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Autore: CrystalStewart    26/09/2011    2 recensioni
Come poteva essere successo?
Non c'era un senso logico al quesito che ormai mi stavo ponendo da un paio di giorni e notti e nemmeno c'era una spiegazione normale o accettabile per la questione presa sotto mano.
Mi ero innamorata di un licantropo.
Come diavolo poteva essere possibile; insomma... era un quasi un animale, non un umano.
Eppure con lui avevo il batticuore, mi sentivo protetta, ero me stessa in tutto e per tutto ma soprattutto, io non avevo paura.
No, non avevo paura di lui.
Si era un licantropo, che si trasformava in un lupo di due metri, largo abbastanza e digrignava i denti spesso ma mai contro di me; si mostrava per l'animale feroce che era quando doveva proteggermi ma non avevo mai avuto paura di lui nemmeno quando si era dato guerra contro altri della sua specie.
Non sapevo più cosa pensare, cosa dire per rendermi conto che era vero.
Era come nelle favole, sì solamente che questa guerra, questa foresta magica e questo lupo erano veri, come il mio amore lo era per lui.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Nuovo personaggio
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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When I saw you I fell in love,
and you smiled because you knew.
- William Shakespeare.

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Jacob’s pov.
Erano già passati nove mesi da quando me ne andai dalla Push, da casa mia.
Non potevo sopportare il dolore di non essere stato la sua scelta, di vedere al suo fianco qualcuno che non ero io, ma ancora di più non potevo rimanere sapendo ciò che portava.
Aspettava un figlio.
Sì, aspettava un figlio, se così si può definire, da quel lurido verme succhia sangue.
Mi faceva vomitare la sola idea che dentro di lei albergasse un qualcosa che in poco meno di un mese, l’avrebbe divorata come un felino fa con la sua preda. Non riuscivo neanche a pensarlo, eppure era così. Sapevo che voleva sposarlo, ma mai mi sarei aspettato una cosa tanto veloce quanto vicina. Ricordo ancora quando mi arrivò tra le mani quella busta; aprendola trovai quel foglio plastificato con su scritto le parole fatidiche.

 

Isabella Marie Swan
And
Edward Anthony Masen in Cullen
Together with their families
Request the honor of your presence
At the celebration of their marriage
 
Saturday. The thirteen of August
Two thousand and eleven
Five o’clock in the evening
 
420 Woodcroft Ave
Forks, WA

 
Non potevo crederci, non volevo crederci.
Uscii di casa, lasciando cadere a terra l’invito con rabbia. Non pensavo alla pioggia che mi cadeva addosso lenta e leggera come una piuma toccante terra; non pensavo a quanto sarebbe stato preoccupato mio padre non vedendomi tornare; non pensavo a quanto avrei ferito le persone che tenevano a me, ma me ne andai. Me ne volli andare, dovevo andare.
Il mio corpo galoppava, il mio animo urlava, il mio cuore crollava.
Tutto ciò che ero, tutto ciò che faceva parte di me stava gridando ciò che non riusciva a dire la voce. Mi trasformai velocemente, mentre correvo verso la foresta. Decisi di non avvertire nessuno, nemmeno Sam. Ero sicuro che avrebbe capito, che avrebbe compreso le ragioni di una fuga così spontanea, così necessaria.
Appena imboccato il sentiero meno visibile dall’esterno della foresta, non esitai ad aumentare ancora la velocità. In pochi secondi, fui al confine tra lo stato di Washington e quello nazionale, con il Canada. Andavo più veloce della luce, non c’era niente che potesse fermarmi o almeno questo era ciò che pensavo, ma naturalmente dopo un giorno intero passato a correre senza sosta, la stanchezza si fece sentire. Vidi pochi metri più avanti, sul lato della strada, un cartello con su scritto “Michipicoten River”.
Mai sentito, ma in fondo chissà dove diavolo ero arrivato.
Continuai a percorrere il bosco, fino a quando le case affacciate su di esso non cominciarono a essere più numerose. Ero riuscito a calmarmi almeno un po’, perciò decisi che era meglio continuare sotto forma umana.
Tornai quello che tutti conoscono, il buon vecchio Jake giusto per non dettare sospetti e mi addentrai verso la strada. Passai di fianco a due case, le quali avevano il bucato steso fuori; giustamente, mi coprii rubando un paio di box grigi, dei jeans, una maglietta nera a maniche corte e una giacchetta anche questa grigia e un paio di sneakers. Tirai su cerniera e cappuccio, cercando di trovare un bar o perlomeno qualcosa che ci assomigliasse.
Finito di percorrere appena due viali, vidi un enorme insegna con su scritto “Bar Jackson”. Il nome non era dei migliori, ma in fondo non importava. Ciò che contava era avvertire mio padre, almeno che sapesse come stavo. Soltanto questo.
Proseguii ancora e vidi che davanti l’entrata c’era una larga scelta di ragazze e donne a malapena vestite che cercavano quattrini. Optai per il retro, sperando che ce ne fosse uno. Svoltai l’angolo di fronte all’entrata principale e vidi che, appena finito l’edificio, vi era un vicolo stretto di fianco.
Guardai da entrambi i lati la strada, cercando almeno di non causare incidenti che avrebbero potuto mettere in discussione il fatto che fossi umano, visto l’ammaccatura che avrei potuto procurare alle macchine. Salii sul marciapiede e entrai nel vicolo.
Vi erano cassonetti dell’immondizia con ai loro piedi uno spropositato numero di cassette e sacchi che probabilmente erano stati lasciati lì visto il gran numero già presente all’interno dei contenitori. Poco più in là, vi erano dei ragazzini che imbrattavano il muro con delle puzzolenti e colorate bombolette. L’odore, o meglio la puzza, era a dir poco insopportabile. Per uno come me, dotato di un fiuto così delicato, è decisamente impossibile non sentire una cosa simile.
Vidi uno dei due imbrattatori far cenno con il capo all’amico che li stavo fissando; per non aver problemi voltai lo sguardo, abbassando il capo e coprendomi ancora di più con il cappuccio.
Arrivato davanti alla porta, tirai la manopola ed entrai.
Era un bar abbastanza monotono, se non per la tavolata di giovani che, totalmente ubriachi, si stavano divertendo con un paio di partite a carte scommettendo soldi. Mi diressi verso il barista che, vedendomi, smise di flirtare con una vecchia fumatrice e si avvicinò.
«Posso aiutarti ragazzo?»
«Si.» risposi secco io, togliendomi il cappuccio.
«Dimmi.»
«Avrei bisogno di fare una telefonata, ma ti dico già che non ho soldi con me.»
«E come pensi di pagarmi?» disse il vecchio, trattenendo una risata.
«Non lo so. Hai qualcosa di rotto che va riparato a mano?»
«No.» si voltò, prendendo i bicchieri e cominciando ad asciugarli uno per uno«Almeno non qui.»
«Cosa vorresti dire?»
«La mia moto. Non va più come una volta, ma non voglio venderla. Saresti capace di accomodarla?»
Almeno un colpo di fortuna era arrivato.
«Non c’è problema; dov’è il gioiellino?»
«A casa, in garage con tutti gli attrezzi che servono.»
«Ma io ho bisogno di chiamare ora. Se ti fidi, domani mattina ci vediamo qui davanti.»
«E chi mi assicura che non mi freghi?» disse acido il vecchio.
«So che non mi conosci, che non sono di queste parti ma devo chiamare mio padre. Sono scappato e voglio che sappia che almeno sto bene.»
Percepii una sensazione di dubbi attraverso i suoi occhi: sapevo benissimo che non si fidava, ma in fondo tentare era l’unica speranza che mi era rimasta.
«D’accordo. Alle sei, sul retro. Se non ci sei, puoi credermi che ti troverò ovunque tu sia e te la farò pagare.» I suoi occhi si erano addolciti, quasi come quelli di un nonno.
«Grazie.» dissi io, prendendo la cornetta del telefono, mentre digitavo il numero di casa.
Uno squillo. Due. Tre. Quattro.
«Casa Black.»
«Papà, sono io.»
Sentii un sospiro provenire dall’altra parte. Era preoccupato.
«Jacob, dove diavolo ti trovi.»
«Non lo so nemmeno io. In una certa Michipicoten River, ma non preoccuparti. Sto bene e ho dove dormire.» Mentii, dovetti.
«Va bene, ma stai attento. Nessuno deve sapere.»
«Lo so papà, lo so. Ciao.»
«Ti voglio bene.» ammise il mio vecchio.
«Anche io. Ciao.» Chiusi la chiamata.
Rimisi il telefono al suo posto nell’angolo e, ringraziando il barista e ricordando la mia parola, me ne andai uscendo sempre dal retro. Sentii un tonfo da dietro di me e, girandomi un po’, intravidi uno dei ragazzi cadere a terra per il troppo alcool ingerito. Povero scemo. Scossi la testa e me ne andai da là. Appena fuori mi voltai dopo aver chiuso la porta e, tirato su il cappuccio, mi incamminai verso la strada.
E ora dove sarei andato, dovevo trovare un posto dove poter dormire. Un ponte sarebbe stata la cosa migliore, almeno non mi sarei bagnato. Immerso in questi futili ma essenziali questioni, sentii dei passi avvicinarsi a me.
Non badai troppo a questo dettaglio, o almeno fino a quando, passandomi accanto, questa persona non lasciò dietro di se un dolce odore di salsedine che mi fece rabbrividire. Alzai lo sguardo di un paio di centimetri e vidi dei capelli biondi spuntare fuori dal cappuccio di una ragazza che si dirigeva verso la porta del retro. Una paio di sneakers, dei jeans scuri stretti e un felpone sicuramente rubato al fratello. 
Non capii perché, ma dovetti fermarmi e studiare ogni suo singolo movimento: l’anca che velocemente si muoveva da destra a sinistra, e viceversa, le mani che uscirono dalle grandi tasche della felpa e aprirono l’enorme portone di ferro, spalancandolo. Vidi la ragazza entrarvi dentro e sparire nel silenzio che seguì lo sbattere forte e rimbombante dell’entrata sul retro.
Cercai di tornare alla realtà, saltando giù da quella nuvoletta ma non ci volle molto prima di tornare a girarmi, per osservare ancora quell’ingresso sperando di rivedere quella ragazza uscire.
Non sapevo chi fosse, non l’avevo nemmeno vista in volto ma quel profumo di salsedine era rimasto impresso nella mia memoria. Era quasi come se fosse qualcosa di cui non volevo assolutamente sbarazzarmi.

 
Sophie’s pov.
Di nuovo.
Misi giù il telefono, mi diressi in camera e indossai le scarpe, infilando la prima felpa di Silver che trovai davanti ai miei occhi. Corsi velocemente fuori di casa, prendendo al volo dal tavolino dell’ingresso le chiavi e sbattendo rumorosamente la porta dell’appartamento. Non chiamai l’ascensore, ci avrebbe messo un’eternità; optai per le scale. Le scesi il più velocemente possibile, senza cercare di cadere come un sacco di patate giù per gli ultimi scalini. Salutai Paul, il portiere, e uscii a passo spedito sperando di arrivare prima io al bar che gli sbirri o ancora peggio un’ambulanza. Imboccai la strada per il parco, scavalcai il muretto non troppo alto e sbucai dalla parte opposta della via che si affacciava davanti il bar.
 Lasciai passare quelle due o tre macchine e, accertatami che la strada fosse libera, attraversai veloce. La pioggia si era fatta ancora più fitta, ancora più insistente.
Era già la quinta volta in due settimane che Silver non riusciva a reggersi in piedi, per colpa di questi suoi nuovi “amici”. Non ne potevo più.
In fondo, io ero quella piccola, io ero quella che doveva essere difesa, io ero la sorellina che doveva rientrare presto e non combinare casini in giro. Ma non era così. No.
Silver era un ragazzo di quasi 26 anni, sfortunatamente nato e registrato come mio fratello, che non riusciva nemmeno a controllare la quantità di alcool ingerita.  Mi sembra logico pensare che ormai non era più un semplice vizio, ma una vera e propria dipendenza. Era una droga per lui, era un alcolizzato.
Lo avevo portato al centro, alla comunità in fondo alla strada per vedere se almeno loro riuscivano a far qualcosa, ma è stato proprio lì che lui ha conosciuto questi “amici”. Maledetta me.
Maledetta quella volta che gli ho consigliato di andarci, maledetta quella volta in cui ho voluto trasferirmi con lui, maledetta quella volta che la mia coscienza mi impose di seguirlo. Cavolo.
Imboccai il vicolo che avevo davanti a me, sapendo che ormai potevo aspettarmi di tutto là dentro.
Silver steso a terra senza sensi, Silver ubriaco duro che non riusciva più a ragionare e che si stava facendo chissà quale delle tante sgualdrine che c’erano davanti il locale. Non lo sapevo e non volevo nemmeno pensarci.
Sentii dei passi provenire davanti a me e alzando lo sguardo vidi un ragazzo uscire dalla porta sul retro, e andarsene. La sua corporatura piuttosto massiccia era coperta con una maglietta nera e sopra una giacca a cerniera, grigia. L’enorme felpa che aveva addosso gli era larga, come le tasche dove infilò le mani e il cappuccio che gli copriva praticamente tutta la testa.
Non diedi peso a lui, e tornai al mio unico pensiero: Silver.
Passai di fianco al ragazzo misterioso; sapeva di pino, di muschio bagnato. Era forte come odore, ma era piacevole come profumo. Cercai di non distrarmi e aumentai il passo, arrivando davanti la porta ed entrando dentro il locale.
Lo sapevo: vidi Silver a terra, appoggiato al bancone mentre Jack cercava di tirarlo su, perlomeno per farlo sedere su uno sgabello.
Non appena il portone si chiuse con un rumoroso schianto, Jack alzò lo sguardo e sorrise.
«Sophie, grazie a Dio! Portalo a casa; non si regge nemmeno in piedi.»
«Silver ma che diavolo combini?» chiesi, spontaneamente sapendo che non mi avrebbe risposto e se mai lo avrebbe fatto, lo avrebbe fato inconsciamente.
«Stavo solo bevendo un paio di birre con i miei amici.»
«Dai, andiamo a casa.»
«Volete che vi porto io con la macchina? Almeno non prendete l’acqua.» chiese Jack, tornando dietro il banco.
«Non ti preoccupare, rimani qui e chiudi che è meglio. A Silver ci penso io.» dissi sorridendo, mentre mi caricavo quell’ammasso di muscoli addosso, appoggiandolo a me con un braccio.
«Si, ci pensa lei a me Jack. E poi, appena siamo a casa, me la faccio per bene.»
Vidi il vecchio del bar scoppiare a ridere, cosa che io ricambiai con una semplice risatina soffusa e sospirata, mentre mi dirigevo fuori dal locale.
Facemmo la solita strada, mentre Silver non la finiva di farmi complimenti e dirmi che ci aspettava un intensa notte di divertimento. Appena arrivati in casa, gli tolsi il giubbotto e gli aprii la camicia.
«Ehi, piccola. Non corri un po’ troppo?» disse lui ammiccante, mentre mi prendeva e mi attirava a se. Il suo alito sapeva di alcool; era quasi impossibile stargli vicino, era nauseante se non a dir poco fetente.
«Certo Silver. Vado a spogliarmi in bagno e poi torno. Aspettami.»
Mi voltai mentre vedevo sul suo volto comparire un sorriso malizioso e contemporaneamente i suoi occhi chiudersi. Tornai indietro e lo coprii con la coperta, mentre gli spostavo i capelli dal viso.
Era bello, si; era bello il fratellone ma si rovinava con poco. Non aveva volontà di migliorarsi.
Sospirai e mi diressi verso la cucina; lasciai cadere su una sedia la felpa bagnata, mi feci una tazza di tè e mi misi sopra il soppalco della finestra che dava sulla foresta.
Mi piaceva ammirare quel panorama: quegli alberi perennemente verdi e quei fiori selvatici che si arrampicavano su per le rocce. Erano magnifici.
Sorseggiai un altro sorso del mio dolce e caldo infuso preferito, mentre ascoltavo il dolce ma deciso suono della pioggia che batteva contro il vetro della finestra.
Chissà chi era quel tipo, non lo avevo mai visto prima. Che frequentasse quel bar? Mah.
Perché mai poi, mi dovevo interessare così tanto di uno sconosciuto. Solo perché mi piaceva il suo forte odore di muschio bagnato o perché aveva un corpo massiccio e muscoloso che si sarebbe potuto anche definire sexy sotto la pioggia? Non lo sapevo.
Non ne ero certa, ma quel pensiero era insistente. Appoggiai la tazza nel lavandino, presi la coperta e mi rannicchiai sul divano, in attesa che il sonno prendesse il sopravvento.
Guardai l’orologio del registratore. Le quattro meno venti.
Domani dovevo andare a scuola, passare dal carrozziere per vedere se quella cavolo di macchina era pronta. Erano ormai dieci giorni che l’avevo lasciata a quel cretino del meccanico. Se l’indomani pomeriggio non fosse stata pronta, l’avrei portata dall’officina di mio zio, anche se si trovava dall’altra parte del quartiere. Mi ero stancata di aspettare.
Mi incantai a guardare le vette degli alberi che si intravedevano oltre l’orizzonte disegnato dal soppalco della finestra e improvvisamente mi tornò in mente quel ragazzo, quello del bar.
Aveva un sapore così buono; quel muschio bagnato che mi inebriò le narici rimase impresso nella mia mente tanto che anche lì, persa nei miei pensieri sotto una calda coperta di pile, potevo sentirlo.
Era inutile cercare di capire chi fosse, non lo avevo visto eppure sembrava che non volessi arrendermi. Non sapevo chi era, non sapevo se era di quelle parti, ma una cosa era certa: mi avrebbe fatto piacere rivederlo, meglio ancora se fosse stato il prima possibile.

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Salve lettori; so che forse qualcuno di voi ha letto alcune delle mie storie, quelle precedenti ma ho deciso che questa volta sarà quella decisiva. Anche perchè questa volta il protagonista è Jacob Black, il mio personaggio preferito in assoluto.
  

Crystal.

P.s.: ringrazio Stephenie Meyer, senza la quale non sarei mai riuscita a capire questa mia passione per il mondo fantasy e quello della scrittura.
E ringrazio mia sorella, per il continuo sostegno e aiuto che mi concede. Ti voglio bene.

  
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