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Autore: Aine Walsh    11/10/2011    5 recensioni
Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio.
Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento, almeno per me, l’asociale a vita.
* * *
Prometto che mi farò venire in mente una Presentazione migliore!
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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4° Capitolo
Bliss

Camminavo ormai da un buon quarto d’ora su e giù per la via, con il cellulare in mano mentre cercavo di trovare la strada giusta.
Via della Quiete 48, leggevo sul dispositivo. Peccato che non avessi idea di dove fosse; motivo per cui decisi di fermarmi e dare un’occhiata intorno.
Ero nella zona ‘chic’ della città, quella piena di negozi esclusivi e con le vetrine più ammaliatrici che conoscessi, quel genere di negozi che permettono solo di osservare e, se si è talmente masochisti, di provare a immaginarsi con indosso quei mirabili, cari e striminziti capi d’abbigliamento… A meno che non si abbia lo stesso conto in banca di Paris Hilton e il fisico di Kate Moss, certo.
Una sbirciatina non mi avrebbe di certo procurato la morte, giusto? Una cosina veloce, solo perché mi trovavo lì.
Tuttavia, una volta riuscita a eliminare dalla mente lo shopping, passeggiare lungo il viale alberato mi piaceva. L’avevo sempre paragonato ad uno di quei boulevards hollywoodiani dei film, con tutte le sue luci, i suoi colori e tutta quella gente che, sin da piccola, mi affascinavano. In tempi passati la mamma era costretta a strattonarmi per un braccio spingendomi a camminare, imbambolata com’ero da tutta quell’atmosfera, specie nel periodo natalizio.
Anche quel pomeriggio, la strada era affollata da cloni di Rebecca Bloomwood, o aspiranti cloni della protagonista di I Love Shopping, che entravano e uscivano da una bottega per entrare subito in quella accanto, senza sosta.
Una di queste, una donna sulla trentina dai lunghi capelli mori, mi passò accanto e mi affrettai a chiederle indicazioni. Dopo avermi ascoltata, mi rivolse un’espressione cordiale e, afferrandomi per una spalla, mi fece fare una mezza piroetta su me stessa mentre con l’altra mano mi indicava una via seminascosta.
«E’ quella lì» spiegò con semplicità.
Annuii, la ringraziai e mi avviai a passo svelto verso la direzione indicatami.
Premetti il piccolo bottoncino argentato accanto ai nomi Ardenne-Sutcliffe e quasi subito una voce disse meccanicamente: «Terzo piano». Spinsi il pesante portone, entrai e salii le scale di marmo bianco. Ovviamente, data la zona, anche il palazzo era raffinato e questo lo si poteva subito notare dalla grande portineria - momentaneamente vuota -, dal tappeto rosso carminio che conduceva fino alle scale e dalle varie placche dorate affisse alle mura che vidi salendo, ognuna con incisa il nome di un dottore o di un notaio. Accanto alla porta di casa Ardenne non era scritto nulla.
Sebbene non avessi davanti a me uno specchio, mi sistemai con le mani i capelli che mi arrivavano fino sotto le scapole in modo da farli apparire ordinati.
Suonai il campanello ed attesi, sperando vivamente che fosse Matteo ad aprirmi la porta.
E invece, pochi attimi dopo, mi ritrovai di fronte un ragazzone alto, biondo e rigorosamente a torso nudo che mi guardava perplesso con i suoi occhi color dell’ambra, aspettando probabilmente che dicessi qualcosa.
«Ehm... Casa Ardenne?» domandai, visibilmente spiazzata.
«A meno che non ci sia un’altra famiglia Ardenne nei paraggi e che tu non stessi cercando quella, direi di sì: siamo noi. - rispose con la sua voce profonda e appena roca - E tu sei?».
In quel momento le parole di Matteo ci giunsero da dentro casa. «Lascia Sam, è per me. Non vorrei che la sconvolgessi troppo» diceva, spostando il fratello per farsi spazio e sistemarsi davanti a me.
«Ciao Ria» aggiunse poi, invitandomi ad entrare con un sorriso.
Gli sorrisi a mia volta in segno di saluto mentre entravo nel grande salotto. Mi saltò subito agli occhi l’ampia libreria di legno chiaro dentro cui stavano riposti tanti e tanti libri di tutte le dimensioni e dalle copertine di diversi colori. Al centro della stanza stava un tavolo rotondo circondato da sei sedie, tutte dello stesso colore della libreria. Alle pareti erano appese delle foto che si alternavano a dei quadri, tra cui riconobbi anche la Notte Stellata di Van Gogh. Complessivamente, era un bell’ambiente, ben arredato. I colori, tutti chiari, spaziavano tra il beige e il panna dei due divani e dei cuscini sopra di essi al color sabbia dorata che si intravedeva dallo spazio fra le cornici.
«Comunque, - riprese Jude - Federico Anna, Anna Federico, e direi che è tutto».
Federico mi rivolse un sorriso sornione, diverso da quelli a cui suo fratello mi stava abituando.
«Federico Samuel Ardenne al tuo servizio» dichiarò, tendendomi la mano che mi premurai a stringere.
«Adriana Liontecchi, felice di averti dalla mia parte».
«Non ci siamo già conosciuti io e te?» domandò mentre indicava prima il suo e poi il mio petto.
«Ma per favore!», sentii Matteo sussurrare più infastidito che divertito accanto a me.
«Credo di no, visto e considerato che pochi minuti fa mi ha chiesto chi fossi».
Sorrise nuovamente, allegro stavolta. A quanto pareva, il sorriso era una caratteristica di famiglia.
«Ok, adesso lasciamo il ventitreenne parassita ai suoi importantissimi affari - era ironico - e andiamo a strimpellare qualche nota sulla chitarra, che ne dici?» chiese il ragazzo dagli occhi verdi, apparendomi ancora indispettito.
«Sarebbe meglio» appoggiai.
Ci lasciammo Federico alle spalle e lo seguii fino alla porta di camera sua, dove si fermò.
«Dopo essere entrata, potresti benissimo renderti conto di quanto sia alto il mio livello di pazzia», disse con un finto dispiacere.
«Fidati, non potrai mai essere più matto di me» ammiccai. Il che era anche vero.
Se il salotto era in perfetto ordine con i suoi bei colori chiari, camera sua era un’esplosione di blu oltremare mista ad oggetti sparsi qua e là e a poster e fotografie appese dappertutto, al cui centro regnava sovrano il letto da una piazza e mezza con le lenzuola verde prato.
Si passò una mano fra i capelli, visibilmente imbarazzato mentre si scusava. «Sono un disordinato cronico. E’ proprio nel mio Dna».
«Non hai ancora visto camera mia».
Lo vidi sbuffare più sollevato, dopodiché si mosse a formare un cerchio su stesso, con il braccio sollevato.
«Benvenuta nel mio regno» esordì, una risata allegra nella sua voce.
Quant’era carino da uno a cento? Mille, e anche di più. Mille volte più bello di mille.
«La ringrazio, Sir, ne sono molto onorata», feci un piccolo inchino.
«Siediti, su, abbiamo una lezione da cominciare».
Obbedii, o meglio, l’avrei fatto se avessi trovato una sedia libera, visto che all’altra era poggiata una pila di magliette stirate e pulite.
«Sul letto» aggiunse, anticipandomi mentre davo voce alla mia domanda muta.
Si sedette accanto a me, voltato di tre quarti nella mia direzione, la chitarra che gli poggiava sul petto.
«Osserva i movimenti delle mia dita» disse.
Accennai un sì col capo e spostai lo sguardo dai suoi occhi alle sue mani mentre lui iniziava a suonare le prime note. Le sue dita scorrevano veloci, abili, come fossero perfettamente consce di ciò che dovessero fare. Non mi sembrò di riconoscere la canzone che stava intonando, e infatti non la conoscevo, ma il ritmo era allegro e molto carino, tanto che presi involontariamente a battere il piede a tempo sul parquet.
Tuttavia non riuscii ad evitare di osservarlo in viso, perciò ogni tanto, per alcuni veloci istanti, lo guardavo furtivamente nella sua espressione concentrata, sentendomi le guance in fiamme.
«E allora? Pensi di potercela fare?» chiese una volta che ebbe finito.
Scossi la testa. «Forse in un lontano futuro, oggi no di certo. Ma tu sei molto bravo, sul serio».
Si girò completamente verso di me rispondendo: «Può darsi, ma c’è tanta altra gente più brava, te lo posso assicurare. Comunque sia, grazie, sei gentile… Il che potrei benissimo aspettarmi da una ragazza che ascolta musica melodica e sentimentale, non da una che ascolta musica alternativa...». Lasciò cadere lì il discorso mentre si picchiettava il mento con l’indice, fingendo palesemente di essere assorto nei suoi pensieri.
Per quel poco che conoscevo sul suo conto, capii che aveva voglia di scherzare.
«Punto primo, io non ascolto solo rock alternativo. Punto secondo, non puoi giudicarmi in base alla musica che mi piace». Più che una protesta, le mie parole suonarono come quei Nota Bene che si trovano in fondo ai menù di un ristorante o di una pizzeria che quasi nessuno legge mai.
Adagiò piano la chitarra sul parquet, legno su legno, e stette a fissare un poster affisso alla parete dietro di me, a mo’ di capezzale sopra il letto. Non mi sorprese molto accorgermi che i soggetti della foto fossero i Beatles.
«Io, invece, dico che posso e sono pronto a dimostrartelo, anche subito, adesso, proprio ora» replicò.
La mia curiosità si accese tutta in una volta. «E come?».
«In modo facile facile. Hai con te il tuo iPod per caso?».
«Mp3, - risposi - va bene lo stesso?».
Si sfregò le mani. «Benissimo. Potresti darmelo per qualche minuto?».
Com’era ovvio che fosse, estrassi l’aggeggio dalla borsa e glielo porsi, notando un luccichio contento ed eccitato, quasi da bambino, nei suoi occhi da cerbiatto incuriosito.
«Se avessi avuto un iPod, avrei potuto collegarlo alla cassa. Spero non ti dispiaccia troppo il fatto che debba inficcarmi un auricolare nell’orecchio».
«Ma no, nient’affatto» risposi non senza un minimo di sorpresa.
Non l’avevo ancora sentito dire una sola parolaccia e spesso mi chiedeva il permesso prima poter agire o di potermi porre un domanda. Sembrava proprio diverso da tutto il resto dei ragazzi che conoscevo. Diverso in senso buono, però.
Sorrise a labbra chiuse e mi passò un auricolare, intanto che infilava l’altro nel suo orecchio.
«Qualcuno, non ricordo chi, ha detto che sapere che musica ascolta un essere umano è come fargli l’esame del Dna, - spiegò - ed io voglio provare a fare il tuo, Ria».
«Wow che frase, perfettamente veritiera» commentai. Pensai subito che avrei dovuto appuntarla da qualche parte, sul diario di scuola, magari.
Tuttavia un dubbio mi assalì. Se avessimo fatto questo ‘esperimento’ o chissà come lui lo intendeva, avremmo avuto tempo per suonare?
La risposta fu semplice.
«Dobbiamo prima capire che generi ti piacciono, così potrai anche suonare pezzi tuoi, non credi?».
«Ha un senso» accordai dopo essermi morsa il labbro inferiore per qualche istante, riflettendo.
Matteo accese l’mp3 e fece partire la prima canzone: Smells Like Teen Spirits, Nirvana.
«Ma guarda un po’» mormorò.
«Sorpreso?», avrei giurato di sì.
«No, immaginavo che avrei dovuto aspettarmelo» rispose con voce da maestrino.
Soffocai a stento una risata: era divertente quando si comportava in quel modo.
Solo allora mi accorsi di quanto fossimo vicini, anche più del dovuto, come lo eravamo stati la sera in cui ci eravamo incontrati. Le nostre ginocchia riuscivano già a toccarsi le une con le altre e le nostre fronti si sfioravano appena. Eravamo chinati in avanti e riuscivo a percepire il suo respiro infrangersi contro il mio petto, all’altezza del cuore, così come l’odore del suo profumo che, dalle narici, arrivava diretto al mio cervello, inebriandolo. Sapeva di buono, sapeva di lui, in un certo senso.
Un improvviso e feroce calore mi avvolse.
E andava bene cercare di essere estroversa, ma a tutto c’era un limite!
Ascoltammo la canzone per intero, fino alla fine, per poi passare ad un’altra.
«Michael Buble?!» esclamò a gran voce.
«Adesso sei sorpreso» risi.
«Come hai fatto a notarlo?» rise anche lui.
«Intuito femminile. Comunque, che male c’è? E’ bravo, mi piace e penso che Sway sia proprio carina».
«Sì, effettivamente è un bravo cantante, - concordò - anche se penso che la versione originale di Can't Buy Me Love sia migliore della sua».
«Can't Buy Me Love?».
«Te le farò ascoltare, tranquilla».
Restammo in quel modo per almeno una buon’ora, commentando questa e quell’altra canzone, questo e quel cantante, scherzando e facendo battute anche, mentre ogni tanto rispondevo alle domande che mi poneva sui Muse, delle cui canzoni il mio mp3 era carico.
«E qual è il loro pezzo che preferisci?».
Mi presi un attimo per pensarci prima di rispondere: «Ce ne sono tante, dipende dal periodo. Per esempio, quando ho bisogno di svegliarmi un po’ metto suHysteria, se sono giù di morale attacco Butterflies And Hurricanes, o se ho voglia di cantare faccio partire Starlight... A volte sento la necessità di isolarmi dal resto del mondo, e allora lascio partire Origin Of Symmetry o The Resistance fino a che non finisca l’album».
«Adesso la tua preferita qual’è?».
«Unintended. - risposi decisa – E’ una sorta di ballata romantica molto ‘soft’, molto carina secondo me. E tu invece?».
«Ed io invece cosa?».
«Parlo sempre e solo io e capisco che sia veramente noiosa come cosa, perciò, di’ qualcosa tu», sorrisi per far sembrare la proposta più convincente.
Si passò una mano dietro il collo bianco e cominciò.
«Che sono un fan dei Beatles lo sai già e, anche se non l’avessi saputo, l’avresti certamente capito entrando qua dentro. Mi piacciono perché sono stati l’inizio di tutto, non so se capisci. Cioè, prendiamo Lady Gaga: lei si è ispirata a qualcuno che si è ispirato a qualcun’altro che a sua volta, se abbastanza vecchio, ha preso spunto dai Beatles... O dai Rolling Stones, certo. Ma soprattutto, mi piacciono perché sono loro, punto. I testi e gli arrangiamenti delle loro canzoni sono semplicemente stupendi e anche la canzone apparentemente più insensata ha invece un bel significato se riesci a leggere tra le righe. - si fermò - Credimi, potrei parlarne per ore intere e, alla fine, quello noioso sarei io».
«Figurati, è interessante. Hai proprio ragione, hanno contribuito tantissimo al panorama musicale di oggi; una volta ho sentito dire che sono così radicati in noi che spesso ormai nemmeno ci accorgiamo più della loro presenza».
Gli vidi piegare gli angoli della bocca in un sorriso e mi sentii felice di ciò.
Non avevamo fatto altro che parlare di Musica, ma non mi importava. Avevamo la stessa passione che ci scorreva nelle vene ed era bello poterla condividere con qualcuno, specie se quel qualcuno fosse lui, che non solo era un piacere per gli occhi  - citazione: mamma - ma era anche sveglio e intelligente, di gran lunga in più rispetto a me. 
Nonostante tutto, io non ne sapevo quasi niente degli anni Sessanta e restai la maggior parte del tempo in silenzio a sentirlo discutere.
D’un tratto, senza nemmeno farci caso, guardai l’ora nell’orologio che portavo al polso. Ritornai a fissare il quadrante subito dopo aver alzato lo sguardo, come presa d’assalto.
«Che ore sono?» esclamai interrompendolo.
«Eh... Le... Le sette meno un quarto, sì» rispose spiazzato.
«Dei dell’Olimpo, è tardissimo! - continuai il mio sclerato delirio - Sarei dovuta restare qui solo per un’ora, non per quasi due ore e mezza! Mamma mi ucciderà, sì che lo farà, questa è la volta buona!».
Un velo nero mi aveva offuscato gli occhi e la mente, era come se fossi improvvisamente sola, fuori dal tempo e dallo spazio. Mamma non sapeva che fossi a casa di Matteo, le avevo detto che sarei andata a fare un giro veloce in centro nel tentativo di trovare un regalo ad Irene per il suo ormai vicino compleanno.
Ora, a me non è mai affatto piaciuto dire le bugie, ma a volte mi trovavo proprio costretta a farlo. Del resto, erano bugie innocenti, a fin di bene, bugie bianche come vengono chiamate.
Se avessi detto la verità, mamma mi avrebbe categoricamente vietato di uscire, sostenendo - non del tutto a torto - che non mi sarei mai e poi mai dovuta fidare di un ragazzo che conoscevo appena e che non sarei mai e poi mai dovuta andare a casa sua.
Ma Matteo era diverso e lei non lo sapeva.
Non volevo che si preoccupasse, tutto qui.
«Ria… Ria… Ria, calmati su… Non è niente, sono sicuro che… Adriana, ascoltami!» esclamò.
Mi zittii all’istante, riuscivo a percepire il sangue che mi si ghiacciava nelle vene mentre le guance mi prendevano in fiamme, come, non lo seppi neppure io.
Quante brutte figure avevo fatto? Avevo perso anche il conto.
Mi sentii un po’ più rilassata vedendolo ridere come un matto, ma giusto un pochino. L’ennesima prova della mia pazzia e della mia scarsa intelligenza aveva fatto mostra di sé, scegliendo il momento meno opportuno, come sempre.
A poco a poco, la sua risata si trasformò in un sorriso bonario per poi aprirsi e dire: «Posso riaccompagnarti io, se vuoi. Fuori si sta facendo buio e con gli autobus impiegheresti solo più tempo».
Accettare o non accettare, questo è il dilemma, diceva sempre Ire quando c’era una decisione da prendere.
Lo guardai tra il circospetto e lo stupito. «Davvero lo faresti?».
«Diciamo che non vorrei averti sulla coscienza, ecco», scrollò le spalle.
Meno di dieci minuti dopo ero già a bordo della sua auto, una normalissima Mini Cooper bianca con le due strisce nere, ad osservare la città che mi sfilava davanti quando mi ricordai di una cosa.
«Te ne sei dimenticato» dissi.
«Di che?».
«Di stilare il mio profilo musicale. Hai detto tu che sapere che musica ascolta un essere umano è come fargli l’esame del Dna, ed hai detto pure che dobbiamo capire quale sia il mio genere, giusto?».
«Dove vuoi arrivare?» chiese in tono allegro.
«Al risultato delle analisi, Dottore» risposi con altrettanta allegria.
«Non garantisco l’assoluta certezza, ma sono sicuro di poter puntare ad un buon sessanta percento di questa».
«Sono tutta orecchi», mimai portandomi una mano all’orecchio sinistro.
«Sei una rocker, questo l’avevo già capito. Ti piacciono i suoni duri, forti, quelli su cui ci si può scatenare cantando e questo significa che hai un bel caratterino. Però le ballate romantiche ti conquistano ed ogni tanto senti il bisogno di qualcosa di più calmo. Sei pacifica e riflessiva, ma credo di aver capito che non convenga a nessuno farti arrabbiare sul serio… O sbaglio?».
Risi appena pensando che il suo ‘risultato’ fosse di molto più veritiero di quelli che leggevo ogni tanto nelle riviste per ragazze dopo aver completato un test.
«No, hai ragione. In linea di massima, ci sei».
Lanciai uno sguardo fuori dal finestrino e riconobbi il supermercato vicino di casa.
«Dimmi cosa non so, allora».
«Tante cose ancora, ma la più importante al momento è che devi girare a sinistra e devi fermarti alla seconda palazzina: sono arrivata».
Girò a sinistra, si fermò davanti alla seconda palazzina e, una volta spento il motore, mi guardò.
«Quand’è che mi dirai tutto?» domandò serio.
Possibile che avesse una così straordinaria capacità di farmi andare sempre a fuoco? Godeva proprio nel vedermi soffrire, il ragazzo.
«Non c’è fretta» replicai.
«Facciamo sabato prossimo?».
Dovevo ammetterlo, Matteo sapeva veramente bene come chiedere un appuntamento. Peccato solo che quel sabato sarebbe stato il compleanno di Irene.
«Ho già un impegno… Ma possiamo fare qualcosa domenica, se per te è lo stesso».
Sì, l’avevo detto.
«Non cambia nulla, va bene. Ti manderò un sms o una mail», e capii che voleva chiudere così il discorso.
Silenzio, imbarazzo e panico. Mi immobilizzai sul posto cercando qualcosa da dire, un modo carino per salutarlo senza sembrare troppo indifferente o troppo interessata.
«Ci si sente». Sorrisi, feci ‘ciao-ciao’ con la mano e sgusciai fuori dall’auto verso il portone, senza più voltarmi a guardare in direzione di lui e della sua auto, ancora troppo vergognata ed esaltata al tempo stesso.
Quello che sarebbe accaduto in casa con la mamma era un’altra storia.

 
Live and Let Die... u.u
(in onore al Macca e al suo terzo matrimonio! :D)

Bonsoir a toute le monde! :D
State bene? Me lo auguro.
Niente di particolare su questo capitolo, spero solo vi sia piaciuto.
Devo darvi un'altra notizia, eeeh già.
Mercoledì prossimo inizio il trasloco *ecchisenefrega?* e quindi dovrò fare a meno del computer e di Internet per un po', fino a quando non mi riatteccheranno la nuova linea... Cosa che non so quando avverrà...
Dove voglio andare a parare?
Non sopporterete per qualche settimana e i miei scleri, contente?

Bien, credo sia tutto...
Spero di risentirvi presto <3
Grazie a tutte,

Alan

  
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