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Autore: y3llowsoul    12/10/2011    2 recensioni
Le quattro mura grigie, il vuoto della stanza, l'umidità, il freddo – tutto gli faceva, in modo inquietante, pensare a un carcere. Il fatto che non sapesse che cosa intendevano di fare di lui non migliorava il suo stato e non sapeva neanche che cosa dovesse pensare del fatto che per quanto sembrasse non lo sapevano neanche loro. Sembrava che l'avessero semplicemente spostato lì finché il problema non si fosse risolto da solo. Per esempio tramite Charlie se si fosse deciso a lavorare di nuovo per loro. Oppure se avessero concluso i loro affari. Oppure se Charlie si fosse suicidato.
Charlie collabora a una missione segreta. Don cerca di venire a sapere qualcosa della faccenda, ma quando finalmente ci riesce, non è una ragione per rallegrarsene, e per la famiglia Eppes cominciano periodi brutti.
Genere: Malinconico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Don Eppes, Un po' tutti
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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nonti13 Di nuovo mille grazie per il vostro interesse per la storia! Spero che non lo perderete nel seguito!
Ecco il prossimo capitolo e per BlackCobra di nuovo una bella canzone (almeno lo penso io) con un bellissimo testo :)



12. Magic of Home

It takes a night to make it dawn.
And it takes a day to make you yawn, brother.
And it takes some old to make you young.
It takes some cold to know the sun.
It takes the one to have the other.

(Jason Mraz, Life Is Wonderful)

Charlie si sentiva come un prigioniero. I suoi pensieri continuavano a circolare attorno al suo futuro incerto, sempre con la stessa domanda “Come sarà?”  e non lo lasciavano andare. Tentava di sfuggire, di calmarsi, ma era nervoso e quasi non riusciva a sopportare il tempo d'attesa.
L'aereo aumentava questo sentimento di prigionia e Charlie desiderava ardentemente che andasse più veloce, portandolo alla risposta, ma la sua volontà naturalmente non poteva influenzare le leggi della meccanica. L'aereo era veloce, con o senza la sua volontà – e quanto più vicino lo portava a casa e verso le risposte che lì lo aspettavano, tanto meno sapeva se poi era ciò che davvero voleva.
Tentò di rilassarsi. Gli riuscì difficile, perché anzi quel sentimento di prigionia, fisico o mentale che fosse, scosse qualcosa nella sua memoria e fece crescere il panico dentro di lui. La sensazione di non poter uscire... la sensazione dell'impotenza... la sensazione di dover soffocare...
«Tutto bene, Charlie?»
Charlie trasalì e scoprì, con occhi sbarrati, prima la mano sul suo avambraccio e poi il viso di Don. Due occhi turbati e due preoccupati si scambiarono sguardi angosciosi. Charlie annuì, e pian piano realizzò che si era appena perso in un attacco di panico da cui solo Don l'aveva salvato.
«Certo» disse e sentì da lontano come le parole suonavano affrettate e rauche mentre il battito del suo cuore pian piano diventava di nuovo normale. «Certo, sto bene».
Don respirò profondamente, però non distolse gli occhi dal suo fratellino. Non poteva smettere di guardarlo, anche solo per essere sicuro che fosse sempre lì, accanto a lui. Era incredibile, semplicemente incredibile... Avevano riavuto indietro Charlie. Ora dovevano solo avere cura che tornasse di nuovo quello che  era stato una volta.
«Ehi, Charlie». Era assurdo. La sua voce suonava sempre rauca appena parlava con Charlie. «Ehi, vuoi forse... vuoi forse parlare con qualcuno?»
Charlie scosse il capo. Don tentò di essere comprensivo – tempo, pensò, ha semplicemente bisogno di tempo – e stava già per ritirarsi e per appoggiarsi indietro sulla sua sedia, lasciandolo in pace, quando Charlie rispose: «Non lo so».
Questo era già meglio di un "no". «Sono, ah... Sono sempre a tua disposizione».
Charlie annuì. Tacquero.
Don si schiarì la gola. «Charlie, volevo... volevo dirti che... che sono davvero felice che tu sia di nuovo con noi».
Charlie annuì ancora una volta. «Anch'io sono contento di essere con voi».
Ah certo, pensò Don fra sé, Charlie sembrava proprio pronto per una festa. «Non lo sembri».
Charlie tacque.
«Charlie... vorrei capire che cosa ti sta succedendo. Voglio aiutarti».
Di nuovo Charlie tacque. Don non seppe più che cosa dire, ma finalmente Charlie prese la parola. «Non lo capisco neanch’io che cosa mi sta succedendo».
Per qualche secondo Don tentò di capire almeno le parole di suo fratello anche se non poteva capire lui, però non ci riuscì. «Che vuoi dire?»
«Non so più chi sono, Don. Non so neanche chi sei tu. Non conosco niente e nessuno, nemmeno me stesso».
Don deglutì. «Andrà meglio, Charlie. Appena saremo a casa comincerai a ricordare, ne sono sicuro».
Charlie annuì, però tutti e due sapevano di temere che la loro speranza potesse risultare falsa.


- - -

Quando scesero dall'aereo, l'unica cosa che Charlie voleva era tornare a casa. Poi si accorse che non c'era più un posto che fosse “casa” per lui. Poi realizzò che non gli importava. Era talmente esausto per tutti gli eventi del giorno che non desiderava altro che calma e riposo. La partenza dalla clinica era stata difficile a lui, benché avesse scambiato il suo indirizzo solo con tre altri pazienti. Anche nell'aereo non aveva trovato la calma ed era stato troppo nervoso. Era semplicemente così tanto, così tanto di nuovo, così tante persone, così tanto tempo in compagnia di altri...
Nel taxi, si era quasi addormentato e quando questo si fermò, non poteva immaginare più bella cosa che rimanere seduto lì e andare avanti senza fine per tutta la notte. Con sforzo scese dalla macchina e fu contento che Alan e Don avessero le loro valigie e che lui non dovesse portare bagaglio.
Evitò di guardare la casa e anche, una volta entrati, l'arredamento. Alan lo guidò, come disse, nella sua vecchia stanza. Charlie provava a non vedere niente. In quel momento era troppo esausto per sopportare il rendersi conto di vedere la casa e non ricordare proprio nulla.
Cadde in un letto meravigliosamente morbido. Scivolò in un sonno riposante e per un attimo desiderò non svegliarsi mai.
 


- - -

Quasi senza fare rumore, Don aprì la porta. La luce che veniva dal corridoio disegnò un quadrilatero irregolare sul pavimento. Don lasciò la porta abbastanza aperta per distinguere la sagoma del fratello addormentato. Lentamente si avvicinò di soppiatto per guardare la figura tranquilla.
Sorrise. Era talmente bello vedere di nuovo Charlie, sapere che era vicino, sentirlo respirare. Charlie era di nuovo con loro. Era tornato dal regno dei morti e Don sarebbe stato sempre grato per questo.
Aveva proprio voglia di abbracciare il suo fratellino, però non voleva svegliarlo. Invece gli mise una mano sulla spalla magra e la strinse leggermente. Si sarebbe aspettato che Charlie avesse continuato tranquillamente a dormire, che tutt'al più avesse stretto di più la sua coperta. Non sia aspettava che il suo contatto gli provocasse un simile effetto.
Charlie si svegliò di soprassalto e subito si mise a sedere sul suo letto. La mano di Don era sparita dalla sua spalla, eppure Charlie menò colpi all'impazzata.
«Chi c'è?» ansimò e a Don rivoltò lo stomaco. Charlie aveva messo in quelle due brevi sillabe talmente tanta paura, talmente tanto panico, che quel timbro sgradevole si era rispecchiato negli occhi di Don.
«Charlie, calmati, ti prego...»
Don non avrebbe potuto fare una preghiera tanto più lontano dalla realtà. Charlie non pensava minimamente a mettere fine al suo attacco di panico. Era difficile sapere se in quel momento stesse pensando a qualcosa.
«Per favore, Charlie –»
Don aveva alzato la voce un po' e tentò di rimettere la sua mano sulla spalla di Charlie. La conseguenza fu che Charlie, invece di calmarsi, diventò sempre di più agitato.
Gradualmente Don si impaurì davvero, non solo perché Charlie si comportava da maniaco. Se suo fratello non si fosse calmato, era solo una questione di tempo prima di potersi far male.
«Charlie!»
Il tono di Don era diventato tanto più severo e anche più alto e per aumentare l'effetto osò il rischio: prese Charlie nelle sue braccia. Tenne il busto e le spalle magre del suo fratellino stretti contro il proprio petto. Sentì come Charlie fece resistenza, sentì che voleva fuggire da lui, però non glielo permise. Non avrebbe perso Charlie un'altra volta.
«Lasciami andare!» Charlie non smise di lottare, spingeva tentando di liberare le sue mani per dare colpi a qualsiasi cosa, ma Don lo tenne fermo.
«Tranquillo, Charlie. Stai tranquillo. Sono io, Don».
Con un secondo di ritardo la lotta di Charlie divenne ad un tratto più debole.
«Stai tranquillo» sussurrò Don ancora una volta nell'orecchio di Charlie. «Sono qui».
Adesso, la lotta si era completamente fermata. Charlie era seduto sul suo letto senza movimento. Però questo non voleva dire che Don avrebbe allentato il suo abbraccio.
«Don?»
La voce di Charlie arrivò a lui attraverso l'oscurità, sottovoce, sottile. Dolce, fragile.
«Sì, sono qui, fratellino».
Don sentì che suo fratello si rilassò un po' tra le sue braccia. Le spalle si afflosciarono un po', divennero più rilassate. L'atmosfera ostile si disperse nell'oscurità. Anche Don mollò un po' la sua presa sulle spalle di Charlie, però non lo lasciò andare. Era troppo bello il momento.
La tensione di Charlie lo lasciava sempre di più e una stanchezza di piombo precipitò su di lui. Appoggiò la sua testa contro la spalla di Don e si sentì al sicuro e bene come non si era sentito da tanto tempo. Sentiva il respiro calmo e costante di Don sulla sua nuca e nei suoi ricci e fermò gli occhi.
«Ora è tutto a posto?» mormorò Don nei capelli di Charlie.
Charlie annuì leggermente, sempre tenendo gli occhi chiusi. «Mi hai solo spaventato» farfugliò.
Un'onda di senso di colpa riempì Don. Charlie si sarebbe dovuto riposare, avrebbe continuato a dormire tranquillamente se Don non si fosse lasciato andare ai suoi bisogni egoistici. «Mi dispiace» bisbigliò. «Non lo volevo».
«Fa niente».
Don deglutì, chiuse gli occhi, strinse il dorso di Charlie ancora una volta per sentire come i polmoni lavoravano e il cuore batteva, e poi lo lasciò lentamente andare. Non credeva di farcela a controllare i propri sentimenti rimanendo lì, e allora pensò di andare, mentre, allo stesso tempo, non sapeva se avrebbe potuto sopportare di lasciare Charlie.
«Tu stai bene?» si assicurò e la sua voce soffocata gli disse cosa doveva fare.
Sentì che Charlie annuì, e si alzò su ginocchia insolitamente molle. «Vabbeh', dunque... dormi bene».
Alle sue orecchie, però, le parole suonarono maldestre e ne cercò febbrilmente delle altre, più utili, che trovò con sollievo. «Se hai bisogno di qualsiasi cosa – Papà e io ci siamo».
La sua voce non aveva perso la sua raucedine e dopo un ultimo sguardo a Charlie uscì frettolosamente dalla stanza. Chiuse la porta silenziosamente, vi si appoggiò contro, con occhi chiusi, e respirò profondamente.
«Tutto bene?»
Don sobbalzò. Il suo cuore non tornò a battere normale fino a che non vide suo padre sul pianerottolo.
Annuì. La sua voce era – ancora o di nuovo – un po' tremolante quando rispose: «Si è solo spaventato quando sono entrato. Ma penso che adesso sia tutto okay».
Sapevano tutti e due che "okay" era insufficiente. Charlie era stato morto, era resuscitato e adesso lottava per avere indietro una vita di cui non si ricordava. Niente era "okay".
 


- - -

Almeno sembrava esser "okay" quando la mattina dopo erano finalmente di nuovo tutti e tre seduti al tavolo per la prima colazione. Poco dopo Don, anche Alan era entrato in camera di Charlie. Suo figlio era ancora sveglio, ovviamente troppo agitato per riposarsi durante la notte. Alan gli aveva portato un bicchiere d'acqua e poi l'aveva lasciato con riluttanza. Però aveva dovuto essere forte  e lasciare che Charlie venisse a capo con se stesso. Tutto ciò che poteva fare era procurargli la calma necessaria. Comunque era contento che prima della loro partenza per il Nebraska avesse deciso, malgrado tutto, di preparare il letto di Charlie. Per ogni evenienza…
Don e Alan avevano deciso di lasciar dormire Charlie, cosa che non voleva dire che non avrebbero passato tutto il tempo a convincersi che era davvero lì, che era nel suo letto e respirava in modo regolare. Veramente meraviglioso cosa potessero provocare i sedativi.
Finora non avevano parlato della notte passata, e nemmeno intendevano farlo. Charlie sembrava tentare di reprimere il suo incubo e l'attacco di panico seguente, oppure l'aveva davvero dimenticato. Comunque il suo nervosismo poteva significare entrambe le cose.
In ogni caso ora sembrava come sempre. Era seduto lì al tavolo da pranzo con loro e mangiava la prima colazione come se niente non fosse mai successo.
Ma no. No, non era vero. Non era proprio come sempre. Charlie era cambiato. Don guardò il suo fratellino attentamente. I suoi capelli erano un po' più lunghi di come li ricordava, e il suo colorito sembrava un po' più pallido, ma forse la luce gli giocava un brutto scherzo, perché per il resto, Charlie sembrava in forma. Sveglio. Allarmato. Teso.
Era questo, teso. Lo sguardo di Don scivolò sulle spalle di Charlie. Rigide. Sospirò mentre il suo sguardo tornò agli occhi. Qualcosa non andava. Il colore era una cosa, ma quegli occhi...
«Che c'è?»
Troppo tardi Don realizzò che gli occhi lo stavano guardato.
«S-scusa, Charlie. Non volevo... fissarti ».
Grandioso, non era nemmeno capace di formare una frase completa. Suo fratello l'aveva di nuovo completamente distratto.
Ma diamine, era scomparso! No, non solo scomparso, morto! Charlie era morto!
Chi avrebbe potuto biasimarlo perché continuava a fissare il suo fratellino?
Era semplice... così incredibilmente travolgente. Charlie era lì, Don lo vedeva, era lì con loro, seduto al tavolo come se niente fosse accaduto!
«Che cosa vorresti fare oggi, Charlie?» chiese Alan e in tal modo permise a Don di dedicarsi un altro po' al suo fascino.
Charlie non rispose subito. Non poteva proprio dire "ricordare", vero?
«Non lo so» cominciò cautamente, «credo che vorrei... guardarmi attorno un po'. Se va bene per voi».
Alan volle gridare. Suo figlio si comportava come un estraneo. «Charlie, questa è casa tua. Puoi fare tutto quello che ti piace qui».
«Okay. Ah... grazie».
Si alzarono e Charlie stava per aiutare a riempire la lavapiatti quando Alan provò a dissuaderlo. «Lascia stare, Charlie, lo faccio io».
Ma Charlie gli lanciò solamente uno sguardo, e con una traccia di sollievo Alan notò che quello aveva qualcosa simile alla burla, che penetrava attraverso la tristezza, ricordandogli di prima che crollasse ogni cosa. «Pensavo che questa fosse casa mia, allora non dovrei esser trattato come un ospite, giusto?»
Alan sorrise. «Va bene, te ne ricorderò a tempo opportuno. Ma lo stesso riempirò io la lavapiatti da solo, non ho altra cosa da fare».
Charlie si diede per vinto e cominciò a vagare un po' insicuro per le stanze. Quella casa... Non l'aveva detto durante la colazione, ma era stato sui carboni ardenti. Ovunque guardasse...
Alan mandò un sospiro di sollievo. Era difficile. Poteva a malapena guardare Charlie senza pensare al dolore degli ultimi sei mesi, e allo stesso tempo era quasi impossibile per lui voltare il suo sguardo via da suo figlio. Come sembrava, tutti loro avevano bisogno di un po' di tempo e spazio.
Forse sarebbe stato più facile non appena avessero finalmente informato gli altri. Avevano deciso di non farlo in Nebraska. Ci sarebbero state troppe domande incredule a cui rispondere era sembrato troppo complicato e avrebbe richiesto troppa energia. E inoltre non volevano rinunciare a vedere i loro sguardi increduli ma felici appena sentita la notizia.
«E' qui dove si scende per la cantina?»
Alan si voltò, ma fu Don a rispondere. «Sì. Vuoi scendere?»
«Non adesso, ma...» Charlie esitò, deglutì e poi si voltò verso i due uomini. «Riconosco la casa».
Alan e Don si guardarono negli occhi, capirono e avrebbero voluto fare salti di gioia.
«Sul serio?» chiese Don, e un sogghigno abbastanza stupido apparve sul suo viso.
Charlie annuì mentre il suo sguardo continuava ad assorbire la casa. «È una delle cose che ho visto quando ero nella clinica... Manca un vaso lì?»
Indicò un comò accanto alla porta. Alan tentò di trattenere le lacrime. Charlie ricordava!
«Sì, hai ragione» rispose con voce appena tremolante. «Si è rotto da due o tre mesi».
Charlie annuì di nuovo e sembrava dirigere le sue prossime parole in parte verso loro, in parte verso sé stesso. «E qui non si trova...» Pochi secondi dopo il suo ultimo dubbio se n'era andato. Stette davanti al ritratto di Margaret. «E' mia madre». Era una dichiarazione, non una domanda.
«Te ne ricordi?»
Charlie annuì solo un'altra volta. «Ho visto anche lei. E... sapevo che era mia madre».
«Charlie, sai che cosa significa?» La voce di Alan fremette per la fortuna e altri sentimenti appena repressi. «Cominci a ricordare!»
Charlie non disse niente. Per i due poteva sembrare così. E anche lui, naturalmente, era contento che avesse riconosciuto la casa. Però quella era solo una conferma di ciò che si era già accorto di sapere di sé stesso alla clinica. Non era qualcosa di nuovo. Invece Don e Alan rimanevano estranei per lui.
Ad un tratto aveva il bisogno di fuggire da lì.
«C'è un laghetto di Koi qui, giusto?»
Alan non gli aveva ancora dato la risposta che Charlie stava già camminando fuori. Doveva restare da solo.



  
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