Non
piangere, stupida!
Smettila!
Era umiliata. Piangere non era il suo modo di sfogarsi
preferito. Preferiva prendere a martellate una spada ancora rovente, o
urlare.
E invece, vergogna delle vergogne, era inchiodata davanti al ragazzo,
con le
braccia avvolte attorno al busto, scosso dai singhiozzi, e con le
guance
rigate.
Stentava a riconoscersi.
Se avesse assistito ad una scena del genere, avrebbe preso a
schiaffi la ragazza piangente senza pensarci due volte. Mostrarsi
debole non
portava mai nulla di buono, specialmente ad una donna sola. Come era
lei.
Quando riaprì gli occhi, finalmente erano asciutti,
nonostante i singhiozzi ancora la scuotessero.
Gabor, dal canto suo, continuava a tremare e per la prima volta lo vide abbassare lo sguardo.
Forse
sei davvero
diventato insensibile. Non avresti mai detto una cosa del genere,
idiota.
Non ho bisogno di
sentirmi peggio di come mi sento già.
Nemmeno lei…
Da quando il suo corpo e la sua mente avevano deciso di
agire seguendo vie diverse? Il primo sembrava convinto a seguire i suoi
istinti
animaleschi, alzando le mani e lasciandosi andare a gesti di debolezza.
La
seconda, invece, sembrava intenzionata a farlo sentire ancora peggio,
rimproverandogli il poco tatto dimostrato.
Doveva calmarsi, assolutamente. Non poteva permettersi altre
scene come quella appena vissuta.
Aprì leggermente le labbra, lasciando entrare una gran
quantità di ossigeno, e per poi espirare lentamente.
Sentì chiaramente i suoi battiti rallentare. Dietro la sua
stessa mano ricostruì la maschera di compostezza ormai
troppo radicata in lui.
Nello scoprire nuovamente il volto, incrociò lo sguardo non
più lacrimoso della ragazza.
Deia sospirò impercettibilmente, puntando lo sguardo sul
petto del ragazzo, proprio dove sapeva essere la sua immancabile croce.
Avrebbe
riso. Lo aveva sempre biasimato per quella sua fede cieca in quella
religione che a suo avviso non aveva fatto altro
che male. A partire da sua madre.
Eppure in
quel momento, lo invidiava.
Scosse la testa, abbassando la manica che il ragazzo aveva
poco prima sollevato.
Un brivido attraversò la schiena martoriata del ragazzo.
Ricordò il primo giorno in cui l’aveva vista.
Aveva pensato
che non avrebbe mai chiesto pietà, né implorato,
eppure era stato lui a
costringerla a farlo.
Gabor abbassò – per la seconda volta- lo sguardo,
chiudendo
gli occhi.
E capì cosa fare
Si schiarì la voce, tentando di scacciare quel groppo che
gli impediva di respirare e parlare liberamente.
E proprio
mentre terminava la frase, si rese conto che la
ragazza avrebbe dovuto indossare abiti prettamente femminili. Di
problemi ne
avrebbe avuti, eccome!
Il silenzio scese di nuovo ad opprimerli in quel buco di
stanza, costringendoli a fissarsi di nuovo, in una tensione sempre
più densa.
Gli avvenimenti di poco prima ancora ad echeggiare nelle pareti.
Come poteva scusarsi con una sola, banalissima, frase?
Ma sarebbe stato meglio di niente, no? Almeno,
nell’osservare quel segno rosso che le avvolgeva il polso,
semicoperto dalla
stoffa della manica, si sarebbe sentito meno…pessimo.
Decise di rivolgerle un cenno del capo, per congedarsi, ma
una volta pronto a chiudere la porta, si fermò. La
sensazione di malessere che
gli aveva afferrato lo stomaco non voleva sparire, anzi.
Forse era davvero troppo tempo che viveva in quel castello.
Forse doveva andarsene. Forse poteva ritirarsi in un monastero. Forse
avrebbe
smesso di sopportare cattiverie.
Una signora dai capelli tendenti al grigio, con il volto
dolce ma atteggiato a severo e le mani sporche di cenere, lo fissava
tra il
contrariato e il divertito.
Portò una mano ad accarezzare il volto serio del ragazzo,
come aveva fatto per quasi vent’anni.
Chiuse gli occhi, assaporando appieno l’aroma di lavanda che
emanava la levatrice. A volte una seconda
madre può fare molto più della vera.
La donna strinse le labbra, lasciandogli un buffetto sulla guancia,
per poi ritrarre la mano.
La donna si irrigidì leggermente. Erano rari i momenti in
cui
si lasciava andare e gli ultimi che riusciva a ricordare erano quelli
in cui
non raggiungeva i sei anni di vita. Gli circondò le spalle
con le braccia,
accarezzandole lentamente, come quando le si stringeva addosso
chiedendole
perché non potesse andare dalla sua vera
mamma.
-
Perché? –
-Mi dispiace, tesoro.
Non lo so.-
Mentirgli era più
facile, di fronte a quegli occhioni scuri e bagnati dalle lacrime.
- Ma io voglio stare
con lei… Anche tu sei la mia mamma, ma io voglio lei!-
Faceva male vederlo
soffrire così. In cinque anni non le aveva mai causato
problemi. L’unico
capriccio che si era riconosciuto, lei non poteva concederglielo.
Gli riservò un’ultima carezza, a cui rispose con
uno dei
sorrisi più dolci e rari che concedeva.
La sua coscienza non voleva lasciarlo stare.
Sarebbe stato decisamente meno faticoso darle contro, se
avesse avuto la certezza che si sbagliava. Perché lui aveva
avvertito che
qualcosa non quadrava. L’aveva anche avvertita, lasciandola
però sola.
Le fece un
cenno col capo per poi voltarsi e continuare per
la sua strada. Per sua fortuna nessuno si era mai messo in testa di
seguirlo
quando spariva. Si sarebbe rivelato troppo sconvolgente per chiunque.
Mentre la donna eseguiva quello che le era stato chiesto, il
ragazzo raggiungeva una porta di legno scuro, finemente intagliata con
rami
argentati che partivano dalla maniglia e si allargavano su tutta la
tavola. Era
chiaramente molto antica. Il legno sembrava schiarito ad altezza
d’uomo, come
se colpito più e più volte da una mano, mentre
alcuni rami erano sbiaditi alle
estremità.
Il ragazzo non si fermò a bussare o a chiedere il permesso,
ma si premurò di fare quanto più rumore possibile
nell’avvicinarsi all’uscio.
Dall’interno della stanza non arrivò alcuno
rumore, segno
che chiunque si trovasse all’interno, dava il permesso al
ragazzo di entrare.
L’interno non era molto illuminato, solo una candela su uno
scrittoio rischiarava l’ambiente, colorato dal rosso scuro e
dall’argento.
Una figura femminile era seduta su una bergere, rivolta
verso lo stesso scrittoio su cui erano accatastati libri e fogli vari.