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Autore: Euterpe95    09/10/2011    0 recensioni
Dev'essere una prerogativa di coloro che hanno radici quella di tornare a casa, quella di avere un posto dove tornare.
Ariele torna al paese d'origine della sua famiglia
Ariele però, è come lo spirito dell'aria di cui porta il nome: non ha radici ed è senza tempo. Riuscirà a riconquistare l'amore di Luca, che nel frattempo sembra essersi dimenticato di lei? Riuscirà a  tenere testa al cupo ed affascinante Edward con il quale non fa altro che litigare?
Ma soprattutto, troverà ciò che sta cercando?
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Manderìa
 

Cosa so? Cosa cerco? Cosa sento? Cosa chiederei

se dovessi chiedere?

 

- Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine -
 
A Lucia,
che con le sue lettere mi ricorda sempre che il tempo non esiste.
A Marghy, Leira e Sofia,
loro sanno il perché.
All’Alieno,
perché mi aiuta a gestire le tre pazze sovra citate.
 
 

Aspettai ancora una decina di minuti prima di levarmi le Converse rosse che indossavo e sistemarle sul sedile posteriore insieme agli altri bagagli e arrotolai l’orlo dei jeans sopra la caviglia; decisi che avrei preceduto mia cugina a casa della nonna e mi incamminai lungo il canale lanciando ogni tanto piccoli sassolini dentro l’acqua, mi sembrava di essere tornata bambina di colpo.
Il vecchio albero d’ulivo era esattamente dove lo ricordavo e il suo tronco nodoso sovrastava il canale in prossimità dello stretto ponticello di pietra; da piccola non riuscivo nemmeno a sfiorarne le fronde tanto erano in alto. Mi alzai sulle punte dei piedi e afferrai un ramo senza nemmeno saltare. Peccato, ero cresciuta.
 
Non ho mai capito come casa di mia nonna fosse il centro della vita sociale del paese, oltre alla chiesa, alla piazza, al bar “Da Beppe” e alla sala comunale. Fatto sta che quella casa me la ricordo sempre come un via vai di gente rumorosa e colorata: amiche della nonna che venivano a cuocere il pane nell’unico forno del paese, uomini che scaricavano sacchi di mangime o di granaglie, i pastori che riportavano le pecore all’ovile, le donne che facevano il formaggio, le comari che venivano per chiacchierare e sparlare mentre i bambini si inventavano giochi sempre diversi correndo sulle pietre bollenti del cortile o arrampicandosi sugli alberi di agrumi ai bordi delle strade o sugli imponenti ulivi nei campi di terra rossa e argillosa. Io ho passato le migliori estati della mia vita in questo modo: i piedi scalzi, la pelle cotta dal sole e la maglietta sporca di succo d’uva; in quelle estati sono cresciuta non solo in altezza: ho superato un’assurda prova di coraggio per scommessa, ho imparato a fare il capo di una banda di ragazzini scalcinati, mi sono innamorata per la prima volta, ho dato il mio primo bacio a fior di labbra, ho avuto il primo fidanzatino e per la prima volta mi sono sentita a casa.
Non sapevo perché ero tornata.
Ufficialmente era per accompagnare Anita e salutare la nonna che non vedevo da cinque anni ma realmente non lo capivo nemmeno io.
Così, mentre camminavo fra i ricordi della mia infanzia felice, desiderai per la prima volta di non essermene mai andata, di non avere mai lasciato l’unico posto dove mi fossi mai sentita amata.
 
Riflettendo, sperai anche con feroce determinazione che niente fosse cambiato dall’ultima volta che ero arrivata dopo gli esami di terza media arrancando attraverso quegli stessi campi, l’anno in cui mia madre lasciò mio padre e mi portò con sé perché voleva per me un’avvenire migliore di quello che voleva offrirmi lui, tornando a vivere a Manderìa dopo la morte del nonno.
In quel caso come in molti altri in seguito nessuno chiese cosa ne pensassi, se mi sarebbe piaciuto stabilirmi tutto l’anno al paese e andare a scuola con i miei compagni di scorribande o se avessi preferito rimanere a Milano, sola nel nostro freddo ed enorme appartamento, guardando la pioggia e il grigiume da una finestra del quinto piano. Scossi dalla testa quei pensieri e mi fermai davanti al piccolo bivio che portava da una parte al paese e dall’altra al cimitero.
Desiderai che niente fosse cambiato per il profondo senso di sicurezza e familiarità che mi ispiravano le cose statiche e immobili come gli uliveti che costeggiavano la strada infangata e gli spazi perfetti che separavano i filari di vite carichi di uva.
E proprio nell’istante in cui più volevo far parte di quella realtà fatta di staticità e immobilità, sentii che i miei piedi e il mio cuore stavano tornando indietro, dove avevo lasciato la macchina insieme ai bagagli, sentivo che il mio corpo si ribellava a tutta quella pace e a quella promessa di serenità.
Perché? Perché odiavo e amavo così tanto la sicurezza prepotente di quell’esiguo grumo di case? Perché una volta che sentivo di trovarmi bene da qualche parte provavo la voglia irrefrenabile di andarmene?
Perché sentivo di non avere radici? Chi ero? Non ero certo come Anita che faceva tanto la dura ma che poi finiva sempre per tornare; non ero come nonna, che remava contro ogni tipo di progresso spalleggiata dal suo club del rosario. Ero un’anima inquieta e per la prima volta lo pensai con rimpianto e non con fierezza.
 
Non sapevo se proseguire o tornare indietro, così mi fermai.
Rimasi ferma in mezzo all’aperta campagna senza avere idea di cosa fare, seduta su un grosso masso conficcato nel terreno, una mano sul cuore e l’altra sul capo.
Fissavo il cartello e il bivio che avevo di fronte come se fossero una cartolina, fingendo di non avere alcun problema, di stare solo godendo del paesaggio.
- Che fai? - esclamò una voce vivace alle mie spalle.
Anche senza voltarmi sapevo perfettamente a chi appartenesse: Margherita, la sorellina di Anita, un anno più grande di me.
- Ciao cugina - risposi cercando di non far trasparire la guerra civile che si combatteva tra le mie ossa craniche.
- Ciao Ari, tutto ok? - domandò lievemente preoccupata e sedendosi al mio fianco.
Io annuii.
- Coma facevi a sapere che ero qui? - chiesi lanciando una pietruzza al di là di un muretto a secco.
Lei si sdraiò sulla pietra scaldata dal sole chiudendo gli occhi.
- Nonna - rispose semplicemente.
- Ah, giusto - borbottai - dimenticavo che mia nonna fosse anche un’indovina.
Margherita si tirò su sui gomiti fissandomi a metà tra il pietoso e il comprensivo.
- Ti conosce bene.
Sentii che stava per dire dell’altro ma non lo fece.
- Novità?
Lei non percepì la nota ironica e la sentii illuminarsi.
- Luca è diventato un bel ragazzo davvero.
- Già, peccato che stia con Maria Pasquali - sputai acida.
- Ma lei non ha nulla che tu non abbia...
Vidi i suoi occhi posarsi sul mio corpo snello fasciato dai jeans taglia trentotto, sulla vita sottile e sul seno piccolo.
- A parte qualche curva in più - terminai io pensando alle curve generose di Maria.
Mia cugina mia abbracciò.
- Lascia pure che si sposi a vent’anni e sforni un bambino all’anno prima della menopausa, tu hai qualcosa che io non avrò mai e che non ha nemmeno Anita, per quanti sforzi faccia.
Continuai a fissare l’orizzonte.
- Cosa?
- La capacità di andare e non tornare, di gettarti tutto alle spalle e ricominciare da capo.
- Non mi sembra che sia così...
Lei mi guardò con quegli occhi di oro ambrato identici ai miei.
- Sì, invece, tu hai talento.
Si riferiva ovviamente al sogno che coltivavo da una vita intera: il teatro; ero riuscita ad ottenere ruoli importanti nella compagnia teatrale di mio padre e questo non perché fossi sua figlia, anzi, lavoravo il doppio degli altri, ero la prima ad arrivare alle prove ed ero sempre l’ultima ad andarmene, dopo avere riordinato la scena e pulito il palco, studiavo ogni battuta alla perfezione provando anche sei ore al giorno.
Avevo appena spedito la domanda d’ammissione all’accademia d’arte drammatica ma sapevo che andarci avrebbe significato tradire le aspettative di tutta la mia famiglia che sognava di vedermi diventare medico, non andandoci avrei tradito le mie. All’improvviso mi accorsi di essere davanti a molti più bivi e non solo a quello che stavo guardando intensamente.
- Io me ne voglio andare via - disse inaspettatamente Margherita fissando il vuoto davanti a noi.
- E perché?! - dissi scettica, dove avrebbe potuto andare con una famiglia asfissiante, presente e apprensiva come...come la mia, perché in effetti facevamo parte della stessa famiglia e me ne resi conto con orrore solo in quel momento.
Paragonai l’arretrata mentalità con cui erano cresciute Anita e Margherita a quella con cui mi aveva cresciuta mia madre e tirai un sospiro di sollievo: non potevano essere così diverse.
Ad un tratto provai fastidio nei confronti di Margherita, delle sue idee, del suo accento pesante, del suo profumo dozzinale e dell’eccessiva enfasi con cui aveva pronunciato la frase, come se fosse una vecchia attrice consumata di terza categoria mediocre e commerciale, come se temessi che riuscisse davvero a realizzare il suo sogno che credevo commerciale ed inflazionato e io ne fossi invidiosa in anticipo.
Inspirai e trattenni le lacrime.
- Altre novità?
Lei mi snocciolò in fretta una quantità incredibile di nomi, gente morta che non ricordavo nemmeno per sentito dire, gente sposata, bambini nati, bambini in arrivo con o senza padre accertato, arrivi estivi e partenze in cerca di lavoro. Apprezzai la delicatezza con cui evitò i divorzi, anche se ormai sapevo che il mio nome e quello di mia madre volavano di bocca con ali silenziose, senza che nessuno osasse pronunciarli per paura della monumentale e onnipresente figura della nonna.
- Basta così? - dissi stiracchiandomi.
Mia cugina sorrise maliziosa facendo finta di pensarci su, quando sapevo che doveva avere tenuto la notizia clou per la fine. Strinsi i pugni immaginando che si trattasse delle imminenti nozze Luca-Maria.
- Edward Hamilton è in paese.
Rischiai di cadere, non potevo crederci, non lui, non Hamilton! Era il figlioccio di mia nonna mentre io ero la figlioccia di sua nonna, una donna esile che faceva parte del club del rosario di nonna; fin da quando eravamo piccoli ci costringevano a giocare insieme ma finivamo sempre col litigare e picchiarci. Feci il conto mentalmente: se io avevo diciannove anni, lui doveva averne ventitré o ventiquattro. Strano che fosse a Manderìa; da quando aveva compiuto diciotto anni non erano più venuti né lui né sua madre e il grande palazzo del seicento era diventato il teatro preferito delle nostre prove di coraggio. Non poteva essere vero, da che mi ricordavo era uno spocchioso bambino viziato e ombroso che si vergognava delle origini della madre e non parlava mai con nessuno di noi anche se alcuni ragazzini avevano provato più volte a tentarlo con partite a pallone o a nascondino. Si comportava da insopportabile snob con tutti, ma aveva una particolare, se così si può dire, per me; non ricordo mai un’occasione in cui non mi abbia fatto qualche scherzo più o meno pesante. L’avevo odiato come si odiano le punture di zanzara sotto la pianta del piede e lui ricambiava apertamente. Hamilton, lui e le sue insulse camicie di sartoria con le iniziali ricamate sopra.
Mia cugina fraintese il mio stupore.
- Lo so, è da non crederci: così ricco, così bello e così...solo!
- Solo? - ripresi fiato lentamente io.
- I suoi genitori sono morti l’anno scorso e lui ha rilevato lo studio di suo padre a Londra dopo la laurea...è pieno di soldi ed è anche single.
- Credimi, c’è un motivo per cui è single.
Lei spalancò gli occhi dorati.
- E quale?
La presi mentalmente a sberle.
- Il suo carattere di merda. Chi vuoi che se lo prenda uno algido e dispotico come lui?
Margherita sospirò sorridendo scioccamente.
- Chi lo sa?! Intanto però nonna lo ha mezzo adottato e quindi è ospite fisso a casa nostra.
Non potevo crederci: tradita dalla mia stessa famiglia.
- Dimmi che non è vero.
Lei rise.
- Non è mica la fine del mondo, sai? Dopotutto è la sua madrina.
- Già, e come mai a lui non ci pensa sua nonna?
Margherita abbassò gli occhi.
- È morta nell’incidente insieme ai suoi genitori.
Collegai le sinapsi e provai la sgradevole sensazione di avere parlato troppo.
- E come mai io non ne sapevo nulla?
Lei puntò gli occhi nei miei con una nota di silenzioso rimprovero.
- Perché, te ne sarebbe fregato qualcosa?
Stetti zitta.
- Scusami, ma non ci sei stata granchè negli ultimi cinque an...
- Sì, hai ragione - tagliai corto con la voce tremante.
Lei si morsicò le labbra.
- Davvero, scusa...
- No - la interruppi brusca - lasciami sola.
Mia cugina scese dal masso e si incamminò verso il paese, ma proprio prima di svoltare l’angolo si girò indietro a guardarmi.
- Vai, tanto la strada la conosco - la esortai.
Lei annuì e continuò a camminare mentre il vento scuoteva piano le fronde degli ulivi sopra di me.
 
Il vento era sempre stato l’elemento che mi dava il benvenuto all’aeroporto quando arrivavo, chi non è mai stato a Manderìa non può capire; ad un certo punto si sente il vento cantare e in quel canto che frusta i corpi e solleva la spuma del mare, si distinguono le voce di tutti coloro che ci hanno preceduti e di color che verranno, che come mani invisibili accarezzano la terra. Il vento di qui porta o la pioggia o le farfalle, e quando una mi si posò su un braccio, mi misi a piangere senza nemmeno sapere il perché.
  

  
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