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Autore: Donnie    27/09/2011    0 recensioni
A diciotto anni compiuti, Cloe non sa ancora cosa sia l'amore. Non conosce il sapore dei baci, né l'illecito rumore dei sospiri.
Cloe vuole essere una piccola Carrie Bradshaw, ma la sua vita non le dà alcuno spunto. Finché non ritorna suo padre. Finché non tradisce la sua migliore amica. Finché non comincia una relazione clandestina. Finché non si innamora di un altro. Finché non ci capisce più nulla.
Ne fa di guai, Cloe. Ma poi apre l'armadio, si mette un bel vestito, e cerca di aggiustare le cose... come sempre.
(I look sono realizzati su Polyvore)
Dal testo:
«Non hai risposto alla mia domanda: lo ami?».
E fu lì ed allora, seduta al centro della mia cucina, accoccolata su quella luminescente e surreale isola che non c’è, che di domande me ne posi un bel po’. Molte di più e molto più difficili di quella di Chris. Tutte quelle che avevo meticolosamente evitato, negli ultimi tempi.
Chi ero davvero?
Cosa volevo?
Ero in grado di amare con costanza?
Avrei saputo essere fedele ora e sempre alla persona che mi stava accanto?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 7 -
Sacrificio

 



Fine.

Chiusi il libro, versando una lacrima sull’ultima pagina.
Piangevo perché era davvero la fine. E perché era la fine più giusta che avessi mai letto, anche se non era quella che avrei voluto. Magari nella vita reale fosse stato così, felici e contenti oltre il “per sempre”. In eterno. Per una gioia e un amore che non sarebbero mai finiti. Ritornai in men che non si dica con i piedi per terra.
Se non esistevano le favole, come poteva esistere l’infinito lieto fine?
Niente eternità, Cloe. Solo attimi, momenti da vivere e da catturare.
Chiamai subito Alice, desiderosa di scambiare con lei quattro chiacchiere sul volume appena terminato. Ero certa che anche le sue lacrime stessero bagnando quello stesso foglio.
E non mi sbagliavo.
Passammo quasi un’ora a telefono a parlare di insignificanti particolari che ci avevano fatto ridere, o di pagine che invece ci avevano commosso. La conversazione era così semplice e piacevole che non mi accorsi neanche minimamente del tempo che passava, arrivando alle nove di sera senza aver aperto un libro.
«Pronta per il test di mate?» aveva detto Alice, all’improvviso.
«Ehm...».
Esatto, non ero pronta. Mi ero concentrata su quel libro a tal punto da dimenticare l’importantissimo test del giorno dopo. Salutai alla svelta la mia migliore amica e, armandomi di pazienza, mi dedicai completamente ad un altro tipo di lettura. Un po’ meno piacevole, un po’ più obbligatoria.
Il mattino seguente, orgogliosa della mia preparazione più che sufficiente, fui svegliata da una canzone straniera. Un singolo inglese, che non avevo mai sentito prima.
Brutto segno. Odiavo i risvegli senza la mia buona musica italiana.
Un flash improvviso squarciò i miei pensieri così patriottici. 
Immagini confuse, suoni indistinti... che però portarono la mia mente ad un’unica conclusione.
Si trattava semplicemente di ricordi sfocati del mio ultimo sogno.
 
Vedevo me stessa, al centro di una piazza, circondata da una folla di persone. Tutte pronte a lanciarmi delle pietre. In lontananza, un giudice dai lineamenti non definiti, stava per emettere la sua sentenza. Non ci voleva molto a capire che ero io ad essere sotto accusa.
 
Ormai era ufficiale, quella giornata sarebbe stata disastrosa.
Era difficile credere in una cosa del genere, così strana, così fuori dall’ordinario... ma i miei sogni non sbagliavano mai, sul serio.
A darmi la conferma, arrivò poco dopo il mio bizzarro mal di stomaco, presente solo nell’imminenza di qualche evento anomalo. Un mal di stomaco con cui avevo spesso a che fare ma che, in realtà, non avevo ancora imparato a decifrare. Non sapevo mai dire se si trattasse di una “predizione”- ed io stessa faticavo a pensare quel termine tanto paranormale –positiva o negativa.
Quella mattina, i miei dubbi erano meno forti del solito. Colpa o merito del sogno. O dell’incubo.
Un incubo che, come volevasi dimostrare, prese vita nella realtà. Nella mia realtà, nella mia classe, durante il mio test di matematica.
Il professor Morra entrò in classe più preciso di un orologio svizzero, varcando la soglia dell’aula mentre la campanella segnava l’inizio di una nuova giornata di solita, noiosa, routine scolastica. Cosa avrei dato, quel giorno, per godere di un po’ di quella noia che, più tardi, avrei semplicemente definito calma.
Angelica fece sparire immediatamente il foglietto stropicciato che le avevo appena passato, nascondendolo con cura.
Ma la sua cura non fu ripagata, dato che gli occhi di Morra, nonostante l’evidente miopia, percepirono chissà come quel rapido scambio che c’era stato tra me e Angie.
«Russo, cos’ ha su quel foglio?» tuonò il professore, cercando di dare alla sua voce acida un che di autoritario.
Inspirai lentamente.
Vai, Angie, menti.
«Appunti... stavo... stavo ripassando...» balbettò lei.
Morra sorrise. Il mio sospiro di sollievo fu silenzioso e leggero. Magari il prof ci era cascato.
«Me lo faccia vedere, allora...».
Ops.
Osservai quel sorriso falso e trionfante con molta attenzione, tanto da essere capace di descriverlo con minuziosità da ogni minima angolatura, a partire dai denti ingialliti dal fumo, fino ai baffi sottili e scuri che decoravano il labbro superiore.
Successe tutto così velocemente e lentamente allo stesso tempo. 
Gli occhi dell’intera classe incollati su di noi, quel pezzo di carta nelle mani del professore, il suo sarcasmo mal riuscito quando, su quel foglio, aveva trovato esattamente quello che cercava.
Le risposte del test che stava per distribuirci.
«Il test è rimandato. Russo, interrogata!».
Angelica ingoiò un singhiozzo, per non dare a Morra l’ennesima soddisfazione.
Inutile dire che tornò a posto con un bel tre. Un tre che, in realtà, non aveva niente di bello.
«Glielo dico... lo faccio, Ali...» sussurrai alla mia compagna di banco. Anche Isa mi aveva sentito ed entrambe mi invitarono a starmene zitta.
La mia mano fu più forte delle loro preghiere. La alzai, fiera.
«Professore, le risposte le ho passate io a Russo...».
Un mormorio esplose nell’aula fino a diventare un chiacchiericcio dal volume più elevato.
«Lo immaginavo, Marini... infatti stavo per interrogare anche lei...».
Mi alzai, senza farmelo ripetere due volte. E risposi ad ogni singola domanda che mi pose. In maniera precisa, dettagliata.
Un’interrogazione che, nel peggiore dei casi e con un prof con la luna storta, sarebbe valsa sei e mezzo. Ma che, guarda caso, mi regalò un cinque definito addirittura “stentato”.
Per fortuna, riuscii a salvare il salvabile, evitando di fare il nome di Isa, colei che aveva fornito le risposte a tutta la classe. E che quel giorno era arrivata in ritardo- quando si dice i casi della vita... –lasciandoci poco tempo per distribuire quelle preziose informazioni.
E salvai così anche tutti i miei compagni. Compresi quelli che non lo meritavano. Senza fare nomi, ovviamente.
«Marini...- mi richiamò Morra, mentre tornavo a posto –dato che aveva studiato, perché usufruire di certi mezzucci?».
Bastardo, lo ammetti che ho studiato!
«Sinceramente? Beh, io non butterei mai una banconota da cento euro piovuta giù dal cielo...».
Bella metafora, Cloe... mi complimentai con me stessa.
Immaginai un ring, nella mia testa. E il mio insegnante di matematica steso a terra mentre lo riempivo di calci e pugni.
Marini vs Morra 1 a 1.
Dopo il voto rimediato alla cattedra avevo pareggiato i conti, ammutolendolo davanti a tutti i miei compagni.
Almeno questo servì a farmi tornare a posto orgogliosa di un cinque palesemente immeritato. Mi sentivo forte, imbattibile, appoggiata da persone che mai e poi mai avrebbero immaginato un gesto del genere da parte mia. Da Cloe, quella ragazza rossa e selvaggia che nessuno aveva mai capito sul serio. Nessuno, eccetto i miei tre angeli.
Per tutti gli altri ero un enigmatico rompicapo.
Evidentemente, non mi conoscevano abbastanza. O, meglio, non mi conoscevano proprio. Io ero la semplicità fatta a persona. Un'orgogliosa, confusa e vanitosa semplicità.
«Marini, da lei non mi sarei mai aspettato un comportamento del genere...».
Ecco, appunto!
Si fermò, improvvisamente, come se non sapesse bene cosa aggiungere. E, soprattutto, come aggiungerlo.
«E... dato che quest’anno ci sarà la maturità... non so quanto possano giovarle delle azioni come questa...» aggiunse, poi.
Sarcasmo perfetto, questa volta.
«Oh» fu tutto quello che riuscii a dire, combattendo contro le mie corde vocali che, al prof, gliene avrebbero urlate davvero di tutti i colori.
Per pareggiare di nuovo, almeno.
E, invece, fu lui a mettermi K.O..
Diamine, come avevo fatto a non pensarci prima? La maturità... Ormai mancavano davvero pochi mesi. Ed io mi ero giocata l’enplein mettendomi contro l’insegnante di matematica. La divinità suprema del nostro consiglio di classe, il vicepreside... Morra.
Oh-mio-Dio.
L’ora successiva, tutti si congratularono con me per quello che definirono il “sacrificio del secolo”.
Non sapevo se fosse più opportuno sorridere o scoppiare in un pianto liberatorio.
Il “sacrificio del secolo”. Che cosa assurda.
 
Quel pomeriggio, dato che con i sacrifici cominciavo ad avere una certa esperienza, sacrificai un’oretta della mia vita da diciottenne sulle pagine del libro di filosofia, aspettando mia cugina Giulia.
Ultimamente- chissà come mai –l’avevo un po’ trascurata. Così come avevo trascurato un po’ tutti e soprattutto me stessa. Il mio cuore, per la precisione.
Per questo- e per riprendermi dall’orribile mattinata –avevo seriamente bisogno di Giulia e di un buon dvd.
«Cloe! Ti trovo... beh, ti trovo meglio!» sorrise, appena la accolsi alla porta, abbracciandola e facendole le feste, come se non la vedessi da una vita... quando, in realtà, era stata con me ogni singolo pomeriggio delle ultime settimane. Forse veniva per farmi compagnia, per mostrarmi il suo supporto, per cercare un miglioramento. O magari veniva solo per studiarmi. E per aspettare che, finalmente, riuscissi ad aprire la bocca per raccontarle tutto.
Dall’inizio alla fine.
Ci sedemmo a terra, sul mio tappeto bianco e soffice e, immediatamente, mi resi conto che più parlavo e più mi sentivo leggera, felice. Libera. Sdraiata in pace, su di una nuvola bianca. In compagnia del mio angelo custode. Un angelo di sedici anni, un concentrato di saggezza con gli orecchini scintillanti e gli occhi chiari e curiosi.
Più piccola di me, più inesperta. Ma, stranamente, molto più saggia.
Se ne stava lì, in silenzio, accarezzandomi una spalla o i capelli al momento giusto. E lo sapeva scegliere con cura, quel momento.  
Logico che volesse fare la psicologa. Aveva il mestiere assicurato.
E mi risultò davvero molto semplice- molto più del previsto –raccontarle di Jacopo, della passeggiata al parco, delle mie illusioni. Di Sissi, degli stivali. E della mia passione per il gelato fragola e cioccolato.
Anche Giulia non era una “fragola e limone”. Lei preferiva la stracciatella. Come il gusto del barattolo che mi costrinse a tirar fuori dal congelatore.
E, forse per la dolcezza del gelato, o forse per la dolcezza di mia cugina, finalmente riuscii a dire ad alta voce quello che, ormai, mi tormentava da un po’.
«Giulia, io... io credo di avercela più con... con me stessa che con Jacopo...».
Annuì, senza aggredirmi con nessuna domanda, in modo tale che potessi proseguire da sola, tranquillamente. E così feci.
«Ho passato quasi cinque anni della mia vita costruendo castelli in aria, immaginando di vivere una storia che, in realtà invece, non è mai... mai cominciata. E quando ho trovato la forza di dirglielo, di dargli quelle maledette lettere... ho accettato persino la sua risposta. Che idiota che sono...»
«Che eri...» mi corresse Giulia, sorridendo.
«Esatto...- sorrisi anche io, ancora poco convinta –e quando Jacopo mi ha detto di essere innamorato di Elisabetta... beh, mi sono sentita...». Non riuscivo a trovare la parola giusta.
«Tradita?» mi aiutò lei.
Scossi il capo.
«No... mi sono sentita... stupida... sì, stupida. Perché ho sprecato la parte migliore della mia adolescenza... inutilmente. Per una persona che non lo meritava. Perché me ne sono accorta così tardi? È per questo che ce l’ho con me... per aver sbagliato. Ecco perché non parlavo... per evitare di ammettere con me stessa che io... che io ho sbagliato. Ho sbagliato io, Giulia. Io...».
Inspirai con forza, per trattenere il pianto o qualsiasi altra reazione del mio organismo. Invece, il mio corpo si rilassò da solo, senza scatenare nessuna battaglia infernale e dolorosa con le confessioni emerse dal mio subconscio- o qualcosa del genere.
Odiavo sbagliare, odiavo avere torto. E, più di ogni altra cosa, odiavo ammettere di aver fatto un errore. Per questo, una volta presa una decisione, la portavo comunque avanti. Perché io dovevo sapere di aver fatto la cosa giusta.
Non mi importava il giudizio degli altri, vero. Ma temevo il mio e temevo tutte le aspre sentenze che sapevo emanare contro me stessa.
Un altro cucchiaio di gelato e- oltre a rendermi conto del potere calmante del cibo –mi ritrovai a parlare di Alessandro.
Buttai lì quel nome con finta indifferenza, lasciando che la mia mente aprisse quel capitolo rimasto sepolto e nascosto con cura tutto questo tempo.
Evitai di dire che Ale era stato in grado di far traballare le mie stoiche certezze in materia “Jacopo”. E non dissi nemmeno che quei tentennamenti erano stati addirittura piacevoli.
Ma, probabilmente, Giulia se ne accorse lo stesso.
«Non sacrificare qualcosa di spontaneo, per qualcosa su cui hai ragionato su per anni e anni, Cloe... è una vita che te lo ripeto...».
Dovevo buttarmi, dovevo lasciarmi andare. Come se non lo sapessi già.
Grazie per avermelo ricordato, cuginetta.
Seppellii tutto con cura, di nuovo. Alessandro compreso.
Non ero portata per la spontaneità, non in campo sentimentale almeno. Ero troppo legata ai miei adorati calcoli e ai miei ragionamenti.
Ripensai alle parole che aveva appena usato Giulia. “Non sacrificare...”
Feci una smorfia e le raccontai anche del “sacrificio del secolo”. 
Contrariamente alle mie aspettative, anche lei fu orgogliosa di me.
«Anche Cloe è capace di fare qualcosa di istintivo... qualcosa in questo mondo sta cambiando!» rise, con una forte vena di ironia.
La spinsi verso il soggiorno, incitandola a far partire il dvd, prima che il mio istinto avesse davvero il sopravvento e mi regalasse la gioia di darle un pugno in testa.
Con affetto, sia chiaro.
 
Appena partì il film, decisi di perdonarla. Sorrisi. Giulia aveva fatto davvero un’ottima scelta.   
Conoscevo quella pellicola a memoria, dopo averla vista letteralmente un centinaio di volte sempre in compagnia di mia cugina a partire dalla prima volta, quando la vedemmo insieme al cinema. Sia le ragazze che le sue amiche avevano rifiutato un film così fantasy e... come lo avevano definito? Ah, già, infantile.
Non sapevano cosa si erano perse. Io adoravo quella storia, già prima della sua trasposizione cinematografica. Quando ero bambina, mamma mi aveva letto spesso le Cronache di Narnia, insieme a favole decisamente più romantiche.
Il primo capitolo della saga cominciò a farsi sentire dalle casse sparse per tutta la stanza. L’home theatre era stato un capriccio dello zio. E, sinceramente, non mi sarei mai potuta opporre.
Le prime scene catturarono immediatamente la mia attenzione, facendomi presto catapultare in un’altra epoca, in un altro mondo. Con le labbra che ripetevano ogni singola battuta, e con gli occhi fissi sul mio adorato protagonista.
Dopo un paio d’ore e con il gelato completamente divorato- nonostante la temperatura quasi gelida –i titoli di coda ci riportarono alla realtà.
Salutai Giulia con un bacio sulla fronte, ringraziandola con uno sguardo parecchio eloquente.
Finalmente leggera e del tutto libera da ogni assurdo senso di colpa, mi avventai sul portatile, per segnare qualche piccolo appunto sulla mia giornata.
Ripensai al mio duello verbale con il professore di matematica, a come mi ero sentita importante, coccolata dalla consapevolezza di aver compiuto il “sacrificio del secolo”.
Poi pensai a Morra e come era riuscito a distruggere tutto in un batter d’occhio.
Mi venne da ridere.
 
Masochismo e spirito di sacrificio devono necessariamente andare di pari passo? Probabilmente sì, visto che tutti quelli che si sacrificano perdono qualcosa. Se tutto va bene, non la vita.
 
Poi ripensai al film, in particolare alla scena in cui il leone- una sorta di divinità per il mondo di Narnia –si immola in nome della sua gente, del suo regno, dei suoi ideali.
 
Ma cosa ci spinge, nel profondo, a compiere un sacrificio di minore o maggiore entità? C’è chi si getta sull’altare in nome di un’idea, chi per proteggere qualcuno o qualcosa che ama... e chi, invece, diventa vittima sacrificale per il semplice gusto di mostrare una volta per tutte il proprio valore. Ma in nome di cosa?
In nome di se stessi, forse. Ma i sacrifici peggiori, quelli che alla fine non servono a niente e a nessuno, sono proprio quelli venati di egoismo.
Chi sta dalla parte del male- si sa –non si sacrifica. Chi si sacrifica per dimostrare qualcosa, invece, dopo sarà il solo a raccogliere i propri cocci. Nessun ideale da difendere, nessuno che combatta per difenderlo.

 
E, in fine, arrivai a me. Al “sacrificio del secolo”. Ancora convinta di aver fatto la cosa giusta.
 
Chi si immola per il bene, invece, avrà presto o tardi la sua ricompensa.
 
E la mia? L’avrei avuta una ricompensa?
Le mie riflessioni furono interrotte dallo scatto della chiave nella serratura. Riconobbi i passi, il rumore dei tacchi così elegante e silenzioso.
Mamma.
Ripensai ai jeans della signora Beckham. Era quasi l’una, ma dato che ero ancora sveglia... meglio approfittare della sua presenza per fare qualche domanda.
Cosa poteva mai nascondermi? Poteva esserci qualcosa di così terribile da spingerla a regalarmi una cosa così costosa?

  
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