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Autore: detoxIretox    05/10/2011    4 recensioni
Il Paese delle Meraviglie è un classico. Impossibile resistere ai colori vivaci, alle straordinarie creature, alla vita travolgente di un mondo così vivo.
Un mondo dei balocchi nel quale si sono perse tante persone, e dal quale nessuno ha fatto ritorno.
Per Haruna sarà un viaggio di sola andata nelle tenebre di un paese distorto, una favola a lieto fine mancato, dolce come lo zucchero e amara come la morte.
***
So che dovrei aggiornare tante altre cose, ma non ho saputo resistere.
[accenni Haruna/Fubuki, Endou/Kazemaru, la mia solita roba, yada yada yada]
Genere: Fantasy, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Celia/Haruna, Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Non chiedetemi da dove è uscita questa cosa, non ho nemmeno il coraggio di chiamarla fan fiction. Il fatto è che ieri pomeriggio ho fatto una specie di full immersion nel mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie. Ho cominciato col rileggermi le mie parti preferite del libro, continuando col guardarmi prima il cartone poi alcune parti di Alice in Wonderland (il film di Tim Burton *pubblicità occulta ò.ò*), finendo in bellezza con le centomila canzoni e video dei Vocaloid riguardanti il Paese delle Meraviglie... ne hanno davvero a dismisura .-.
Col risultato che stanotte ho sognato questa robaccia che sto per proporvi (con qualche aggiunta e modifica alla storia originale).
Inutile dire che mi sono ispirata a tutto ciò citato sopra, più a questa immagine, tanto per terminare in bellezza:

http://www.zerochan.net/598706

 
Che altro dire? Mi verrebbe in mente: fuggite finché siete in tempo! ma così mi getterei la zappa sui piedi (anche se vi salverei la vita ùwù). Quindi, mh... buona lettura!

 
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PROLOGO


Per qualche motivo Haruna credeva che la sua vita fosse spenta. Noiosa. Inutile. Un totale spreco di tempo. Si chiedeva sempre perché si dovessero fare certe cose, come, per esempio, essere educata, fare ciò che i più grandi le chiedevano, comportarsi esattamente come gli altri volevano che si comportasse, compiacere gli adulti, e non solo loro. Insomma, viveva una vita che era una copia sbiadita di quella che avrebbe voluto vivere. Lei avrebbe voluto divertirsi, fare ciò che voleva, dimostrare ai “grandi” la sua vera indole. E invece viveva costretta a mostrare una Haruna che non era lei.
La consideravano una bambina, troppo piccola per andare a spasso da sola o senza l’accompagnamento di suo fratello. Eppure era abbastanza grande per cucinare, riordinare la casa, fare le compere. Troppo piccola per parlare con un ragazzo che non fosse Yuuto. Abbastanza grande per mietere, lavorare, fare il pane e tessere.
La modellavano come a loro faceva più comodo, la rendevano come volevano loro senza curarsi minimamente di ciò che voleva lei. Per questo Haruna si sentiva completamente impotente, si sentiva come morta, rinchiusa in un grigiore dal quale non poteva fuggire.
Avrebbe voluto qualcosa di nuovo. Qualcosa di colorato che la rivitalizzasse, che la salvassero da quella monotonia che esitava a chiamare vita. Aveva bisogno di un mondo che le si addicesse; che viaggiasse sulla sua stessa lunghezza d’onda; che assecondasse la sua innata fantasia e la sua vivacità, vivacità che restava sempre sopita dietro la maschera di brava bambina che gli altri le imponevano.
Non era quella la vita che voleva. Ma daltr’onde, non poteva fare altro che viverla, dato che era l’unica che le era stata proposta.
Almeno fino ad allora.
Haruna aveva due genitori e un fratello più grande. La sua famiglia era quanto più nella media si potesse immaginare. Il papà era un artigiano molto conosciuto in paese, la mamma era una dottoressa competente e capace. Yuuto era un ragazzino responsabile, buono e con la testa sulle spalle, tanto da sembrare un secondo padre per Haruna. Haruna era solo Haruna. Una bambina dai capelli scuri, le gote sempre arrossate, gli occhi grandi e i vestiti immancabilmente sporchi e stracciati, a causa delle scorribande che faceva tutti i giorni. Di restare a casa ad annoiarsi, proprio non se ne parlava, sebbene era questo che volevano i “grandi”. E con grandi Haruna intendeva i genitori, il fratello, la zia e gli insegnanti.
Non erano una famiglia troppo benestante, ma non se la cavavano nemmeno male. La mamma e il papà godevano di rispetto in paese e spesso a casa venivano tenute delle feste con clienti dell’una o dell’altro. In quelle occasioni tutto - e quando dico tutto, intendo proprio tutto - doveva essere perfetto. La casa doveva dare un’immagine di pulizia e accuratezza, i fiori dovevano essere potati, nemmeno un millimetro di erba doveva superare gli altri fili perfettamente allineati. Yuuto doveva sembrare già un uomo, con vestito elegante e con tanto di papillon, mentre ad Haruna veniva affibbiata la parte della dolce signorina ubbidiente e controllata, munita di abito immacolato, corpetto stretto tanto da mozzare il fiato e cappello col fiocco, per non parlare dei guantini di una bianchezza accecante, che mai rimanevano tali, siccome lei sapeva sempre come sporcarli. Pozze d’acqua nelle quali cadeva, fango con il quale si spruzzava. Mamma e papà la guardavano accigliati e scuotevano la testa con disapprovazione, storcendo il naso, e quello era il segno che Yuuto doveva intervenire. Prendeva Haruna prima che gli ospiti potessero vedere in che stato era ridotta e la accompagnava in camera, scegliendo un nuovo vestito e lasciandola da sola a cambiarsi. Poi la scortava di nuovo fuori, e via di nuovo con il concerto di complimenti: “quant’è bella e posata vostra figlia!”, o “davvero adorabile, sembra così innocente!”.
Haruna stava lì, si lasciava scivolare quelle frivole frasi come se fosse stata acqua sulla pelle, in fondo non le importava. Rimaneva impassibile, col timore di appassire per l’assoluta monotonia, la fotocopia sbiadita, della vita che conduceva.
 
***
 
“Haruna” la chiamò la voce di Yuuto.
La ragazzina accorse. Era stata fino a quel momento sdraiata a pancia in su sul letto, a fissare il soffitto leggermente crepato e devastato dalle macchie di umidità. Per ammazzare la noia aveva inventato un gioco: faceva finta che le macchie fossero dei personaggi, umani, animali o cose, e poi creava una storia dal nulla, narrandosela nella testa e immaginandosela tutta. La voce di suo fratello arrivò nel bel mezzo di una battaglia tra un cinghiale e un unicorno per il possesso di un mondo luminoso. Ovviamente, neanche a dirlo, avrebbe vinto l’unicorno. Ma Haruna non riuscì ad arrivare a quel pezzo, e si alzò in fretta e furia. Come le avevano sempre insegnato, ‘quando un uomo chiama, mai farlo aspettare’. “Dimmi” fece.
Lui le porse un cestino di vimini che aveva intrecciato proprio Haruna qualche mattina prima. “Tieni, mamma vuole che vai a raccogliere delle rose per le composizioni floreali per la prossima festa.”
Haruna annuì, prendendo ciò che le veniva dato. “Altro?”
Yuuto sorrise e le accarezzò dolcemente i capelli. “Sorellina mia, sei fin troppo malinconica. Prova a sorridere un po’, metti di cattivo umore chiunque ti veda. Intesi?”
Lei annuì nuovamente, facendo un sorriso tiratissimo. “Va bene.”
“Torna presto” le raccomandò Yuuto. “Lo sai che papà non vuole che tu esca da sola.”
“Va bene.”
“Ricorda le rose!”
“Va bene.”
Annuire, sottostare, compiacere.
Sempre.
Haruna si avviò.
E un’ombra silenziosa pensò che fosse il caso di seguirla, fin dentro la foresta, fin quando non sarebbe stato il momento giusto per mostrarsi e fare ciò che andava fatto.
Haruna camminava.
 

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Il prossimo capitolo verrà aggiornato al più presto :D
...cioè, mai D:
...scherzavo :D
...non che a qualcuno interessi, comunque D:
...ora me ne vado :D
E grazie a tutti i coraggiosi che sono arrivati fin qui! Chiunque voi siate, vi voglio bene <3
  
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