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Autore: Francesco_Finucci    09/10/2011    0 recensioni
Giunse il tramonto. Giunse inseguendo le nubi, un velo purpureo steso con le corde dei venti; frustavano, i venti, il volto del Cacciatore, mentre migliaia di granelli di sabbia finissima danzavano, opaca aurora nel cielo.
Nubi come fiamme, in quel cielo, come male giunto sulle vette della terra.
Purificarlo nel silenzio delle stelle, come pioggia malata, in stallo nelle nubi più alte,
un male il cui solo tocco sembrava macchiare quel luogo senza tempo.
Socchiuse gli occhi per osservare gli ultimi battiti di luce all'orizzonte, mentre il sole gettava sfumature rossastre nel suo sguardo.
Genere: Avventura, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
Tramonto

 

 

Giunse il tramonto. Giunse inseguendo le nubi, un velo purpureo steso con le corde dei venti;
frustavano, i venti, il volto del Cacciatore, mentre migliaia di granelli di sabbia finissima danzavano,
opaca aurora nel cielo.
Nubi come fiamme, in quel cielo, come male, giunto sulle vette della terra.
Purificarlo nel silenzio delle stelle, come pioggia malata, in stallo nelle nubi più alte,
una colpa il cui solo tocco sembrava macchiare luoghi senza tempo.
Socchiuse gli occhi, per osservare gli ultimi battiti di luce all'orizzonte, mentre il sole
gettava sfumature rossastre nel suo sguardo. L'accampamento non era ormai molto distante.

Indeciso, nient'altro che furia, emergeva, nel volto corrugato dall'odio, dietro la sarcastica
maschera di un Dio d'odio, odio non più maschera né volto, ma idolo a sé vivente e poco
disposto ad estinguersi col tempo.
Sollevò le braccia, come trattenendo una sfera, prima di protenderle, d'improvviso,
in direzione dell'accampamento, appena scosso, prima di divenire cenere.

Fu così che la cenere tornò a danzare assieme alla sabbia.
Mormorò poche parole, più a se stesso che ad un invisibile seguito, sacerdote
di un inesistente rito. “Pulvis et umbra sumus”. Spronò il cavallo, che subito si lanciò
in piena corsa, pur cieco.

Affondando nella sabbia, l'animale discese la duna striata dal vento, neanche lontanamente
affaticato, per poi giungere a ciò che restava di quelle recenti rovine. Il Cacciatore lo sentì
fremere prima di fermarsi, forse per il silenzio di quella terra desolata.

Smontò.

Lasciando pesanti orme presto eliminate dall'incessante opera del tempo, arrivò alle ceneri
del focolare. Alcune donne erano distese, svenute e lacere, ormai non più coperte dalle rozze
tende di quella strana parodia di esseri senzienti cancellati dalla realtà. Controllò che quegli
unici esseri viventi, risparmiati dalla sua furia, fossero ancora vivi, poi passò oltre, rischiando
quasi di cadere.

Ancora prima di avvertire l'equilibrio che veniva a mancare, un dolore al petto batté un colpo
sordo, sentore di una disgrazia imminente.

Ai suoi piedi una fossa comune, di fronte alla quale ogni senso umano avrebbe combattuto
con gli altri per gettare il malcapitato nei più confusionari conati di vomito. In lui, questo consisteva
in un vago ma insistente odore di sciagura.
Gli artigli di quella disperazione non sembrarono scalfire le superfici del suo essere.
Tuttavia, la stessa aria fremette rabbiosa di tale scempio.
Prese con sé quelle ceneri di anime disgraziate. Ordini superiori.
Nello stesso tempo, un urlo lacerò l'aria. Quelle mani, quegli occhi, quelle anime...
Sputò sangue.

Tornato indietro, ad uno schiocco delle sue dita, le donne si risvegliarono.
Ma ormai era lontano, in un luogo dove loro non l'avrebbero potuto seguire.

Il vento si mise in silenzio. Trasportato, di nuovo, senza alcun preavviso. Stavolta, però, lo aveva previsto.
Aveva ormai compreso il moto di tale psicotica routine: Ruote dentate muovevano il contrappeso
di ignote colpe, fino all'esaurirsi, fino a quando tale dolore divenisse il proprio dolore, le proprie fratture,
il proprio sangue versato.

La risposta. La risposta era lì, attorno a lui. Lo braccava. Prima che l'idea della domanda potesse percorrere
il breve tragitto dalla mente alle labbra. Perché? Scoprii, il Cacciatore, il bisogno di significato, il motivo che
agita gli uomini nel tempo, la domanda ad una risposta mai nata. Sussurrava di strani miti. Di allucinazioni
più che reali. La risposta. La risposta bruciava nelle vene, rendendo vivo un essere costruito coi mattoni del
caos, destrutturato dal vento in messaggi di vendetta. Destinato a posarsi in ogni giardino del male.
Sì, i fiori nascono anche dal male. Non molto confortante, in effetti.

Attese che l'ambiente intorno a sé diventasse più chiaro. In quel mentre, rifletteva su come avrebbe
occupato il proprio tempo. Non che avesse fretta, ma detestava l'inerzia.
Poté finalmente vedere con chiarezza. Mostrò i denti. Muoveva, ed era sottoposto di quel destino
transitorio, giogo di una sfuggevole causalità. Avanzava, lento e cieco, pedina di un gioco privo di
pedine. Nell'ombra, specchi di possibilità, la cui vicinanza possedeva un bizzarro potere falsificante.
Avanzava, unica scelta, dove un passo era la prospettiva dell'uscita, quanto dell'entrata.
Respirando lentamente nutriva i propri demoni. Prese la direzione dell'istinto.

Pitture rurali disegnate con le bombolette spray donavano alle pareti geometriche il dinamismo
della natura, come se l'istintualità stesse lentamente risorgendo dalla cripta latente dove il
genere umano l'aveva celata. La rivelazione di anomale sfumature grottesche lo attraversò.
Il morire degli uomini, tra le inesistenti dune, avrebbe preso le tinte romantiche dell'esotismo
e della lotta virile e selvaggia. Poteva notare l'uomo primitivo che riappariva dietro le palpebre
della modernità. La battaglia che contaminava la gloria... vi era ben poco di glorioso nel gioco
di equilibri tra terrore e follia. Ben poco.

Dobbiamo andare lì per difenderci da loro. Mi sembra ovvio, siamo sotto attacco.
Cosa vogliono questi selvaggi? Portiamo loro la civiltà! Ammazzateli, ammazzateli...

Il cigolio della porta alla quale era giunto lo risvegliò dai propri pensieri, gettandolo nelle fauci
della realtà. Non disponeva di paradisi artificiali. Non li accettava. Non esisteva strumento al
cui cospetto essa si sarebbe piegata. Sarebbe tornata, tanto più violentemente quanto più da lui
distanziata.

"Ah, sei tu... Quindi?"
"Terra desolata..." Sussurrò, roco.
"Pronto?"
Per cosa?” Chiese, con sospetto.
Andare avanti”
"Perché dovrei rimanere in questa città irreale?"

Ironizzava stancamente, mentre fantasmi continuavano ad affacciarsi sulla sua mente.
"Bene."
"Voglio spiegazioni".
"L'inferno non deve spiegazioni ai dannati".

Voleva rispondere, ma quando il vento si levò di nuovo, comprese che le sue parole non
sarebbero state udite da nessuno. Era di nuovo in viaggio.

La più banale delle abitazioni. Nulla poteva esistere di più perversamente quotidiano
che quella casa, pensò. Tuttavia, continuò dialogando con sé stesso, dove le acque si
placano, e il ghiaccio giunge a decomporre la memoria. Qui, tra le pieghe del normale,
si spezzano i congegni, nasce la più recondita follia. Attese.

Uno sguardo lo scrutava convinto di essere invisibile. Ma non lo era.
La cucina, tesa in spasmodica attesa, richiamava a sé, immobile, una routine in ritardo
dal lavoro. Qualcosa, tuttavia, aveva compromesso l'eterno ritorno dell'uguale. Qualcosa
si era spezzato. L'orologio batteva il tempo, assieme alle gocce di sangue che cadevano
da un riflesso nel buio. Un coltello si fece avanti, seguito da una mano. Poi l'uomo.

L'inanimato complesso di metallo suonò le sei di sera.
Prima che il pensiero distorto di quell'essere potesse contemplare l'idea dell'assassinio,
nel giorno ancora vivo, il coltello cadde sul pavimento. Poi nulla d'altro.
Non udì, quella sera, le vibrazioni del crudele dramma. Una voce sì infiltrò, con perfidia
quasi umana, dicendosi che nulla era cambiato. Che quella cenere giaceva sul fondale
di una società inabissata, prima dell'insignificante venuta di un umano angelo della morte.
Comparsa di una personale teleologia cantata, si perdeva nell'illimitata libertà, dettando guerra
alla follia umana, inconsapevole di quanti, e quali fili dell'esistenza stesse toccando.

Le anime giacenti in pochi metri quadri di prassi sarebbero giunte alla coscienza dello spirito
del mondo, spiando dal buco della serratura l'umanità, nel breve durare di una verità indotta
da sorridenti venditori di inibitori del pensiero. Sarebbero sorte tra macerie dello spettacolo,
occluse da love-stories immaginarie, crimini brutali da oltre l'equatore, con qualche sprazzo
sui nemici della democrazia intenti a masticare tritolo.
Una vita umana ridotta a immagine fenomenologica, spirito giacente con data di scadenza.
Un destino ontologico di tipo on/off.

Una peculiare osmosi attraversa un'etica binaria, ricombinando l'esistenza con in nulla ottenendone
due potenti assoluti. Esistere diviene essere per l'uomo, accartocciando dietro le quinte del mondo
ciò che per l'uomo non è. Le personae non gratae. Dal movimento improvvisa cade la neve, e non è
più umano il ricordare. Finita è la guerra tra l'Essere e il Non Essere, si imbandisca il banchetto dei vincitori,
venga il vino.

La realtà, come sabbia chiamata a formare il caotico castello di carte dell'identità, congela sotto il peso
dell'immobile imminenza. Succede che siano i più saldi, i più fieri, i più sicuri ad essere eletti. A costoro
venga concessa la carica di ebbro Prometeo, guida della civiltà. Ai forti e ai decisi. Agli impavidi. Agli idioti.

Di nuovo fu buio. Di nuovo luce. Per quell'attimo, quel nuovo eterno attimo, egli non era esistito. Per un attimo era stato nulla.
Un tutt'uno col nulla. Ora, invece, fibra alienata dal tutto che aveva attorno e col quale doveva in qualche modo convivere;
Come se molecole di inesistenza gli fossero rimaste attaccate nel viaggio. Le scosse via da sé, con la coscienza che
vibrava sull'onda di un solo pensiero: Essere.

Il miracolo paradossale... L'unica forma di vita sulla terra che comprenda il dramma del suo limite, è da questo spinta a
vivere, a estrarre da ogni secondo la vita, a VIVERE. Senza ombra di stanchezza sul volto. Senza alcun decadere del
sentore di un significato dietro ogni forma dell'esperienza. L'acrobata, appeso ad una fune tesa sull'eterno, respira.
Purché i pochi, disordinati segni abbandonati sulla carta dell'esistenza diventino le distratte sfumature di un disegno
più ampio. Purché ci rendano più di un agglomerato di atomi che meccanicamente esiste. Purché ci renda vivi.

   
 
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