Storie originali > Generale
Ricorda la storia  |       
Autore: Gloom    26/09/2011    2 recensioni
-Sai, essere figli di genitori che non si amano è una fregatura: dentro noi siamo per metà come un genitore e per metà come l‘altro. Se non sono riusciti a restare insieme loro, ancora più difficile sarà per noi. . . Perché loro si sono potuti separare; noi invece dobbiamo faticare per mettere d’accordo geni incompatibili dal principio.
 
L'Allegra Brigata non aveva altre ambizioni se non quella di passare indenne i sedici anni dei propri componenti. Ma quando mai le cose più semplici danno mostra di esserlo? Lauretta, Giak, Cicca, Margherita e Riccardo dalla loro hanno che si vogliono bene: per il resto, che si preparino pure ad una sfida dalla quale nessuno uscirà indenne... c'è una spiaggia alla fine della corsa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il destino altro non è che gli effetti di decisioni prese in precedenza.
Sedici anni di vita per arrivare a questa pillola di saggezza. . .  niente male davvero. Giak ripensò a tutto quello che era successo in quei mesi, a quello che era cambiato e quello che era rimasto uguale, e anche alle cose rimaste uguali ma viste come cambiate. Sospirò: quel giorno aveva abbastanza tempo libero da fumarsi il cervello con le solite pippe mentali. E allora il pensiero tornò al primo giorno del quinto ginnasio: l’inizio ufficiale di un ennesimo, nuovo capitolo della vita sua e dei suoi amici.
 
Quando la sveglia suonò, spargendo per la stanza la canzone preferita di Giak, lui la mise subito a tacere. Era sveglio già da alcuni minuti, consapevole del fatto che sarebbero passate settimane prima che una scena del genere si ripetesse. Non aveva mai avuto bisogno di una sveglia, ma quell’anno le cose erano un po’ cambiate ed era dovuto scendere a compromessi con quell’apparecchio: l’uno si impegnava a svegliarlo con i Sum41, l’altro a svegliarsi per davvero.
 Ma lo scemo, che la sera prima era andato a letto presto per paura di far tardi, si era svegliato molto prima del suono della sua nuova complice; era rimasto a letto, abbastanza a lungo per lasciarsi intorpidire, ed ora non aveva la minima intenzione di sgusciare fuori dalle lenzuola. Molto meglio rimanere semi rincoglionito sotto le lenzuola, ad ascoltare i respiri dei due pidocchi che aveva per fratelli. Quelli la sveglia non l’avevano neanche sentita: a scuola potevano andarci con calma, sarebbero bastati dieci minuti e qualche metro a piedi.
 Ok, ora si stava alzando. Dopotutto non poteva davvero far tardi: fino all’anno prima a scuola ce lo aveva sempre accompagnato il padre, di strada per l’ufficio. Ma adesso suo padre era stato trasferito, quindi si era dovuto rassegnare all’autobus. Anche con quello era sceso a compromessi, ma erano molto più pesanti di quelli con la sveglia: si impegnava ad accompagnarlo a scuola, ma, se Giak non si fosse sbrigato, non avrebbe esitato a lasciarlo sul marciapiede.
 La pensava ancora così -non aveva ancora imparato a correre davanti all’autobus pur di non farlo ripartire senza di lui- ma era pur sempre il primo giorno di scuola: il primo risveglio con i Sum41, la prima volta che avrebbe preso l’autobus di mattina.
 Quando uscì di casa, suo padre si era appena svegliato e sua madre era ancora immersa nella luce dorata del suo bagno. Li salutò, poi prese lo zaino e raccolse una manciata di monetine dal piattino nell’ingresso. Male non facevano, e si sarebbero trovate molto più a loro agio nel suo portamonete.
 Non era particolarmente tranquillo. Si imponeva di stare calmo, ma in realtà si sentiva inquieto e scocciato.
 Scocciato perché quel cretino del suo epico vicino di banco si era fatto allegramente steccare e, senza un minimo di rimpianto, si era trasferito in periferia per continuare i suoi studi alla scuola privata.
Inquieto perché da allora era sparito: aveva bidonato Giak e gli altri amici e si erano perse le sue tracce. Per questo ora Giak si trovava nella spiacevole situazione di chi entra in una classe di gente che conosceva solo superficialmente.
 Magari se mi sforzo riesco a farvelo vedere: la scuola è il vecchio liceo classico di Polverano. La solita struttura dalle veneziane rotte e il muro coperto di graffiti. Gli studenti sono i soliti studenti di un liceo classico: campanelli di tipi con libri dai titoli assurdi come Oi Ellenes, fumatori, pallavoliste e reduci del Certamen Sallustianum elettrizzati per il primo giorno di scuola.
 Giak non era né fumatore, né pallavolista, né tantomeno reduce del Certamen. Non era niente: esisteva, aveva quei quattro amici con cui cazzeggiare, combatteva per la sufficienza, e andava bene così.
 -Eccolo!- ululò un ragazzo appena entrò in classe. Giak sorrise e gli diede il cinque, salutò le poche persone che erano entrate (erano quelle che tenevano a scegliersi il posto personalmente) e il suo sguardo spaziò per la classe.
 Lui ovviamente non lo sapeva, ma da lì è partita tutta la storia che avrebbe passato quell’anno. La prima delle decisioni che più in là avrebbe identificato con la parola “destino“: non fece altro che scrutare la classe, soppesare le ipotesi e poi scegliere un banco sull’ala sinistra, penultima fila. Eppure, se solo avesse scelto un altro posto, se avesse deciso di voler sedere vicino alla finestra piuttosto che al muro, se si fosse soffermato a riflettere su tutti quei dettagli che la fretta di accaparrarsi il posto migliore offuscava, magari avrebbe cambiato idea. E noi non possiamo permettercelo.
 Rapido, con i muscoli abituati a quel movimento riservato agli studenti, si fece scivolare lo zaino dalle spalle e lo scaraventò sul banco.
 -Bella presa- esclamò un tipo all’ultima fila.
 -Direi che quest’anno posso concedermi il lusso di un posto nascosto- ghignò Giak. Il tipo sorrise, poi chiese notizie del vecchio compagno bocciato. Cominciarono a chiacchierare, mentre la classe si riempiva. 
 -Giak, è occupato il posto vicino al tuo?- chiese un ragazzo appena entrato.
 -No, anzi, mettiti tu così sto tranquillo- rispose Giak.
 -Bella!- ringraziò lui.
 La prima minima ondata di sollievo invase Giak: almeno adesso era sicuro che non avrebbe passato l’anno di fianco alla secchia, onta che non avrebbe sopportato. E poi Riccardo era ok: tranquillo, simpatico, single (il che non guastava mai), e disposto a suggerire: uno che pur avendo la media dell’otto suggerisce deve essere per forza una brava persona.
 -Aspetta, devo fare una cosa- gli disse Riccardo.
C’era un banchetto singolo attaccato alla cattedra: quello in genere riservato all‘ultimo sfigato. Riccardo lo prese e lo attaccò all’estremità del suo posto.
Molto probabilmente anche il gesto di Riccardo fu decisivo. Aveva garantito l’unica fila di banchi a tre posti, in una classe composta da banchi a due, prima che lo facesse qualcun altro. E fu una gran bella cosa.
 -Devo occupare il posto per Cicca- spiegò Riccardo, -e volevo l’esclusiva del banchetto. È ok per te?- chiese a Giak.
 -Ovvio! Però, se lo metti al banchetto, durante i compiti in classe lo spostano- fece notare. Riccardo soppesò per un secondo la cosa, poi sogghignò:
 -Figurati, guarda quanto può essere grande questa classe: se anche lo sposteranno, sarà di tre centimetri-.
 Ma Cicca si fece attendere: entrò quando la campanella stava per suonare e le masse studentesche si riversavano per i corridoi.
 -Bellaaa!- salutò Riccardo, poi Giak, poi tutti gli altri della classe con un unico grido.
 Adesso i nostri tre sono sistemati. Ma non ancora completi.


Anche Lauretta aveva una sveglia, ma ogni volta si riprometteva di gettarla. Non serviva a niente, ormai! Erano mesi che non riusciva a dormire come si deve; aveva rivoltato il materasso, aveva cambiato tipo di pigiama, aveva provato tutte le posizioni, rigirandosi nel letto fino a far delle lenzuola un cumulo informe. Aveva pensato se cambiare il cuscino, ma tanto pure quello era abbastanza inutile: ogni mattina lo ritrovava sul pavimento, scagliato lì durante la notte.
Perciò, dopo tutto questo calvario, era frequente che si svegliasse prima dell’ora stabilita.
Ormai non le pesava più, anzi, le piaceva: di mattina presto tutto era più tranquillo. Sua madre dormiva, e almeno in quei momenti non sentiva il bisogno di parlare. La televisione taceva, le luci erano spente. Tutto era meravigliosamente fermo. E pazienza se, per godersi quei momenti, doveva combattere per tutto il resto della giornata col sonno.
 Lauretta prese la caffettiera e la riempì d’acqua. Poi riempì il filtro di caffè, avvitò i componenti stretti e mise la caffettiera sul fornello. Aspettò che cominciasse a borbottare, ma quando lo fece fu tentata di non spegnere il gas: era così tranquillo quel suono. . . 
Lo pulisci tu il caffè che schizza, si disse scuotendo la testa. Si alzò controvoglia: quella notte aveva dormito meno del solito. Un po’ per l’agitazione del primo giorno di scuola, un po’ perché l’orecchio non aveva smesso un attimo di fischiarle. Aveva odiato quell’orecchio, era stata lì lì per gridare tanto l’aveva innervosita. E poi, complice il cambio di stagione, aveva il naso chiuso. Ma, siccome non aveva fazzoletti a portata di mano, aveva preferito far passare l’aria dalla bocca più che dal naso. Risultato: gola gonfia e naso ancora più ostinatamente chiuso. Sempre più cretina, si disse Lauretta.
Sorseggiò il caffè davanti alla finestra, mentre osservava il sole di metà settembre sorgere da dietro le montagne di Polverano (ve l’avevo detto che si era svegliata presto). Si impose di far finta di stare alla grande: niente mal di gola o naso chiuso, niente sonno, niente muscoli incordati. Alla gente, ma soprattutto a lei, non piacevano quelli che si lamentavano. Le facevano una rabbia, quelli che si lamentavano. Pretendevano che tutto andasse meglio di come effettivamente andava. Come se fosse scontato. Puah.
 Quando sua madre si alzò dal letto, fu stupita di trovarla già pronta. Le chiese il perché di quella levataccia. Lei le rispose che non aveva dormito molto bene, e la madre le diede una carezza, mentre beveva il caffè che la figlia aveva preparato. Poi Lauretta uscì, con lo zaino spolverato in spalla e una sciarpa chilometrica attorno alla gola.
 Incontrò Margherita davanti alla scuola: lei aveva una giacca nuova, lo zaino pieno dei libri che Lauretta aveva dimenticato e i capelli raccolti con un bastoncino.
 - Lauretta!- le diede un sonoro bacio sulla guancia.
 -Ciao bella- disse fiacca lei.
 -Cos’hai?- chiese Margherita sentendo la sua voce uscire a fatica dalla gola.
 -Bah… le mie nottate rilassanti-.
 -È successo qualcosa?-
 -Stai tranquilla- Lauretta sorrise.
 -Direi di avviarci verso la classe. Voglio un bel posto quest’anno- disse poi.
 E siamo al punto in cui le due entrarono nella classe di Giak, Cicca e Riccardo. Insomma, il punto in cui operano l’ennesima decisione: quella di sedersi proprio dietro di loro.
 Perché, fidatevi, se solo avessero deciso di prendere posto al banco della fila vicina alle finestre -l’unico rimasto libero, oltre quello che scelsero-, non avrei potuto scrivere di ciò che successe tra loro.
Non sarebbe mai nato quel sentimento oltremodo potente e sincero che li avrebbe legati.




Gente, Oddish è tornata con una nuova storia, completamente made in Polverano!
Spero che piaccia, spero che lasci qualcosa, spero che valga e spero che anche voi pensiate che valga. Spero, insomma, di non aver fatto un bel flop.
 Spero anche di ricevere tante belle recensioni, positive e negative (dateti dentro gente!), perché questa storia è un po' alla stregua di Polvere dei Sognatori: ci ho messo tutto il pathos di cui sono capace.
 Grazie per aver letto, e sogni d'oro <3
 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Generale / Vai alla pagina dell'autore: Gloom