nelle
spalle. Con le mani si lisciò la gonna: indossava una divisa
dell’albergo. La guardai meglio: doveva essere vicina ai
sessant’anni, i capelli grigi raccolti in una stretta acconciatura; il
volto era ricoperto di rughe, le labbra sottili, estremamente sottili; ma
furono gli occhi a catturare la mia attenzione: erano occhi giovani. Occhi che
nonostante i molti anni passati continuavano ad essere pieni di vita. Occhi
immensi, profondi: dovevano aver visto tante di quelle cose da poterci scrivere
un libro.
Fu per quegli occhi se non me ne
andai. Avrei potuto tornare in camera, ma non lo feci,
bloccato in quel corridoio senza neanche sapere realmente il perché. Presi
un’altra sigaretta e sorrisi, offrendone una anche alla donna di fronte a
me. Lei l’accettò di buon grado, lasciando che l’accendessi poi ad
entrambi:
- Lavora qui? - le chiesi,
incominciando alla larga la conversazione.
Lei annuì, rivolgendomi un sorriso
sarcastico: - Non se n’era accorto? – domandò a sua volta,
accennando con il capo alla divisa. Sorrisi, annuendo e sollevando le mani.
Colpito.
- Faccio le pulizie –
mormorò, lisciandosi ancora la gonna.
- Da quanto tempo? –
- Molti anni – ridacchiò
lei, tossicchiando appena – Come mai tanto interesse per una vecchia e
noiosa cameriera, giovane? – domandò poi, guardandomi dal basso in alto.
- Semplice curiosità –
sussurrai, prendendo tempo.
Lei alzò gli occhi al cielo,
borbottando qualcosa di indecifrabile, alla fine si decise a lanciarmi
un’occhiata:
- Chieda su, se posso… -
soffiò del fumo - … risponderò -
Dischiusi le labbra, diverse
volte, senza che ne uscisse alcun suono. Fu solo quando l’espressione
della donna divenne ancora più esasperata, con tanto di sopracciglio inarcato,
che mi decisi a parlare:
- Conosce Ivan? -
- Ivan? – sillabò,
diventando improvvisamente diffidente – Perché me lo chiede? –
- Io… - sospirai, non
sapendo da dove cominciare – L’ho incontrato per la prima volta in
corridoio – dissi – Parlava da solo – aggiunsi, prendendo un
bel respiro – Poco fa, invece, sono entrato in camera sua e… -
scossi impercettibilmente il capo - … sembrava un’altra persona: ha
parlato con me. E poi, di nuovo, con
qualcuno che non c’era. Una certa Rosi. Capisce? –
La donna sospirò, chiudendo per
qualche attimo gli occhi. Eluse il mio sguardo, ignorandomi.
- Non credo dovrei parlarne con
lei – balbettò, insicura, la voce incrinata.
- Perché no? –
E lei rise. Di una risata triste,
piena di rimorsi e malinconia. Dolorosamente nostalgica.
- Perché no? – mi fece il
verso, sollevando due occhi umidi nei miei – Non ha tutti i torti, sa?
– e sorrise.
In quel momento non riuscii a
decifrarne il sorriso; oggi con cognizione di causa posso dire che sul volto di
quella donna si era appena dipinto il sollievo: come se raccontando a me,
sarebbe poi stata libera lei.
- Il giovane Ivan… -
cominciò, schiarendosi la gola – Ivan Serico, così si chiama –
continuò, incamminandosi lungo il corridoio. La seguii, le labbra cucite: ci
fermammo pochi attimi dopo, in una minuscola stanzetta a mala pena illuminata;
lei si spostò agilmente, il respiro accelerato, lasciandosi cadere su un
divanetto rosso e facendomi segno di imitarla. Ubbidii, attendendo che
riprendesse.
Non lo fece.
- Ivan Serico – ripetei,
allora, impaziente – Da quanto tempo è qui? -
- Undici anni –
Sbattei le palpebre, convinto di
aver frainteso, ma lei non mi lasciò il tempo di dire alcunché:
- E’ arrivato qui undici anni fa. Era appena diciottenne allora, sa? Un
ragazzo carinissimo – sorrise, come rivedendo l’Ivan del passato
– Gentile, solare, sempre sorridente e con la battuta pronta. Era il tipo
in grado di far cadere una ragazza ai suoi piedi semplicemente sbattendo le
ciglia, sa? -
Annuii, cercando inutilmente di
immaginarlo in quel modo. Mi era difficile, quasi impossibile.
- Perché… perché undici
anni? – domandai, allibito – Perché non se ne va? -
Lei scosse la testa, portando una
mano davanti alla bocca.
- Non ha un posto dove andare?
– chiesi ancora, provando alla cieca.
Un sospiro della donna mi fece
cedere le armi. Non ero sulla strada giusta.
- Quando arrivò non era solo
– mormorò con dolore lei – Prese una camera per due, quella che
occupa ancora adesso. Una camera per sé e per la sorellina -
- Rosi – sussurrai, la voce
roca che stentai a riconoscere.
- Già – approvò la cameriera
– Rossella: otto anni di dolcezza –
Intrecciò le mani in grembo, come
per impedir loro di tremare: - Un esserino minuscolo, con la pelle candida come
la luna. Aveva un viso perfetto, sa? Bellissimo. I capelli erano la fine del
mondo: una cascata di ricci neri che le arrivavano a metà schiena. E tutto era
niente in confronto al sorriso. Quando sorrideva… poteva far sciogliere
il ghiaccio, con quel sorriso. Le mancava qualche dente, sa? Dentini minuscoli,
candidi come lei. E quegli occhioni, poi… -
Non mi ero nemmeno accorto di star
trattenendo il respiro. Avevo il volto contratto, a tormentarmi
l’immagine di quella bimba che mi sembrava di vedere. Non ne parli al passato, avrei voluto
gridare.
- … Ivan l’adorava.
Stravedeva per lei. Era il suo mondo e come biasimarlo? Era tutta la sua
famiglia. Sarebbe morto per lei, sa? Senza pensarci su due volte -
Non ne parli come se non ci fosse più, continuavo a gridare dentro di me.
- E invece è morta -
Mi aspettavo quelle parole. Le
avevo intuite, sempre sospettate.
Eppure mi colpirono ugualmente
come uno schiaffo.
- Morta? – biascicai, senza
neanche rendermene conto.
- Già – singhiozzò la donna,
passandosi le mani sugli occhi – A trovarla fu Ivan. Le urla del ragazzo
si sono sentite risuonare per l’albergo… per giorni. E’ come
se riecheggiassero ancora oggi –
- Come? – non potei fare a meno
di chiedere, la mascella contratta.
Lei scosse la testa, indicandomi
qualcosa con gli occhi. Impiegai diversi minuti per capire che accennava ai
miei pantaloni: una luce intermittente rischiarava la tasca; afferrai il
cellulare senza riuscire a nascondere l’irritazione per
quell’interruzione: scrutai lo schermo e vidi lampeggiare il numero di
Serena.
Dovevo rispondere?
- Come è morta? – chiesi
ancora, impaziente. Osservai le lacrime silenziose che scendevano sulle guance
della donna e sentii una stretta allo stomaco: - E’ stato un incidente?
– sussurrai, convinto di conoscere già la risposta alla domanda. Non
poteva essere stato un banale errore.
- No –
- Qualcuno… - provai ancora,
non riuscendo a dire altro. Era terribile.
Un assenso. Un unico, impercettibile
assenso da parte della donna bastò a farmi scattare in piedi.
Accennai un saluto, veloce,
desiderando solamente uscire da lì: percorrere il corridoio e raggiungere la
mia camera. Tornare da Serena. Da lei, da Gianluca. Alla luce.
- Al primo piano – mormorò
lei, bloccandomi un attimo prima che uscissi dalla stanza – Apra la porta
27 -
Mi voltai appena, lasciando che
fosse la mia espressione a porgerle la domanda.
- E’ lì che Ivan va a
dipingere – aggiunse, tirando su con il naso.
Mi strinsi nelle spalle,
allungando il passo ed imboccando il corridoio. Avevo sentito anche troppo, mi
dissi, lottando con il desiderio di prendere l’ennesima sigaretta.
Maledetta curiosità. Perché, perché non potevo mai farmi i fatti miei? Mi riguardava
forse quella storia? Conoscevo Ivan, la sorella o chiunque altro di lì? No. Non
conoscevo nessuno. Non mi interessava di nessuno. O almeno non avrebbe dovuto.
- Vuoi ancora sentire quella
storia? -
Rallentai, sentendo la voce del
ragazzo.
- Sicura di non essertene stancata, Rosi? -
Chiusi gli occhi, pietrificandomi
sul posto, imponendomi di non sbirciare nella fessura della porta.
- E va bene – sospirò Ivan,
il sorriso nella voce che non gli apparteneva – Questa è la storia di
Ariel… -
Ripresi a camminare, sempre più
vicino alla mia camera.
Quanto mancava? Due, tre metri?
Pochi attimi e sarebbe tutto finito.
- Al diavolo! – sbottai,
serrando i denti.
Feci dietro front
senza dar tempo al cervello di formare un nuovo pensiero logico. Una nuova
sigaretta fra le dita, scesi a passo di marcia fino al primo piano. E’
difficile spiegare il perché di quell’impulso. Non era dettato dalla
ragione, ma neanche dal cuore ad essere sinceri. Era niente più che un istinto.
Dovevo farlo, semplicemente.
Entrare nella stanza 27.
E lo feci, dopo aver indugiato con
la mano sul pomello per sì e no qualche secondo.
Lo feci, addentrandomi in quel
soffuso chiarore con un coraggio che non sentivo mio.
Era una camera piccola: o forse a
renderla tale era soltanto la sensazione opprimente che trasmetteva al primo
impatto. Lasciai la porta socchiusa alle mie spalle, la sigaretta che mi
pendeva dalle labbra.
La prima cosa ad attirare la mia
attenzione fu la più bella.
Avanzai di qualche passo,
avvicinandomi al cavalletto: osservai rapito la tela, l’immagine che
sembrava cercare di uscirne, troppo vera per essere stata solo dipinta. Erano
due volti: giovani, ridenti, luminosi.
Fissai quello femminile, il viso
di una bambina: le labbra erano piene, soffici, come due petali di rosa. Dischiuse,
si aprivano in un sorriso disarmante; il ragazzo, invece, rideva: la bocca
spalancata, il volto appena reclinato all’indietro. Trasmettevano gioia,
felicità. Eppure non riuscii neanche ad accennare un sorriso. Con dita tremanti
afferrai la foto da cui era stato tratto il dipinto…
… era vecchia, i bordi
ingialliti e rovinati, ma ancora chiarissima. Identica alla tela su cui era
poggiata: l’unica differenza era l’inquadratura più lontana; nella
foto non si vedevano solo i volti: erano visibili anche i corpi, abbracciati,
avvinghiati l’uno all’altro. La bambina in braccio al ragazzo.
Immagino di aver riconosciuto
subito Ivan. Per qualche motivo sapevo che era quel ragazzo, lo sentivo. Undici anni più giovane, senza barba e senza occhiaie.
Abbronzato, sorridente certo, ma era lui.
Immagino di aver sempre saputo che
era lui e di aver solo finto con me stesso che non fosse così.
Perché? Forse per non tornare a
fissare la tela, per non lasciare agli occhi il tempo di riguardare quella
bambina: Rossella. Un piccolo fantasma che sembrava tormentare il fratello. Io
odiavo i fantasmi…
Li odio ancora e quelli dei
bambini più di tutti. Un odio immotivato, tanto più che non ci ho mai creduto.
Ivan non parlava con un fantasma.
Ivan parlava da solo.
E questo era ancora peggio.
Posai la foto, allontanandomi dal
dipinto. Dovevo andarmene. Potevo, vero?
Sentii il cellulare vibrare nella
tasca: un non trascurabile richiamo alla realtà; avrei potuto ascoltarlo,
ubbidirgli una volta tanto, non fosse stato che i muri sembravano attirarmi
inesorabilmente: li avevo scorti con la coda dell’occhio, quei ritagli
che vi erano appesi. Una volta visti, tuttavia, era possibile fare finta di
niente? Sorrisi, sollevando il cellulare per avere più luce: articoli di
giornale.
Risalivano tutti a undici anni
prima, all’assassinio avvenuto nell’albergo.
Tutte prime pagine: certe a stento
leggibili. Alcune riportavano foto di Rossella altre istantanee della hall
dell’hotel. Doveva essere un posto molto in voga a quel tempo: sempre affollato,
con ospiti da ogni parte del mondo. O almeno era stato tale fino al
ritrovamento del cadavere.
Ricordo di aver lasciato scorrere
lo sguardo su quei giornali, su quelle parole lontane ed allo stesso tempo così
vicine. Non mi appartenevano, perché allora… perché facevano tanto male?
Socchiusi gli occhi, una mano che correva a coprirmi la bocca per uno scatto
improvviso: era nausea? Scossi la testa, arretrando di un passo, poi di un
altro. Dovevo allontanarmi. Da tutto, da lei. Uscii dalla stanza, richiudendo
la porta con mano tremante. Mi appoggiai al muro, l’impressione che le
gambe avrebbero potuto cedere. Da quando in qua ero talmente suscettibile, mi
chiesi, colpito. Incespicai per il corridoio alla ricerca di un bagno: mi ci
fiondai, sciacquandomi più volte il viso con l’acqua fredda. In cosa
speravo? Difficile a dirsi.
Non so quanto tempo passai chino
sul lavandino, fissando l’immagine opaca dello specchio: il riflesso di
un volto pallido, provato, di un uomo che sapeva più di quanto avrebbe voluto.
Non so nemmeno come mai mi decisi
a scendere fino al pian terreno; ricordo l’eco della pendola: lo scoccare
delle undici quasi
in contemporanea con l’abbattersi del mio palmo sul bancone.
- Silvestro – chiamai,
sorprendendomi della rapidità con cui l’uomo si materializzò di fronte a
me.
- Mi dica – sorrise,
disponibile – Ci sono problemi? –
Scossi la testa, passandomi una
mano sugli occhi: - Ho bisogno di parlare con una persona –
Silvestro rimase in silenzio,
attendendo educatamente che continuassi.
- L’ho incontrata di sopra
– mormorai – Una donna: ha detto che fa le pulizie e… -
Mi bloccai, pietrificato
dall’espressione che aveva assunto il volto dell’uomo.
- Non abbiamo una donna delle
pulizie -
Arretrai di un passo, sentendo la
testa che girava: - Co… come, scusi? –
Silvestro annuì, serio. E io
sentii che le gambe mi cedevano. Mi poggiai al bancone, la fronte imperlata di
sudore freddo, quando un sorriso si fece strada sul viso di fronte al mio:
- Scherzavo – ghignò lui,
dandomi una pacca sulla mano – E’ sicuro di sentirsi bene? E’
pallido -
- Le sembrano scherzi da farsi?
– soffiai, stringendo i denti.
Silvestro mi guardò senza capire, l’ombra di un sorriso sulle labbra:
- Vera è ancora al bar –
disse alla fine, stringendosi nelle spalle.
- Vera? –
- La donna delle pulizie –
sillabò, scrutandomi con attenzione – Vuole che l’accompagni?
–
Negai, incamminandomi verso la sala ristorante: la vidi subito, seduta al bar, un
bicchiere fra le mani.
- Uccisa – scandii,
prendendo posto al suo fianco – L’hanno uccisa -
Vera annuì, avvicinando il
bicchiere alle labbra secche e bevendo un piccolo sorso.
- L’hanno violentata –
sussurrai, timoroso delle mie stesse parole - Violentata e accoltellata –
ripetei una, due, tre volte. Non mi fermai, non avevo intenzione di smettere.
Non potevo. Continuai come se fosse un mantra, inconsapevole quasi di cosa
stessi dicendo.
- La smetta – gemette Vera,
poggiando con mano tremante il bicchiere sul tavolo – La prego, la smetta
–
- Come è possibile che non abbiano
preso il colpevole? –
- Gli ospiti erano tanti –
si strinse lei nelle spalle – Molti erano pendolari, altri si fermavano
solo per una notte. Il corpo venne trovato dopo più di un giorno… -
- Nessun indizio? – sibilai,
sconvolto – Come è possibile?! –
- Non aveva niente indosso –
sussurrò lei, la voce flebile – Solo un orologio, con lo schermo rotto
– si fermò, la voce che si incrinava – Fermo alle tre e un quarto,
mi sembra –
Piegai le braccia sul bancone,
nascondendovi il volto all’interno.
Le parole di Vera mi giunsero
ovattate, lontane, quasi non fossero rivolte davvero a me: - Il cellulare –
Impiegai diversi minuti a portarlo
davanti agli occhi e ancora più tempo per riuscire a focalizzare sullo schermo:
cinque chiamate perse, tutte di Serena. Sorrisi, di un
sorriso falso. Niente sembrava più giusto.
- Devo andare – borbottai,
la lingua impastata come se stessi smaltendo una sbronza.
Vera non si mosse, non mi guardò
nemmeno. Sembrò non avermi neanche sentito; continuò a fissare un punto indefinito
nel suo drink, i palmi aperti e immobili sul bancone. Uscii, salendo le scale
con furia. Feci gli scalini due alla volta, raggiungendo il corridoio esatto
per pura casualità: guidato da qualcosa che non faceva parte del mio io
razionale. Superai la camera di Ivan e aprii la porta dell’ultima stanza
con impeto: mi fiondai all’interno, chiudendomela alle spalle. Mi ci
poggiai di peso, lasciandomi scivolare verso il basso: crollai a sedere,
sentendomi tremare. Assurdo. Totalmente e incredibilmente assurdo.
Non sentivo niente. Non vedevo
niente. Avrei voluto anche non provare
niente.
- Paolo? – pian piano,
lentamente, quelle voci cominciarono a raggiungermi. Lì, dove non sapevo di
essere. Lontano, apparentemente isolato. Perso. Un po’ alla volta superarono
il muro che le bloccava, toccandomi.
- Paolo! – misi a fuoco il
volto preoccupato di Serena, gli occhi spalancati, le labbra dischiuse –
Mi stai spaventando, che diavolo! Stai bene? Che ti senti? Paolo, rispondimi,
per favore –
Il tono si era fatto man mano più
dolce, supplichevole quasi.
Cercai di articolare qualcosa, ma
le parole sembravano essersi bloccate in qualche anfratto del vuoto che
dilagava dentro di me. Fu in quel momento che sentii lo schiaffo. Forte,
deciso, dritto sulla guancia destra.
Sbattei le palpebre, alzandomi
maldestramente in piedi: - Cosa…? –
- Scusa, amico – sorrise
Gianluca, passandosi una mano dietro la testa – Non sapevo
cos’altro fare e nei film fanno sempre così -
Sorrisi a mia volta, sfiorandomi
la guancia contusa: - Dì la verità – scherzai – Hai sempre
desiderato provarlo –
Lui rise, imitato prontamente da
una Serena improvvisamente sollevata. Mi abbracciò di slancio, affondando il
viso nel mio petto: - Idiota – mugugnò, tirando su con il naso – Mi
hai fatto prendere un colpo. Che diavolo di fine avevi fatto? –
- Non mi sono sentito bene –
borbottai, incapace di inventare di meglio sul momento – Voi, invece, che
mi raccontate? -
Una smorfia delusa e insoddisfatta
passò sul volto di Serena: non si sarebbe fermata fin quando non avrebbe
ottenuto tutta la verità. Fortunatamente, tuttavia, Gianluca era presente e
ridacchiò, salvandomi.
- Abbiamo giocato a carte –
sorrise – E bevuto, aspettando te. Ho anche fatto un pensierino sulla tua
fidanzata, ma non temere: sono un uomo a modo, io -
Sorrisi a mia volta, riconoscente: - Grazie per averle tenuto compagnia –
Lui alzò le mani, scuotendo il
capo: - Non dirlo neanche per scherzo, è stato un piacere – sbadigliò,
guardando con noncuranza l’orologio – Si è fatto tardi, ragazzi,
temo di dovervi lasciare –
- Di già? -
- Non ho ancora preparato la
valigia – si scusò lui – Sono peggio di un bambino, lo so, mi
riduco sempre all’ultimo minuto –
- Ti potrebbe far comodo una mano?
– chiesi, senza quasi rendermene conto.
Serena mi lanciò una rapida
occhiata accusatoria, in pieno contrasto con quella felice di Gianluca:
- Beh, certo, mi farebbe piacere
– sorrise lui – Certo, però, non intendo dar fastidio -
- Figurati! – lo interruppi,
sospingendolo verso la porta – Ci teniamo compagnia per un altro
po’ di tempo, così, no? E poi, vi ho lasciati soli per tutta la sera, mi
sembra il minimo che posso fare, adesso –
Gianluca annuì, allegro, aprendo
silenziosamente la porta.
- Non vieni, Serena? – chiesi, un piede già sull’uscio.
- No, preferisco mettermi a letto
– mormorò lei, sorridendo appena – Ah, Paolo – chiamò,
raggiungendomi veloce – Quando torni, non è che proveresti ad aggiustarmi
l’orologio? –
- Cos’ha che non va? –
- Va cinque minuti avanti –
sbadigliò lei – Non riesco a sistemarlo –
- Ci penso io – sorrisi,
baciandola a fior di labbra – Buona notte –
- ‘Notte
– sussurrò, chiudendosi in camera, silenziosa.
Vidi Gianluca, appoggiato alla sua
porta, guardarmi divertito: alzai gli occhi al cielo, seguendolo nella stanza.
Lui ridacchiò, aprendo larmadio e poggiando una valigia scura sul letto:
- Queste donne. Come farebbero senza di noi? –
Ghignai, osservandolo mentre
gettava i vestiti alla rinfusa nella borsa: - Perché – chiesi,
avvicinandomi alla libreria – Noi come faremmo senza di loro? –
Ridacchiammo insieme, scambiandoci
un’occhiata complice. Mi piaceva, Gianluca.
Scrutai i libri sulla mensola più
in basso, l’unica piena: - Sono tuoi? –
Gianluca annuì,
senza nemmeno girarsi: - Li lascio lì, ormai – spiegò – Ogni volta
che alloggio qui mi danno questa camera: sono di casa, sai com’è. Così ho sempre qualcosa da
leggere –
Lessi diversi titoli
sovrappensiero: Dickens, Wilde, Poe, Andersen,
Salgari…
- Sono in ordine di autore?
– domandai, sorridendo per il disordine che ormai regnava nella valigia.
Gianluca percepì il mio
divertimento e sospirò, lasciandosi cadere sul letto: - Sì, per quanto strano
possa sembrare. Non far caso alla valigia: all’andata è ordinata, al
ritorno non può essere altrettanto –
Annuii, pensando che la mia non
sarebbe mai stata ordinata. Afferrai il libro di Andersen e glielo mostrai:
- Questo è fuori posto –
dissi, spostandolo – Non ti facevo tipo da La Sirenetta -
- Leggo di tutto – borbottò
lui, alzandosi distrattamente in piedi – Vivo di giornali perlopiù, in
treno o in aereo, sai com’è, devo pur passare il tempo. Ti spiace
controllare se c’è ancora qualcosa in bagno? –
Entrai nel piccolo bagno, aprendo
i diversi armadietti per guardarvi all’interno; ne uscii con in mano uno spazzolino rosso, una boccetta di profumo e
qualche saponetta. Non saprei dire se fu a causa della stanchezza o della mia
naturale sbadataggine. Forse fu il luccichio sul bordo del tappeto a distrarmi,
non so. Fatto sta che inciampai, rovinando pateticamente a terra. Le saponette
rotolarono sotto il letto, la boccetta di profumo si aprì, rovesciando parte
del liquido. Imprecai fra i denti, raccattando tutto in fretta e furia:
Gianluca si inginocchiò al mio fianco, tranquillizzandomi sempre con aria
divertita e noncurante.
- Non ti preoccupare –
ridacchiò, pregandomi di smetterla di imprecare – Sembri uno scaricatore
di porto – sorrise, prendendomi le cose di mano e lasciandole cadere
nella valigia.
- Ho fatto cadere il profumo
– piagnucolai, asciugandolo maldestramente e riuscendo unicamente a
bagnarmi il bordo della manica.
- Non fa niente – ripeté
ancora Gianluca – Ma per curiosità, cosa guardavi invece di dove mettevi
i piedi? –
Mi sorprese quella domanda,
probabilmente perché riuscì a farmi ricordare del luccichio che avevo
intravisto e già dimenticato. Non risposi, tuffandomi immediatamente verso il
bordo del tappeto. Una collanina, ecco cos’era. Una catenina dorata,
nascosta quasi interamente sotto il tappeto. Sottile, con una stella marina a fare
da ciondolo.
- E’ tua? – chiesi,
porgendola a Gianluca.
Lui la fissò in silenzio per
qualche istante, per poi stringerla di scatto fra le dita: - E’ di mia
moglie – mormorò, sorpreso – Credevo di averla persa –
Mi alzai, spolverandomi i
pantaloni, la mente già lontana: - Noi ci sposiamo fra tre mesi –
- Sono contento per voi –
sorrise Gianluca, sincero – Ti manca un testimone? -
Scossi la testa, trattenendo a
stento un sorriso: - Un invitato in più fa sempre comodo, però –
Allungai la mano, aspettando che
la stringesse; lui alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi in pochi passi e
stringendomi fra le braccia: – Ma come siamo formali – sbottò,
dandomi una pacca sulla spalla – Ci conto per l’invito, mi
raccomando – mormorò poi, allontanandosi.
- Promesso – ribadii,
uscendo dalla stanza – Buona notte -
- Anche a te –
Chiusi la porta, muovendo un passo
verso la mia camera. Non fu la curiosità, questa volta, a farmi avvicinare alla
terza porta. Non fu un mio istinto né un mio pensiero. L’idea non mi aveva
minimamente sfiorato: fu la voce di Ivan a chiamarmi, facendomi bloccare
all’istante.
- Ancora sveglio? – mi
chiese, inarcando un sopracciglio scuro.
Mi strinsi nelle spalle,
guardandolo appena. Non dovevo fermarmi, non dovevo, per nessun motivo.
- Mi fai un po’ di
compagnia? – domandò ancora, accennando con il capo alla sua stanza.
Feci per rifiutare, la certezza
che non sarebbe stata una buona idea a tormentarmi.
- Non riesco a dormire –
aggiunse il ragazzo, fissandomi negli occhi – E ho una bottiglia di vino
da finire -
Annuii. Al diavolo, annuii.
E lo seguii, incantato. Come un
topo, seguii quel pifferaio.
Ivan si lasciò cadere sul letto,
indicandomi una sedia poco lontana. Una parte di me mi urlava di restare in
piedi, di non addentrarmi troppo in quel qualcosa che non mi riguardava…
la misi a tacere, accettando il bicchiere che Ivan mi porgeva. Ci guardammo in
silenzio, lasciando respirare il vino.
- E’ ottimo –
sussurrai, incredulo – Eccezionale, davvero. Cos’è? -
- Non lo so – borbottò,
stringendosi nelle spalle – Lo comprai il giorno in cui misi piedi qui
per la prima volta. Non avevo mai avuto l’occasione di assaggiarlo –
Sentii distintamente il liquido
andarmi di traverso, quasi a guidarlo fossero le mie emozioni.
- Non ti strozzare, eh? –
sorrise Ivan, alzando su di me uno sguardo divertito.
Se possibile mi inquietò ancora di
più: non lo avevo ancora visto sorridere e quell’espressione, diamine,
somigliava troppo a quella del ragazzo nella foto. Avrebbe dovuto essere una
cosa positiva, eppure riuscì solo a farmi angustiare. Non capivo più niente.
- Lo senti? –
Aggrottai le sopracciglia,
cercando di capire a cosa si riferisse.
- Questo profumo – mormorò
– Lo senti anche tu? -
- Io… -
- Sei tu –
- Come? –
- La tua camicia – sussurrò
Ivan, avvicinandosi un po’ – Sembrano proprio gigli, sai? –
- Gigli? – ripetei, la mente annebbiata.
Annuì, bevendo il vino nel
bicchiere tutto d’un fiato: - Rosi impazziva per i gigli, ne amava il
profumo –
- Che occasione è oggi? –
chiesi, interrompendolo.
Lui mi fissò, sconcertato.
Arretrai appena, mordendomi la lingua.
Quella domanda mi stava
tormentando: non avevo mai avuto
l’occasione di assaggiarlo, così aveva detto.
Perché? Perché quel giorno, perché
quella notte, perché con me? Con me?!
- Ivan? – lo richiamai,
incapace di star zitto – Perché adesso? -
- Perché il tempo sta per scadere
–
- Quale tempo? – sbottai,
saltando in piedi – Di cosa diavolo stai parlando?!
–
- Ricordi le lancette? Si stanno avvicinando, manca poco. Ho aspettato tanto, sai? – si
versò altro vino, piegando la testa da un lato – Sono stato paziente, ho
atteso di sapere. Per lei –
- Sapere cosa? –
- E’ stato difficile. Hai
idea di quante volte ho pensato di farla finita? Un tuffo nel lago e sarebbe
finito tutto: il dolore, le urla… le sento ancora, non solo le mie, anche
quelle di Rossella. Mi svegliano la notte, non mi lasciano pace. Da undici
anni. Urla, urla, sempre urla –
Avrei voluto dire qualcosa, almeno
credo. Eppure non fiatai, lasciandolo continuare.
- Non mi sono buttato, ho
sopportato. Per lei. E il tempo sta per scadere -
Bevve, chiudendo gli occhi. Quando
li fissò nuovamente nei miei erano appannati, umidi di lacrime.
- Era la mia stellina, sai? La mia
piccola stella marina -
- Era? – chiesi, stringendo
gli occhi – Era, Ivan? –
Lui sorrise, un sorriso spento che
non si riflesse in quegli occhi tormentati.
- Il tempo sta per scadere -
- Cosa stai aspettando,
Ivan? –
Quella volta, però, non mi
rispose. Era come se non fossi più in quella stanza: si voltò dall’altra
parte, verso il letto vuoto. Il letto di Rossella.
- Manca poco,
Rosi, sei contenta? – chiese, la voce alterata – Non vedo
l’ora, lo sai -
Il bicchiere mi cadde di mano.
Sembrò che nessuno se ne fosse accorto.
Uscii da quella stanza, sperando
di lasciarmi alle spalle l’ombra nera che sembrava essermi piombata
addosso, desiderando seminare qualunque cosa mi stesse inseguendo per colpa di
quel ragazzo.
Mi stesi di fianco a Serena in
stato catatonico. La strinsi a me, affondandole il viso fra i capelli: avevo
bisogno di ritrovare il silenzio. Sembrava così difficile… impossibile.
Ero convinto che non sarei riuscito a dormire, eppure lo feci. Mi
addormentai, spegnendo il cervello: smisi di pensare, di rivivere, di
scandagliare le notizie. Dormii. Fino allo sparo.
- Avete sentito uno sparo? -
Sospirai, affondando il volto
nelle mani.
Era la decima volta che ci
facevano quella domanda. Sì, sì, sì. Avevamo sentito uno sparo.
- Sì, agente – rispose Serena,
nascondendo a mala pena l’esasperazione.
- Poi che avete fatto? –
Lo fissai, aprendo appena le dita:
stravaccato sulla sedia, i piedi sulla scrivania, un bicchiere di caffè in una
mano e una sigaretta nell’altra. Aveva un po’ di pancetta, gli
occhiali scuri poggiati sul naso.
Sembrava tanto che stesse cercando
di smaltire i postumi di una sbronza.
E sembrava ancora di più che non
gli importasse niente di noi.
Come dargli torto?
- Siamo corsi fuori dalla stanza
– rispose diligente Serena – E siamo entrati in quella di fianco
alla nostra -
- Perché? –
- Lo sparo proveniva da lì –
L’agente inarcò un
sopracciglio, sforzandosi apparentemente tantissimo.
- I muri sono sottili, si sente
tutto -
- E a voi è sembrato che lo sparo
provenisse da lì? –
- Esattamente –
- E siete corsi nella camera di
fianco alla vostra? –
- Sì –
- E cosa avete trovato? –
- Niente –
L’agente non trattenne più
il sospiro: eravamo tornati al punto di partenza. Quando fece per stringersi
nelle spalle Serena scattò, sbattendo i pugni sul tavolo e facendo sussultare
tutti:
- E’ questo il punto,
agente! – sbottò, serrando la mascella – Dormiva Gianluca, in
quella stanza. Avrebbe dovuto esserci Gianluca, in quella stanza. Eppure non
c’era nessuno! -
- Solo la valigia e la finestra
aperta – sembrò farci il verso l’agente, massaggiandosi le tempie
– Lo so, signorina, me lo avete già detto. Lo sparo, però, lo avete
sentito solo voi. E non c’è nessun corpo –
Serena sbuffò, tormentandosi le
mani. L’agente sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
- Siete gli unici ospiti, oltre
questo Gianluca? -
Serena scosse la
testa, cercando di tenere ferma la voce: - No – bisbigliò – E’ occupata
anche la terza camera: un certo Ivan, ma non è affidabile, agente –
- Perché? – con un gesto della
mano fermò la risposta di Serena – Voglio parlare con lui - disse,
rivolgendosi ad un secondo uomo. Quello annuì e si allontanò, silenzioso.
Tornò poco dopo, scuotendo la
testa.
L’agente sospirò, chiudendo
gli occhi: - No, cosa, Salvatore? –
- Non è possibile parlargli -
- Perché? – gemette
l’agente, finendo il caffè con un gesto nervoso.
- La stanza è disabitata, a quanto
pare – spiegò questi – Non c’è nessuno e sembra non ci sia
stato nessuno per molto tempo: i letti sono fatti, gli armadi vuoti e
impolverati. E’ disabitata, ripeto –
Allontanai lentamente le mani dal
viso, incredulo.
- Non è vero – biascicai,
scuotendo la testa con disperazione.
L’agente mi ignorò
completamente, guardando Serena con sufficienza:
- A che ora avreste sentito lo sparo?
-
- Alle tre e venti – rispose
lei, la voce incrinata.
- E questo Ivan che non c’è,
come me lo spiega, signorina? – chiese
l’agente.
La voce però si allontanava.
Sempre più.
Sbiadiva, come tutto il resto.
L’ultima frase di Serena mi rimbombò
nelle orecchie, amplificandosi di volta in volta.
E con quelle parole tutto si
ripeté nella mia testa, di nuovo, con un ordine differente questa volta.
E con quelle parole tutto era
diverso.
Con quelle parole, il puzzle
formava un’altra immagine.
- A
che ora avreste sentito lo sparo? Alle tre e venti –
- Quando torni, non è che proveresti ad aggiustarmi l’orologio?
Va cinque minuti avanti –
- Non aveva niente indosso. Solo un orologio, con lo schermo rotto.
Fermo alle tre e un quarto, mi sembra –
Il tempo sta per scadere.
- Vuoi ancora sentire quella storia? Sicura di non essertene stancata, Rosi? E va bene. Questa è la storia di
Ariel…-
- Questo è fuori posto. Non ti facevo tipo da La Sirenetta -
Il tempo sta per scadere.
- Ho fatto cadere il profumo –
– Sembrano proprio gigli, sai? Rosi impazziva per i gigli, ne
amava il profumo –
Il tempo sta per scadere.
Una collanina. Una catenina dorata, nascosta quasi interamente sotto
il tappeto. Sottile, con una stella marina a fare da ciondolo. - E’ di
mia moglie. Credevo di averla persa –
- Era la mia stellina, sai? La mia piccola stella marina -
- Era sposato? -
- Come, scusi? –
- Gianluca – gridai, quasi isterico – Era sposato? –
- Signore, si calmi –
- Paolo che ti prende? – mi strinse
il braccio Serena – Perché urli? –
- Era sposato, sì o no?! – sbottai, sfilando gli occhiali al poliziotto
brutalmente.
Quello mi guardò come se mi
vedesse per la prima volta.
- Io… non lo so! -
- Controlli, che diavolo! –
E aspettai. Attesi, forse per un
istante forse per un’ora. Non saprei dirlo né tanto meno vorrei.
Cercai di essere paziente, come lo
era stato Ivan.
Cercai di mettere a tacere le urla
che sentivo dentro di me, la consapevolezza che si faceva lentamente strada,
prendendo sempre più spazio. Instancabile, inoppugnabile.
- No, non era sposato -
E la risposta arrivò, lasciandomi
senza parole.
Chiusi gli occhi, lasciando
qualche istante al cuore affinché frenasse la sua corsa furiosa contro il
tempo.
Non c’era più bisogno di correre.
Perché il tempo non stava per
scadere.
Mi alzai in piedi, prendendo la
mano di Serena e tirando su anche lei.
Il tempo era scaduto.
Uscii da quel commissariato senza
voltarmi indietro.
E ancora oggi non mi vergogno di
essere andato via in silenzio, con il mio segreto.
§