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Autore: screaming_underneath    23/09/2011    4 recensioni
Dopo la grande battaglia tra i Cullen e i Quilieutes contro i vampiri italiani, i Volturi, la vita sembra ricominciare a trascorrere in modo tranquillo.
Si piangono i morti e si leccano le ferite, cercando di far finta che niente sia successo.
Renesmee, perduto il ragazzo-lupo cui aveva ormai donato quasi interamente il cuore, torna da Jake, ciò che le è rimasto assieme ai figli, cercando di condurre una vita all'insegna della normalità.
Sedici anni dopo Moonglow, briciole per l'eterna vita dei vampiri e dei lupi di Forks, tutto inizia, di nuovo, con un matrimonio. Anzi, due.
Tutti sono cresciuti, in particolare i figli di Renesmee, ognuno prendendo la sua strada, ognuno cercando di convivere con il fatto di essere qualcosa di più di un ordinario essere umano.
Quando la vita sembra andare per il meglio, esattamente all'alba del sedicesimo anno dalla fine della guerra contro i Volturi, ancora una volta, l'equilibrio si rompe...
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[Incompiuta]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quileute | Coppie: Jacob/Renesmee
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The New Twilight Saga '
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**Cap.III**

Bel sconosciuto

 

Gwen

«Seth, sei uno scemo!» gridai, scocciata e fuori di me, dal bagno. Lo sentii ridere dal piano di sotto. Il fatto di possedere entrambi un udito invidiabile ci consentiva di parlarci anche se su piani diversi... una vera comodità. Era pure divertente, in effetti, tantopiù che abitavamo in una casetta isolata sulla spiaggia di LaPush, al di fuori della portata delle orecchie di eventuali vicini.

Lo specchio davanti a me mi restituì per l'ennesima volta l'immagine di una ragazza magra, alta e dai capelli lunghissimi e senza una piega, arruffati in strani nidi di rondini. Ci passai una mano sopra, cercando di scioglierli, inutilmente: sembravano ormai provvisti di vita propria, avrei dovuto dargli battaglia armata di balsamo, lo sapevo.

«Basta una maglia a collo alto, amore.» mi rispose lui semiserio, esaurito il latrato fin troppo lupino cui si era lasciato andare. Avvampai, posandomi entrambe le mani sul collo, dove il segno dei denti di mio marito era ben evidente contro la mia pelle scura, rosso e gonfio. Non mi aveva fatto male né me ne faceva in quel momento, certo, la mia pelle era ben più resistente... ma il ricordo di come me lo ero procurato, di come me lo aveva fatto lui era abbastanza imbarazzante, per me.

Quello che facevo nella mia intimità, doveva rimanere affar mio... e di Seth. Basta.

Andare in giro a quel modo, con quel marchio ben in vista, sarebbe stato come gettarsi volontariamente in una gabbia di leoni, tu gazzella tremante ed indifesa.

Conoscevo troppo bene il branco per sapere quali domande volassero, quali allussioni e racconti venissero condivisi. Erano maschi, certo, ma non mi andava di dovermi ritrovare nel bel mezzo delle frecciatine di una ventina di lupi, tantopiù se al loro comando c'era mio padre.

«Siamo a Luglio, Seth. Non credo che sarebbe... bizzarro? Io non mai freddo, come potrei giustificare un collo alto o una sciarpa? Non ho mai preso un raffreddore o una febbre in vita mia, prima che tu lo dica.» lo anticipai. Sentii lo sbuffo di mio marito – e un brivido mi percorse la schiena, in quel momento, come sempre, dopo quella parola – riecheggiare per la casa.

« Allora non lo nascondere. Personalmente, mi piace. Ti da un tocco particolare... sei mia, insomma. Tutto il mondo lo deve sapere, deve sapere che amo la mia donna.»

«Questo è da barbari primitivi, Seth. Io non sono una cosa di tua proprietà, anche se porto il tuo cognome. Sono una donna, prima di tutto. Non qualcosa sopra cui pisciare per marcare il territorio.» sbottai, trasformandomi in un'aquila e planando fuori dal bagno, in picchiata giù per le scale. Seth era ancora in cucina, alle prese con un grosso toast ripieno di mortadella e maionese. Bleah.

Atterrai sopra la sua spalla con uno stridio scocciato. Volevo fargli capire che dovevo essere libera di fare ciò che mi pareva. Dov'era finito il Seth imbarazzato di quella prima notte, che si era lasciato guidare da me, timido e tremante?

Tutti uguali. Pensano che dopo averci visto nude possano fare gli smargiassi.

Piantai gli unghioli nella carne nuda e morbida di lui, soddisfatta dal grido di dolore e sorpresa che lo accompagnò: la mia rivincita sarebbe durata solo un minuto, o giù di lì, il tempo necessario a far rimarginare l'epidermide certo, ma era lo stesso... appagante. Lanciai un acuto, adesso fiera di me.

«Va bene! Scusa, scusa. Hai vinto, contenta la mia femminista piumata?» gemette lui, scacciandomi. La mia risatina riecheggiò, cambiando tono mentre mi ritrasformavo. Lo abbracciai da dietro, nuda, facendo in modo che il mio corpo e il suo fossero perfettamente combacianti.

«Ti amo Seth.» mormorai, in gesto di resa, inebriandomi del suo calore.

«Mmmff!»

«Seth?»

«Scusa, il panino mi strozzava. Ti amo, Wendy.» rispose lui, in un colpo di tosse.

Come mandare a puttane un momento perfetto.

Mi scostai, a metà tra lo stizzita e il divertito, facendo l'offesa, la cosa mi riusciva meglio, con lui. Incrociai le mani al petto, dirigendomi senza dir nulla verso le scale che portavano al piano di sopra, passando nuda e senza pudore davanti alle grandi vetrate che davano verso il mare. A meno che qualche turista distratto si fosse inerpicato tra i bassi cespugli spinosi e gli alberelli, era impossibile che mi vedessero.

Sentii Seth dietro di me sbuffare, rincorrendomi. Sapendo bene cosa avrebbe fatto, di lì a poco, mi fermai, con un sorrisetto che spuntava nel broncio finto in cui mi ero chiusa. Le mani di mio marito mi presero per i fianchi, con tutta la dolcezza del mondo, dandomi alla testa: mi sciolsi del tutto, quando le sue dita sfiorarono i punti più sensibili della mia schiena, in una carezza.

«Non ti perdonerò così...» inziai, ma mi zittì. Con uno slancio, ancora sporco di maionese sulle labbra, Seth mi baciò, un bacio bricioloso e appiccicoso, ma bellissimo, come sempre.

Lo avevo già perdonato, come potevo tenere il muso? Eppure, rimasi ancora sulle mie, mentre mi portava al piano di sopra, veloce come un fulmine, e mi adagiava sul letto ancora sfatto, da cui ci eravamo appena alzati.

Eravamo giovani, pieni d'amore da dare e da ricevere... e sembrava che, da sette giorni a quella parte, non fossimo capaci di fare null'altro.

 

 

Avevamo deciso di non fare nessun viaggio di nozze. Io ero tornata da poco – il solo pensiero di ripartire mi dava la nausa – e Seth era sempre più preoccupato per sua madre e Charlie, ormai vecchi e pieni di acciacchi. Sue aveva da poco avuto uno dei suoi famosi “episodi cardiaci” come li definiva il vecchio medico di famiglia , un anziano uomo che doveva aver visto gli albori della sua carriera nel millenovecentosettanta, forse prima e che non riusciva a decidersi a lasciare il posto a qualcuno di un minimo più giovane.

Non era la prima volta che la signora Swann – lei e mio nonno si erano sposati dodici anni prima, e nel migliore spirito americano Sue aveva preso il cognome del secondo marito– si era sentita male, crollando sul pavimento, da un momento all'altro. Ormai, secondo i medici, il cuore non avrebbe sopportato ancora per molto, e la sola idea di un trapianto, oltre che sconsigliata dai grandi cervelloni del Seattle Grace Hospital e persino da Carlisle, metteva i brividi all'anziana, che iniziava a timorare delle capacità della medicina.

Quindi, niente vacanza.

Ma non mi importava.

Passavo ventitré ore al giorno assieme a Seth, persino durante le ronde adesso più frequenti, dopo l'attacco allo straniero in cura a casa Cullen, lasciandolo solo quando era strettamente necessario. Eravamo la coppietta del momento, e pure mio padre e mia madre erano stati surclassati dal nostro “giovane amore”, come lo definiva mia zia Alice. Per il momento, ancora non ci eravamo stancati. Sapevo che prima o poi l'euforia che provavo costantemente, quando guardavo l'anello che portavo al dito o anche solo pensavo al nome sul campanello di casa, sarebbe scemata, fino a divenire qualcosa di ordinario... ma non era ancora arrivato quel tempo. Per il momento, io e Seth eravamo nauseabondamente stucchevoli, come gli Agaporins, i pappagallini inseparabili.

«Devi proprio?» chiesi, scocciata, mentre con sguardo di rimpianto guardavo il mio uomo rimettersi i pantaloni. Non avevo voglia di alzarmi dal letto, di vestirmi e ricongiugermi al resto del mondo: avevo scoperto che rimanere rannicchiata tra le coperte, stretta accanto all'uomo che amavo, era la cosa più soddisfacente della mia esitenza, e non volevo ancora separarmene.

«Alzati, Gwendolen. Non dovevi andare a far visita al nostro Jhon Doe*?» mi convinse Seth, con un'ammiccatina. Sapevo che durante un giro di ronda e l'altro, se facevo la brava, mi avrebbe potuto pure far correre un po' accanto a lui, eludendo la guardia di mio padre. Negli ultimi giorni si era trasformato poco, preferendo delegare la suddivisione delle ore di ronda a Seth o Embry, per chiudersi per ore assieme a Sam a fare loschi piani futuri per casi di pericolo o necessità. Sembrava che l'arrivo dello straniero avesse gettato i miei familiari nel caos più totale, e una sottile striscia di panico si stava pian piano facendo strada anche in me. Più volte mi era parso di captare la parola Volturi, la grande famiglia italiana che a quanto pare ci odiava selvaggiamente, per dispute e controversie che ormai andavano avanti da quasi cinquant'anni.

In quel caos generale, tra genitori apprensivi che ogni tanto tornavano a trattarmi come una bimbetta e gli orari proibitivi cui Seth si dava da fare con il branco, mi ero offerta di passare un po' di tempo con il bel sconosciuto, ormai in netta ripresa e senza il minimo ricordo di ciò che gli fosse accaduto.

«Vero. Avevo detto a Carlisle che sarei arrivata verso le dieci, e sono già le undici.

Forse dovrei andare. Colpa tua, colpa tua!» borbottai, scherzosa. Lui mi fece un occhiolino complice, soffiandomi un bacio con il palmo della mano.

«Fatti trovare tra due ore al ruscello, al solito posto. Fai un giro con me e con Fred, oggi, ti va?» mi chiese, come se non fosse ovvio. Adoravo trasformarmi, trasformarmi in lupa, in particolare. Avere quattro zampe e un naso finissimo era un'esperienza unica. Se poi potevo correre accanto all'uomo che amavo, tanto meglio. Annuii, iniziando la difficile scelta della camicetta – doveva essere abbastanza accollata da coprire il segno rosso dei denti di Seth ma non troppo da poter sembrare sospetta.

«Ti amo!» mi gridò lui, scendendo le scale. Mugulai un sì, distratta, facendomi largo tra tessuti improbabili che mia zia Alice mi aveva ficcato a forza nell'armadio, evitando accuratamente di ascoltare ciò che ne pensavo a riguardo.

No, no. Mmm... forse? Gettai una camicetta sul letto alle mie spalle, aprendo anche l'ultimo dei miei cassetti, in cerca di qualcosa di più efficacie.

Senza che me ne rendessi conto, lo sguardo mi portò di nuovo verso lo specchio del mio grosso guardaroba in castagno, che per di più mal si addiceva con la vecchia ma comoda casa che era stata di Billy Black.

Il mio aspetto mi fece venire un colpo.

Oddio. I capelli!

Corsi in bagno, frenetica, chiamando a gran voce un pettine ed un balsamo.

 

 

Quarantacinque minuti più tardi, con un ritardo che mi parve a dir poco imbarazzante, bussai finalmente alla porta della grande casa dei miei bisnonni materni, cercando di intrappolare senza successo un ricciolo ribelle nella stretta crocchia pericolante che mi ero avvolta in cima alla testa. Lo lasciai pendere, sconfitta.

Mia nonna Esme mi accolse con un bicchiere dall'inquietante color rosso e dall'odore invitante, e lo bevvi tutto d'un fiato. Non avevo fatto colazione in nessun modo, quella mattina, e lei doveva saperlo: mia nonna continuava a viziarmi come se avessi ancora cinque anni e fossi imbronciata per i capricci di Moonglow, con lo stesso identico sorriso di sempre. Tra le figlie di sua nipote, sapevo di essere la sua preferita, e ciò mi rincuorava molto. Non mi reputavo la stella della famiglia – quelli lo erano di certo la plurilaureata Moonie e il Grande Artista, mio fratello Ben – e sapevo che di certo con quei sei anni di assenza i miei fratelli e le mie sorelle avevano sicuramente avanzato di posizione, spodestandomi... ma non Esme. La mia nonna vampira ed io eravamo legate da un rapporto speciale, fin da quando, alla tenera età di tre anni, mi aveva insegnato a cucinare una torta. Non solo a preparare l'impasto, come le altre nonne mortali, ma addirittura mi aveva istruito su come regolare il forno, e come accenderlo. Mi aveva sempre reputato molto grande per la mia età, molto seria ed intelligente, tanto da lasciarmi smaneggiare ai fornelli da sola fin dall'infanzia. Mia sorella Moonglow mi aveva sempre invidiata per questa mia possibilità, e nonostante fosse ancora meno interessata di me al cibo umano, ancora adesso mi faceva pesare la mia conoscenza dei tipici piatti dell'americano medio.

«Grazie nonna. Il nostro ospite?» chiesi, baciandole una guancia e tendendole il bicchiere vuoto, entrambe ancora sulla soglia di casa. Mi sorrise, facendosi da parte, elegante persino con il vecchio grembiule che usava, adesso più spesso che in passato, per preparare il pranzo ai suoi familiari provvisti di fame di cibo normale.

«Nello studio di Carlisle, sta guardando la tv e facendo colazione. Oggi ha parlato un poco, sforzandosi di meno che nei giorni scorsi... Tuo nonno dice che forse ha avuto qualche trauma al cervello, quando è stato attaccato. Vai, vai su. Avrà sicuramente piacere di ricevere una visita.»

Salii gli scalini in fretta, a due a due, quasi scontrandomi con mio nonno, in cima ad esse. Non mi ero resa conto della sua presenza, ancora presa a fantasticare, di buon umore, su me e Seth, poche ore prima. Era sano non riuscire ad evitare di pensare al sesso con mio marito?

«Buongiorno tesoro. Oggi il nostro Jhon Doe è particolarmente sveglio, deve sentirsi meglio. Le ferite si sono tutte già richiuse, un fatto straordinario considerato che sono sette giorni fa moriva dissanguato nella spiaggia di LaPush. Vorrei solo che si ricordasse qualcosa, sul suo attentatore, sulla sua vita, la sua provenienza... Alice continua a non vedere nulla nelle sue visioni, è un po' come per te e i tuoi fratelli, o i lupi... come se non fosse del tutto umano. Non so. Su, entra pure. Non farlo sforzare troppo, ma cerca di farlo parlare un po'... qualunque informazione ci può essere d'aiuto, ora come ora. È stato fortunato ad essere piombato proprio qui, e non nel bel mezzo della città. Sarebbe risultato un po' anormale, credo.» mio nonno si fece da parte, indicando la prima porta a sinistra, quella dove anni prima aveva spostato il suo studio-camera d'ospedale, dove ricoverava coloro che trovava per strada e dove mia madre e mia nonna, tanti anni prima, avevano entrambe partorito. Forse un giorno anche io...
Interruppi quel pensiero, un poco spaventata. Non volevo pensare a dei figli in quel momento, non era ancora ora. Io e Seth eravamo freschi di matrimonio, e la parte noiosa della vita coniugale non ci si era prospettata davanti. Dare tempo al tempo, ecco tutto.

«Ricevuto capo!» mi portai una mano alla testa, nel saluto militare, un gioco che facevamo sempre io e lui quando ero piccola, alla sera, per salutarci prima di che andassi a letto. Ormai erano anni che non ci pensavo e il fatto che mi fosse venuto così, spontaneo, mi riempì di sorpresa.

«Siamo tutti felici di riaverti qui, Gwen, sappilo. Il tuo vecchio nonno ti vuole ancora bene, sai? Vai, non ti trattengo.» aggiunse, cercando di rimediare all'attimo di sentimentalismo cui si era lasciato andare. Gli sorrisi, di buonumore.

«Ah! A proposito. Sai per caso se Leah sa qualcosa di questa storia? Viene qui almeno due volte al giorno, per sapere come sta il nostro inquilino misterioso, e se non dorme, sale nello studio per qualche ora. Non so, mi pare strano.. Leah non è mai entrata un granchè volentieri in casa nostra, non ci sopporta, è risaputo. Non si trasforma neppure più... eppure, eppure sembra che qualcosa sappia, o non ci voglia dire. Seth ti ha detto nulla a riguardo?» mi domandò curioso Carlisle, guardando alternativamente me e la porta di casa, ai nostri piedi, più in basso.

«Strano... no, Seth non mi ha detto nulla. Magari si vuol solo rendere utile a mio padre, no?» risposi con ingenuità, anche se suonava strano anche a me. Vidi mio nonno scuotere la testa, poco convinto.

«Sarà... beh, non importa. Fin quando non si lamenta della puzza, ho scoperto che può anche essere una buona compagna, sai? Ci siamo fatti una chiacchierata abbastanza profonda, l'altro ieri.» mio nonno ridacchiò, ricordando chissà cosa. Lo salutai con un cenno del capo, girandogli le spalle ed afferrando la maniglia della porta.

Dal di dentro il rumore umido del cuore del nostro misterioso protetto mi fece perdere per un attimo la cognizione dello spazio intorno a me, ma solo per poco. Ormai, ero abituata all'odore di sangue umano, a quella perfetta pompa nel centro del loro petto che sembrava battere ritmica solo per me, per la mia sete.

Eppure, l'odore di Jhon Doe non era nulla di umano, me ne accorsi quando aprii la porta, pian piano, come temendo una mia reazione.
Era come... come quello dei lupi, di Seth, di mio padre... ma ancora diverso. Qualcosa di selvatico, di strano mi distraeva dall'idea del suo sangue e non seppi se esserne felice o spaventata.

Chi era la persona stesa sul lettino reclinabile preso dall'ospedale, con in mano una pallina da pingpong bianca, che lasciava andare e riprendere ad una velocità impressionante? Possibile che mio nonno non si fosse reso conto di quelle stranezze?

Mi schiarii la voce, per richiamare la sua attenzione.

«Buongiorno! Si ricorda di me signore? Sono già venuta a farle visita, qualche giorno fa.» domandai gentilmente, avvicinandomi. Lui continuò a lanciare e riprendere la pallina, spostando però i suoi occhi dal gioco a me. Incredibile.

«Buongiorno. Gwendolen, vero?» mi chiese lui, sorridendo. Annuii, contenta che si ricordasse di me. L'ultima volta che l'avevo visto, era in preda alla febbre e al delirio, e gli ero rimasta accanto pe molte ore, accudendolo come meglio potevo, assieme a mia madre e zia Alice.

« Solo Gwen o Wendy, il mio nome completo è troppo lungo. Ricorda il suo?»

«Non ancora. Ho un enorme buco di memoria, è frustante... non sapere chi sono mi sta facendo uscire fuori di testa. Tuo padre è stato fin troppo gentile con me, mi date vitto ed alloggio... e cure mediche. Senza di lui, probabilmente sarei morto... ricordo solo un gran dolore, dappertutto. Grazie, voi mi avete salvato. Grazie davvero.» mise da parte la pallina, per tendermi una mano riconoscente, anch'essa segnata, come per il resto del corpo, da un fitta ragnatela di morsi di vampiro. Non ricordava come se li era procurati e per il momento Carlisle li aveva giustificati come un'attacco di un animale feroce, tra le possibili cause delle sue ferite.

Non sapevamo chi fosse, cosa fosse. Non poteva essere un semplice umano – i morsi erano troppi e la ferita troppo estesa perché fosse anche solo possibile che fosse sopravvissuto – ma non era neppure un vampiro, né tantomeno un mutaforma, per quanto ne potessimo capire.

L'unica stranezza del corpo del nostro sconosciuto, a detta di mio nonno, era proprio quella di sembrare un semplice essere umano. La temperatura di Jhon Doe era normalissima, sui trentasei gradi corporei, da poco aveva riscoperto il cibo solido e i suoi occhi erano di un bellissimo grigio-blu, che variava a seconda del tempo. Tolta quella strana abilità in quel gioco con la pallina, era un semplice umano. Certo, era appena sopravvissuto a qualcosa come trentaquattro morsi diversi di una creatura immortale, e altri già segnavano il suo corpo come tatuaggi, vecchi e lucidi, e sembrava che il veleno dei vampiri non fosse stato per lui cause di problemi...

«...E non darmi del lei. Sono giovane, a quanto vedo. Il lei si usa tra persone che non si conoscono, e anche se non ho idee sul mio nome, sul mio passato e la mia vita, e del perché mi stessi dissanguando nella spiaggia quella notte, noi ci conosciamo. Mi hai salvato la vita, me l'avete salvata tutti. Vi conosco.» ripetè con semplicità, puntando gli occhi oltremare nei miei e facendomi l'occhiolino. Mi sedetti su di una sedia, accanto al suo letto. Il televisore borbottava, facendo da sottofondo alle nostre chiacchiere.

Per qualche strano istinto guida che viveva dentro di me, sapevo che quell'uomo mi piaceva e mi potevo fidare.

 

Rimasi lì due ore, chiacchierando come con un vecchio amico. Voleva sapere tutto sulla mia vita, e nei limiti del possibile cercai di non mentirgli, descrivendo la mia famiglia e il mio neo sposo. George, come aveva scelto di chiamarsi fin quando non avesse recuperato i propri ricordi e la cognizione di sé, si era stupito che avessi già le fede al dito, e mi aveva guardata a lungo, con occhi intensi e profondi.

«Lo ami davvero? Tuo padre Carlisle era d'accordo con la tua scelta? Racconta!» mi spronava. E io parlavo, e parlavo ancora, cercando di non fare caos nel guazzabuglio di legami parentali che mi ero dovuta inventare per non destare sospetti. George credeva fermamente che mio nonno fosse mio padre, e non ebbi cuori di dirgli la verità, di come stavano veramente le cose... non mi pareva carino incasinargli la vita con il nostro Beautiful casalingo.

Parlai, e parlai, e parlai.

Quando Leah arrivò, erano ormai le tre del pomeriggio.

Mi ero persino scordata della corsa con Seth.

 

 

 

Leah

Ero su di giri, una cosa strana per me, che cercavo sempre di apparire fredda e distaccata.

Io, che per anni avevo ingoiato bile per Sam ed Emily, diventato rude ed acida fino a non riconoscermi più, la Leah che odiava passare il tempo con le persone e che da un po' di tempo era tornata a vedersi invecchiata, allo specchio, io, proprio io, stavo per l'ennesima volta controllando che la camicia mi cadesse bene sui jeans.

Mi ero vestita bene. Oh, andiamo, chi voglio prendere in giro? Mi vestivo sempre bene, da un po' di tempo a questa parte.

Quando andavo da lui, il mio uomo sconosciuto, cercavo sempre di apparire al meglio. Sorridevo... ma non era il mio solito sorriso tirato, finto. Mi ero resa conto che quando lo vedevo, seduto sul letto intento a guardare la tv – negli ultimi giorni – oppure disteso dormiente, con la faccia pallida – le prime volte – tutto era più luminoso, più bello. Non era da me essere in quello stato di euforia, questa cosa mi spaventava un po', in effetti. Non potevo essermi davvero presa una sbandata da quindicenni per un tizio pieno di cicatrici di morsi, misterioso e all'apparenza senza un passato e una memoria, oltre che dei capelli lunghi da sembrare provenire direttamente dal milleseicento.

Eppure, era così.

Suonai il campanello di casa Cullen con insistenza, fremente di attesa, lisciandomi ancora una volta la camicia con le mani.

Ormai, Esme mi aveva accolto come sua figlia adottiva, per quando ero riuscita a capire, anche se dovevo convenire che la giovane nonna- vampira dal cuore d'oro prendeva sotto la sua ala protrettrice chiunque gli capitasse a tiro. Da parte mia, non sapevo ancora se mi piacevano i Cullen, e se i modi da mamma chioccia di Esme si erano guadagnati il mio benestare.

 

Erano passati anni, tanti anni, da quando li odiavo con tutta me stessa.

Quella era la Leah-lupa e quella parte di me ormai era seppellita e sepolta, dietro alla Leah-umana che pian piano invece riemergeva, con le prime rughette – avevo calcolato che avessi raggiunto ormai almeno i trentaquattro anni umani – il fatto che la mia vita sedentaria mi avesse fatto metter su peso, cosa che mai era successa quando mi trasformavo e mangiavo per quattro, e che i miei capelli, un tempo di un bel color nero corvino dai riflessi quasi bluastri, iniziassero a perdere la loro lucentezza. Se continuavo di quel passo, in pochi anni sarei diventata una grassa, canuta signora con un sacco di ciccia sballottante.

In fin dei conti, era quello che volevo, vero?

Ormai, anche i Cullen erao diventati per me del tutto indifferenti, parte di una vita che non mi apparteneva più. Per questo, e per lui, mi ero sforzata di avvicinarmi all'imponente casa, e a suonare il campanello.

La Bionda – Rosalie, una tra le poche che non faceva mistero del suo odio verso noi pulciosi di LaPush – mi aprì di malavoglia, con un cenno del capo come saluto. Non ci eravamo mai scambiate una sola parola. La sorpassai, dirigendomi come un'automa al piano di sopra. Sentii muoversi Carlisle in una delle stanze, ma decisi che lo avrei salutato più tardi: volevo vedere lui, il mio stupido cervello non ammetteva distrazioni.

Mi avvicinai alla porta quasi con timore. E se aveva recuperato la memoria? E se non si ricordava di me? Il più delle volte, quando ero andata a trovarlo, dormiva o era ancora in uno stato acuto di confusione. Solo la sera prima avevamo parlato un poco, per poi addormentarsi a metà di un discorso. No, decisi, probabilmente non gli sarei mai interessata... ero solo una dei tanti sconosciuti che lo avevano salvato, e che adesso gli giravano intorno come mosche, aspettando che ricordasse qualcosa di succoso del suo passato.

Una risata cristallina mi trapassò le orecchie, all'improvviso, e capii che lui non era solo. Inspirai profondamente, cercando di non far caso all'odore dolce e nauseante allo stesso tempo dei vampiri che infestava la casa.

Gwen Clearwater.

Cercando di accettare di dover condividere il mio bel straniero con la mia dolce cognatina – non che avessi nulla contro di lei, era una ragazza apposto, molto sulle sue ma comunque simpatica, se voleva – entrai, abbassando la maniglia senza neppure bussare.

 

 

Mi venne un colpo.

Aprii la bocca, senza riuscire a buttar fuori null'altro che un bolo d'aria, smettendo di respirare.

Gwendolen, la moglie di mio fratello, figlia di Jacob Black e di una strana mezzovampira che dovevo ancora trovare il modo di apprezzare veramente, era china sul mio bel sconosciuto.

Per un attimo, credetti davvero che si stessero baciando. Il mio primo pensiero fu che tutte le volte che avevo tra le mani qualcosa o qualcuno per cui vivere veramente, qualcun'altro era sempre pronto in un angolo buio, ad aspettare il momento di portarmelo via. Il mio secondo pensiero, invece, fu per mio fratello, che pareva tanto felice nella bolla d'oro che l'imprinting gli aveva donato. Il terzo pensiero, quello che più minò il mio autocontrollo, fu una vivissima immagine dei miei vestiti che esplodevano, e le mie zanne che si chiudevano intorno al collo di Gwendolen Black-Clearwater. Che Jake poi si vendicasse come voleva.

Presi un respiro profondo, cercando di non scoppiare, dando tempo al mio cervello di analizzare la situazione.

«Aspetta... ecco, così. Cerca di non muoverti, o l'ago uscirà di nuovo, George.» sentii dire da Gwen, in tono di rimprovero.

«Sì capitano! Scusa... e grazie. Carlisle mi avrebbe fatto una delle sue sfuriate, come medico è davvero severo! » ridacchiò, mentre lei si staccava finalmente dal corpo del mio bel sconosciuto, dandogli una pacchetta su di una spalla. Il sollievo mi riempì come un balsamo... non si stavano baciando, idiota che non ero altro. Perché dovevo sempre vedere cose che non c'erano? Seth mi rimproverava spesso per questa mia tetra abitudine, ma era connaturale in me. Da quando tutto e tutti mi avevano voltato le spalle, la vita per prima, tendevo a giudicare precipitosamente ogni situazione un minimo equivoca.

Leah Clearwater colei che non dava spazio al dubbio.

George?

« Oh! Ciao Leah, ci fai compagnia? Stavamo parlando di te giusto adesso... congraturazioni, deve essere bello avere in famiglia una ragazza così splendida!» mi salutò lui, alzando la mano con la flebo per salutare. Vidi Gwen lanciargli un'occhiata preoccupata, allungando le dita per sostenere l'ago, prima che si sfilasse di nuovo.

Senza che me ne rendessi conto, il mio sguardo risalì fino al petto nudo sotto la camiciola aperta di lui, rimanendo impigliato tra i muscoli di esso. Per tutto il torace, come un tatuaggio fatto male, quelle che mi sembravano migliaia di cicatrici.

Morsi.

Mi riscossi, sorridendogli e alzando lo sguardo prima di fare la figura dell'idiota. Sperai di non dover arrossire arrivata all'altezza dei suoi occhi, e mi irrigidii, cercando di distendere i muscoli facciali il più possibile.

«Oh, certo. Gwen è una brava ragazza, mio fratello ci ha visto giusto, per una volta. Hai recuperato la memoria?» chiesi, con un briciolo di apprensione, perdendomi senza volerlo nei suoi bei capelli.

Magari ha una ragazza, forse è sposato e con dei figli... magari è gay, con la fortuna che mi ritrovo.

«Oh! No, putroppo. Però siccome Jhon Doe era davvero pessimo, come nome, siamo arrivati a patteggiare un George Green. Ti piace?» Gwen mi scrutò, scannerizzandomi, probabilmente cercando di capire perchè malcelassi il mio nervosismo male a quel modo, po perché i miei occhi non si staccassero dall'uomo alla sua sinistra.

«O-oh. Sì, mi piace. George. Sì, mi piace!» ripetei, cercando di suonare più convinta.

C'era una sedia, vicino al letto, e me ne impropriai, con un guizzo veloce. Dovevo sedermi, non avrei potuto sopportare ancora per molto quel blu oltremare senza iniziare a tremare.

«Tutto ok, Leah? Devo chiamare Carlisle? Mi sembri un po' stranita...» ipotizzò la mia cognatina, impicciandosi. Le lanciai un'occhiata inviperita, prima che finisse di dipingermi come un'idiota totale. Scossi la testa, cercando di riprendere il controllo su di me, invece di far emergere il mio lato da sedicenne in piena tempesta ormonale.

Non potevo essermi innamorata di uno sconosciuto, cavoli.

Non potevo... o forse sì? Alzai di nuovo gli occhi verso George, scoprendo che anche lui mi fissava, un po' preoccupato. In un lampo di follia, presi la palla che mi era stata lanciata involontariamente al balzo.

«In effetti, potrei avere un bicchiere d'acqua? Mi farebbe piacere, grazie Gwen» la pregai, subdola. « Anche un biscotto, magari. Credo di avere un calo di zuccheri, mi sono fatta una corsetta prima di venire qui...» da quando le bugie confluivano così tranquille dalla mia bocca? Dovevo essere davvero impazzita.

Vidi Gwendolen annuire, dirigendosi verso la porta con un cenno del capo.

«Ritorno subito, cerca di non farla svenire, eh, George?» scherzò, facendo l'occhiolino verso il mio bel sconosciuto. Mi lasciai andare ad una risatina, mentre lei usciva, scendendo le scale in velocità.

Un groppo mi raggiunse lo stomaco.
E adesso?

Non mi ero preparata nessun discorsino smielato, nessuna dichiarazione a cuore aperto. Eravamo due persone che solo una settimana prima erano due perfetti sconosciuti, e di cui una probabilmente neppure era interessata all'argomento, in quanto vissuto in stato semi-comatoso per cinque di quei sette giorni.

Tossicchiai, prendendo tempo, mentre un alone di imbarazzo calava nella camera.

George-sconsciuto, come capendo, accese la tv, sintonizzandola sul canale del giornale radio.

Un assasinio... un rapimento di una bimba... un gruppo di ragazzi che aveva dato fuoco ad una statua... le solite notizie.

Nessuno parlava, ed io ero sempre più imbarazzata. Non ne sapevo un granchè di approcci con l'altro sesso, non c'era mai stato nessuno prima, ne tantomeno dopo Sam. Ero un po' arrugginita... come si fa la prima mossa con un uomo allettato, senza nome ne memoria?

«Ehm... ehm. Allora, come va? L'ultima volta che ti ho visto non eri ancora molto in te. Abbiamo parlato un poco, ricordi?» iniziai, maledicendomi per quegli ehm inziali. Cavoli, era un'adulta, o no? Non sarei andata da nessuna parte, in quel modo.

« Già, è vero. Avevo la febbre... ma il tuo nome lo ricordo, però, e Gwen mi ha raccontato di tutti, anche di te. Sei molto vicina a tuo fratello, vero? Mi ha anche detto che sei stata tu a trovarmi, sulla spiaggia. Grazie, se sono qui lo devo anche a te.» mi sorrise lui, un sorriso dolce e pieno di riconoscenza. Ricambiai, senza accorgermene, di nuovo.

«Beh, sì... diciamo che ho contribuito anch'io, sì.» borbottai, senza sapere come mandare avanti il discorso.

Non era stata una buona idea far uscire Gwen, forse. La conversazione stava cadendo nel banale... mi misi a gocherellare con il mio ciondolo, lo stesso da quelli che mi parevano secoli. George, dal canto suo, dopo i ringraziamenti di circostanza, sembrò di nuovo donare la sua attenzione alla tv, che adesso parlava di non so quale partita di football prevista nella serata.

«Che bell'anello.»

Sobbalzai, arrossendo.

Mi stava guardando.

«Questo? Oh, nulla di che. Un ricordo.» minimizzai, cercando un argomento qualsiasi per non dover parlare di quello. Cosa ci eravamo detti l'ultima volta? Non ero così in imbarazzo, il giorno prima.

«Tuo marito?» si informò lui, deciso a continuare in quella direzione. Non sapevo se raggelarlo con lo sguardo, intimandogli di smettere, oppure di rispondere gentilmente. Scelsi la seconda opzione, magari avrebbe portato a qualcosa, mentii a me stessa,

«No. Il mio ex. Una storia piuttosto importante, di tanti anni fa. Non sono sposata.»

«Oh, mi spiace. Sai? Credo di non esserlo neppure io. Non ho anelli, nè carta d'identità ma... credo di non avere nessuno, al mondo. Sarei finito sui telegiornali locali altrimenti, non trovi? Devo essere solo.» lo disse come un dato di fatto, rassegnato, e mi sentii sciogliere dentro.

Hai sempre me, se vorrai.

Ma non lo dissi. Invece, gli presi la mano, stringendogliela forte.

«Adesso hai noi. Siamo o non siamo i tuoi beniamini? Una famiglia intera al tuo servizio!» cercai di scherzare, anche se alle mie orecchie suonò come un sentimentalismo assurdo.

Questa non è Leah. Non sono io, cavolo. Dov'è finita la Leah che se ne sta sulle sue, incazzata col mondo? Oh, merda, vedrai che adesso mi ride in faccia.

«Beh, immagino di sì. Mia signora, potresti sprimacciarmi i cuscini?» ridacchiò George, facendomi l'occhiolino. Sorrisi, di nuovo, del tutto naturale, alzandomi e portandomi dietro la sua schiena.

Il contatto con il suo corpo fu come una scarica di adrenalina. Sobbalzai, cercando però di non darlo a vedere, mentre cercavo con tutta la lena possibile di dare una forma alla pila di cuscini che gli sostenevano la schiena.

Puah!

La vera Leah dentro di me si ribellò ancora, ma la soffocai con un ringhio interiore, mettendola a cuccia.

«Meglio?» domandai, premurosa. Lui annuì. «Grazie! Oh! Ecco che torna Gwen.» mi anticipò. Guardai verso la porta, pensando di vederla entrare, ma non fu così. I suoi passi, risuonavano per le scale, ancora in basso. Come cavolo ci era riuscito?

Ad ogni buon conto, ritornai sulla mia postazione sulla sedia, cercando di riprendere la mia faccia-da-calo-di-zuccheri, per mantenere la farsa. Inziavo a disgustarmi, sul serio.

«Ecco qui, Leah! Carlisle ha insistito perché ti portassi uno di questi integratori, assieme all'acqua.» cinquettò Gwen, di buon umore, con la sua migliore faccia da infermiera.

All'improvviso, mi venne un impellente voglia di vomitare. Senza dire nulla, uscii dalla stanza, spintonando da parte Gwendolen con malgarbo. Avevo bisogno di aria, subito. Per le scale trovai Carlisle, che mi lanciò un'occhiata preoccupata, ma non mi fermai a dire nulla, capicollandomi fino alla porta d'ingresso come un'ubriaca.

Basta. Basta. Non posso, non ci riesco.

 

 

Rimasi a respirare profondamente, assaporando l'aria calda di inizio Luglio, per quasi mezz'ora, rannicchiata tra gli alberi della foresta, quella foresta che conoscevo a menadito, che da lupa avevo percorso un milione di volte, durante le ronde o le sfide che ci lanciavamo io e Jake. Mi resi conto che mi mancava davvero la trasformazione, il sentire il terreno sotto le quattro zampe, la sensazione dei cespugli tra la pelliccia. Cancellai quel desiderio subito, prima che mi venissero altre brillanti idee, cancellai tutto.

 

Ero nauseata da me stessa.

Per quella manciata di minuti passati con il mio bel sconosciuto, con George – il solo pensare che quel nome non l'aveva scelto con me, mi dava un fastidioso senso di malessere, che cercai di cacciare lontano, assieme alla Leah che avevo impersonato, e che non ero – in quella manciata di minuti, non ero stata io.

In fondo alla bocca, sentivo uno strano sapore metallico, che mi diede nuovi conati, come qualcosa di estraneo che pigiava per uscire dalla mia gola.

Non ero io... non ero io. Respira, Leah. Sei qui, adesso.

Non sapevo perché avessi deciso di impersonare qualcuno che non esisteva. La Leah simpatica e dolce era morta tanti anni prima, secoli prima, quando ancora, se le si chiedeva cosa fosse la felicità vera, pura, avrebbe saputo risponderti.

Strinsi le mani forti intorno alla catenina, dove ancora l'anello regalo di Sam pendeva, ad eterno ricordo di come la mia vita fosse finita, qualcosa come trenta e passa anni prima.

 

Pian piano, mi calmai, anche se solo il pensiero dei miei sorrisi, dei miei discorsi allegri da scout con le treccioline continuavano a darmi il vomito.

Come avevo potuto?

 

Forse ero innamorata davvero, chissà.


 



 *(Jhon Doe) nome fittizio usato in America per persone senza un'identità, una specie di “Mario Rossi” italiano.



Angolo Autrice
Eccomi, risorgo dalle mie ceneri, come l'arba fenice :D
Mi scuso enormemente per il mio solito ritardo, cavolo, sembra che non riesca a fare nulla di divierso ;(
Mi sono pure beccata la febbre, tanto per gradire T.T
Insomma, passiamo al capitolo, che è meglio :D
Seth e Gwen non sono pucciosissimi???? *-*
Sono molto soddisfatta da questi due, sisi :D
Leah mi ha dato dei bei grattacapi, non sono sicura di averla caratterizzata al meglio... anche se ho cercato di recuperare, boh, ditemi voi...
E infine... che ne pensate del bel straniero? Vi piace, non vi piace? Avete idea su chi sia, cosa sia??? Oops, piccolo spoiler :D
Pensate che la nostra acida e piena di dolore Leah riuscirà a trovare in lui un po' della felicità che agogna?
A voi la parola, lettori, e ancora scusate per il ritardo, sono una frana con le scadenze :(:(
Vostra Virgy-Vi :3

P.s. Come sempre, grazie alle mie quattro cocche preferite <3
Vi adoro "citte" mie <3<3





 

   
 
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