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Autore: Panenutella    12/10/2011    5 recensioni
Lo guardai meglio: era un angelo….
Aveva il viso cordiale e aperto. Gli occhi neri e profondi come due pozzi guardavano attenti il mondo e risplendevano come la luna. I suoi lineamenti era fini e eleganti, proprio come quelli di un Elfo. La sua stretta era gentile, la sua pelle calda. I capelli corti e neri erano pettinati in modo sbarazzino. Indossava una maglietta bianca a maniche corte e mi salutò con un largo sorriso.
Nella mia mente contorta cominciai a sbavare come un mastino.
ATTENZIONE: la protagonista interpreta il ruolo della figlia di Galadriel – ovviamente inventata da me -, Hery, che ha una storia d’amore con Legolas e segue i protagonisti nel loro viaggio.
La maggior parte degli avvenimenti narrati in questa fic sono realmente accaduti, ma sono raccontati dal POV della protagonista.
Divertitevi, leggete e recensite in tanti! :)
Genere: Avventura, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Orlando Bloom
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lesley's World'
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La mia vita sul set – Cap 12.

Saltammo in macchina e ci dirigemmo sul set di Hobbiton. Anche se era presto, c’erano già un sacco di Hobbit di tutte le età: bambini, donne, uomini, anziani. Sembrava di essere davvero a Hobbiton, anche se avrei scommesso che molta gente doveva ancora arrivare.
-    Ragazzi, io devo fare un salto da Emma e Linnie: devo farmi sistemare e poi devo prendermi il costume.
-    Prendilo, Les, ma non mettertelo prima di essere stata truccata – mi disse Elijah – è molto scomodo farlo con gli abiti da Hobbit, fidati di me.
Annuii e mi diressi verso la roulotte trucco di Emma. Ero certa di trovarci dentro anche Linnie.
-    Ciao Les – mi salutò Emma mentre sistemava spazzole di vario genere nei cassetti.
-    Buongiorno – sbadigliai. – Puoi sistemarmi i capelli?
-    Dovere – disse lei. – Ma c’è stato un cambio di programma. – Mi indicò la sedia
davanti allo specchio.
-    Cioè? – chiesi sedendomi.
-    È arrivata la parrucca che ci serviva, quindi non hai più bisogno dei capelli tinti. In effetti, è stata un’idea molto stupida. Non farete altro che ballare, quindi ti dovrai sempre fare la doccia, quindi sarebbe un’altra seduta di parrucchiere. Troppa fatica e troppo tempo sprecato.
Non dissi una parola. Restai immobile, sulla mia sedia,  a soppesare le parole di Emma. Aveva ragione. Annuii.
-    Va bene. Ma ti prego, facciamo in fretta.

Decolorare i miei capelli fu una delle sedute allo stesso tempo più lunghe e più brevi della mia carriera di cliente di parrucchiere. Fu senz’altro molto breve perché mi dovetti semplicemente lavare i capelli e asciugarmeli, e più lunga perché, anche se Emma era un fulmine a mettere parrucche, fremevo dall’impazienza e ogni minuto mi sembrava lungo un’eternità.
-    Vuoi smetterla per piacere? – mi sgridò Emma mentre finiva di incollarmi la parrucca. Forse alludeva al ritmo frenetico che battevo con i piedi sul pavimento. Appoggiai piano i piedi per terra e rivolsi le punte l’una contro l’altra.
-    Scusa – farfugliai. Lei sospirò.
-    Voi attori siete sempre così impazienti e stressati… dovreste rallentare i tempi.
-    Prova a dover interpretare un minimo di tre scene al giorno e poi ne riparliamo.
Dissi balzando in piedi e dirigendomi verso la porta. Saltai giù dagli scalini e corsi verso la sala trucco degli Hobbit.

- Salve a tutti! – dissi entrando. Gli Hobbit mi accolsero con sorrisi e sbadigli, i truccatori mi rivolsero allegri cenni di saluto. Sean Foote, che riconobbi grazie alla pettinatura, mi disse di sedermi su una sedia tra il muro e Dominic e di mettere i piedi su una panca. Mi tolsi le scarpe con un calcio, insieme ai calzini, e pensai che non mi ero lavata i piedi quella mattina. Cattiva decisione. Ma non sembrò turbare molto Sean.
- Sai, tesorina, non è giusto per niente. – mi disse Billy.
- Uh? Che cosa? – mi voltai verso di lui.
- Non ti muovere. – Mi disse Foot.
- Scusa. – mi rimisi ferma.
- Tu fai l’elfo, bella tranquilla, e noi a doverci alzare presto tutti i giorni e a venire qui… eppoi, sei stata l’unica di noi a non essere stata ancora paparazzata. Un record.
- Siete stati paparazzati? – chiesi, stupita.
- Come no! – Elijah si tirò su la zip della felpa nera che indossava sopra al costume, per coprirsi dal freddo. – Di continuo.
- Vediamo per quanto riesci a mantenerlo! – sbadigliò Dom.
- In piedi signori! – disse una truccatrice, e io mi alzai imitando i movimenti dei quattro Hobbit.

Quando ci finirono di attaccare i piedi, passarono alle orecchie e – per gli altri hobbit – alle parrucche. Il mio truccatore borbottò qualcosa riguardo la scomodità di infilare le orecchie già con la parrucca, e mi sentii molto in imbarazzo. Appena finirono di truccarci, mi diressi verso la roulotte costumi, subito dopo aver preso il costume dalla roulotte di Emma, e mi cambiai. Era un vero costume da Hobbit, il mio: gonna lunga di cotone, corsetto verde e maniche lunghe a metà braccio. Molto bello, ma molto scomodo, se paragonato al mio comodissimo costume da elfo (pantaloni e stivali). Per la mia natura elfesca, camminare a piedi nudi (anche se avevo le protesi) era scomodissimo. Piegai la testa di lato e mi guardai nello specchio: c’era tutto di un Hobbit, nella mia immagine, a parte l’altezza. Sorrisi. Peter avrebbe trovato il modo di farci sembrare tutti più piccoli rispetto a Gandalf.

Saltai i gradini della roulotte a due alla volta, atterrando sul prato e tirando una boccata d’ossigeno purissimo: quel posto era il paradiso! L’aria era ancora molto fredda, ma si sarebbe riscaldata almeno un pochino, con sole. Elijah scese le scale e mi porse un bicchiere col coperchio.
-    Hai dimenticato la tua colazione.  – Presi in mano il bicchiere.
-    Grazie. – mi grattai la tempia con due dita. – Anche se non ho molta fame, mi sono già saziata con la brioche che Dom ha rubato dalla cucina dell’albergo.
-    Non importa, Les, bevi. Ci aspetta una giornata faticosa.
Ubbidii docile, e il liquido caldo del caffelatte mi scese giù per l’esofago fino a riscaldarmi il pancino. – Mmmmm… caldo. – dissi leccandomi i baffi. Mi diressi verso una delle macchine che ci avrebbe scortati allo studio in città. Elijah mi seguì dopo pochi istanti.
Aprii la portiera posteriore dell’auto e vidi che Elijah, accanto alla portiera opposta, si era fermato, e fissava corrucciato qualcosa oltre la macchina, dietro di noi. Incuriosita, seguii la direzione del suo sguardo, e mi sorpresi.
El stava fissando con insistenza, come se la cosa lo turbasse profondamente, Ilana che chiacchierava e rideva sorseggiando caffè assieme ad un tizio, in piedi in mezzo al prato davanti alla porta di una casa Hobbit e ridendo come se fossero intimi amici. Conoscevo quel tizio. Si chiamava Justin, ed era di sette, otto anni più grande di lei. E non solo in senso di età: Justin era un armadio, in modo quasi anormale. Era palestrato, con gli addominali a tartaruga, abbronzato e con un dragone tatuato sul braccio. Aveva i capelli tagliati alla marine e, nonostante il freddo, se ne stava arrogantemente in jeans e petto nudo, sfoggiando dragone e piercing col diamante sull’ombelico. Era decisamente il tipo che non avrei mai visto insieme ad una come Ilana, eppure sembrava che si piacessero parecchio.
- Scusate, voi due. – la voce di Billy riscosse me ed Elijah dai nostri pensieri. Mi voltai: la testa parruccata di Billy spuntava impertinente dal finestrino anteriore dell’auto. – Tanto per cominciare non è buona educazione fissare la gente – alzai gli occhi al cielo. – Secondo, se rimanete lì ancora per molto, io mi congelo e in più arriveremo in ritardo. Ma se volete finire ridotti a due stalagmiti, fate pure.
- Va bene, o capitano mio capitano. – Dissi con molta enfasi sedendomi sul sedile, chiudendo la portiera e sfregandomi le mani per riscaldarle. El si sedette sbattendo la portiera, tirando casualmente una gomitata a Sean che sedeva fra  di noi. Si scusò e si mise a guardare fuori dal finestrino, Dom accendeva il motore e partiva.
Rimase silenzioso per tutto il tempo che impiegammo a uscire dal set. Poi cominciò a brontolare cose incomprensibili.
-    Non capisco che cosa ci trovi in quel tizio – mugugnò ad un certo punto incrociando le braccia.
-    Chi? – chiese Billy.
-    Ilana – rispose lui.
-    Ilana Kim?
-    Già.
-    Strana, quella ragazza. – disse Dom
-    Veramente, è meno strana di te.  – Replicò El passandosi una mano sulla parrucca.
– Ma quello che non riesco proprio a capire è che cosa ci trova in quello… scimmione, ecco!
Dom, al volante, si voltò verso di lui per fargli un sorrisone.
-    Sei geloso! – lo canzonò.
-    Dominic, guarda la strada! – esclamò Sean terrorizzato.
-    Non sono geloso!
-    Invece sì! Non saresti di malumore se al posto di Ilana ci fosse stata Philippa! –
insisté Dom, sforzandosi per non rivoltarsi a guardare Elijah.
-    Ma che c’entra! Linnie e Philippa sono due persone completamente diverse!
-    Quindi non ti disturba se Linnie si vede con Justin? – dissi io. Elijah mi guardò.
-    Assolutamente no! – fece una breve pausa. - Lo conosci?
-    Sì, l’ho visto qualche altra volta, in giro… ma non penso che faccia parte della crew. Non gli ho mai parlato.
-    Comunque, El, qui hai una persona che conosce abbastanza bene Ilana. – ridacchiò
Billy. – Lesley passa molto tempo con lei e sua cugina.
-    Giusto! – esclamò Dom, perdendo di nuovo la concentrazione e voltandosi, stavolta
nella mia direzione. – Ehi Les, che ne dici di una missione alla James Bond?
-    DOMINIC MONAGHAN!!! GUARDA QUELLA CAVOLO DI STRADA, PAZZO SPERICOLATO!!! – strillò Sean. Dom si voltò e prese di nuovo il volante fra le mani.
Mise la freccia e svoltò a sinistra.
-    Fortuna che siamo arrivati – sospirò – così la smetterai di strillare.
Appena accostò, scendemmo dall’auto. Sean sbraitò ancora contro Dom:
-    Se fossimo in Inghilterra, ti denuncerei alla polizia! Se guidi in questo modo da sobrio, che cavolo fai quando sei ubriaco? Io, ti ricordo, un motivo per cui vivere ce l’ho!
-    Sean, smettila di fare lo strillone! – fece Billy spazientito. Io non persi tempo ed
entrai. E per quella mattina non si parlò più della mia “missione alla James Bond”. Anzi, non se ne parlò più.

Era un bello Studio, forse fatto apposta per la scena del ballo: c’erano due stanze adibite a spogliatoi, uno per le donne  e uno per gli uomini. Dall’ingresso, decorato con tante belle macchinette per cibo e bevande, si scendevano un paio di rampe di scale e si arrivava ad uno stanzone di proporzioni esagerate, gremito di gente. Cameraman, insegnanti di ballo, coreografi, truccatori. Erano state sistemate anche un paio di panche, ad un lato della stanza, per far riposare gli stanchi e per accogliere anche un piccolo “pubblico”. Fu lì che posai la sacca con un ricambio che mi ero portata e il mio cellulare. La gente intorno a me parlava, riempiendo la stanza di un chiacchiericcio insistente. Mi sedetti un secondo sulla panca, mi passai una mano fra i capelli della parrucca – e mi parvero fibrosi e simili alla paglia – e allungai le gambe, rimirando le protesi.
- Signore e signori, per favore ascoltate! Vi preghiamo di spegnere i cellulari o, se proprio non ci riuscite, di metterli in modalità silenziosa. Vi preghiamo inoltre di fare silenzio. Cominciamo. Grazie. – disse una donna con i capelli biondi legati in una coda di cavallo e vestita di una comoda tuta da ginnastica, parlando dentro ad un megafono. La sala si riempì di silenzio dopo pochi secondi.
- Grazie. – ripeté la donna. – Ora vi faremo ascoltare la colonna sonora del ballo, composta dal fenomenale Howard Shore, e io e i miei assistenti vi mostreremo la coreografia. Voglio solo ricordarvi che siete Hobbit, l’aria è impregnata di allegria. Pertanto, se adesso vi viene voglia di ballare, lasciatevi andare.
Si girò e premette un tasto di un enorme stereo giallo munito di un paio di casse altrettanto enormi.
-    Come si chiama? – sussurrai a Billy, accanto a me.
-    Donna Butterfly. È l’insegnante di ballo.
L’aria della stanza venne invasa dalle note di una bellissima musica suonata col flauto e altri strumenti, che subito mi fece pensare al set di Matamata. Era veramente bellissima, e Howard Shore era un genio. Dunque quella era Flaming Red Hair. Sorrisi.
Cominciai a battere il ritmo con un piede, mentre altri muovevano la testa a tempo o canticchiavano. Prima un piede, metti avanti un altro, eccetera, mi ritrovai a saltare a ritmo della musica. Elijah, alla mia sinistra, rise e mi prese per mano, e cominciammo a girare intorno. Billy cominciò a battere il tempo con le mani, e Dom sparì da qualche parte per chiedere di ballare a qualche bella signorina. A poco a poco tutti si misero a ballare nella maniera che più gli andava. Chi saltava, ballava in cerchio… Ad un certo punto, mentre io ero voltata a ballare con una ragazza con i capelli bruni a caschetto, un assistente di Donna prese da parte Elijah e gli disse qualcosa. E la musica finì. Ci fermammo con il fiatone e partì l’applauso. Non so per certo a cosa applaudissimo, credo ad Howard Shore, o alla musica, o forse perché ci andava di applaudire! Donna risaltò sulla panca  e prese in mano il megafono.
-    Siete stati bravissimi! Ora io e i miei assistenti vi mostreremo la coreografia.
Il discorso di Donna venne interrotto dalla porta della “sala ballo” che si apriva. Entrò Ian McKellen, vestito da Gandalf.
-    Scusate il ritardo – borbottò Ian.
-    Di niente, Sir Ian, con lei possiamo iniziare seriamente. Bene, fate tutti attenzione…

Distrutta e con le gambe doloranti, mi diressi verso la panca dove avevo lasciato la mia sacca e, sedendomi, ripescai il cellulare dal fondo. Lo schermo lampeggiava: c’era un messaggio.
“Ehi, Les! Faccio un po’ di pratica con l’arco e poi vengo a vederti ok? Appena posso scappo. Ol.”
- Vabbene… - dissi, troppo stanca e pigra per premere i tastini del cellulare per rispondere al cellulare. Donna ci aveva concesso una pausa di cinque-dieci minuti. E meno male, eravamo tutti distrutti. Avevamo imparato quasi tutta la coreografia, ci mancavano solo lo stacco finale e la coordinazione, perché tutti se ne andavano per conto proprio.  Mi alzai, dolorante, e mi diressi sacca al seguito alle macchinette nell’ingresso. Aprii la porta per andarmene e, fermandomi un momento, scoppiai quasi a piangere: mi ero dimenticata che c’erano le scale!
Scale superate – e mi avreste dovuto vedere: sacca ai piedi, un piede su, uno alla volta, aggrappata alla ringhiera – mi ritrovai nell’ingresso. Trascinai i piedi fino alla macchinetta più vicina e presi il portafoglio.
-    Allora, vediamo quanto costi, delizioso the alla pesca lì in fondo alla c32… 50 centesimi… mmm, un po’ esoso, non ti pare? E vabbè, chiuderemo un occhio per una volta… sì così, scendi… bravissima, mia bottiglietta di delizioso the alla pesca… ecco… cavolo, sei ghiacciato!
-    Ehi, ciao! – disse Orlando entrando dalla porta. – Come procede?
-    Non si vede dalla mia faccia?
Inclinò la testa di lato, scrutandomi. – Naaaaa! – fece. – Sei solo stravolta.
-    Appunto! – piagnucolai. Mi guardò di nuovo e rise.
-    Te la sei cercata, quindi non venire a lamentarti!
Gli feci il verso e bevvi un sorso di ghiacciato the alla pesca.

-    Gente, ecco il programma: la proviamo un’altra volta, andiamo a pranzo e poi raggiungiamo i produttori sul set e proviamo la scena!

All’inizio non ce n’eravamo accorti, ma nella sala ballo al piano sotterraneo l’aria era pesante, quasi irrespirabile. Era ovvio, dal momento che eravamo 40 persone sudate e con le protesi ai piedi che ballavano in continuazione. Quando uscii dallo studio inspirai a fondo: l’aria era fredda, ma pulita.
Non ebbi neanche il tempo di trarre un altro respiro: mi presero per un braccio e mi trascinarono in macchina, portandomi sul set.
Durante il viaggio in macchina, gli Hobbit ripresero il discorso dei paparazzi.
-    Secondo voi per quanto tempo la nostra principessa elfica riuscirà a mantenere il primato di immunità da paparazzi? – chiese Dom al volante (di nuovo e contro la volontà di Sean), per stuzzicarmi.
-    Chi lo sa. – rispose Elijah. Io intanto stavo mandando un messaggio a Linnie col
mio cellulare. “Che fai stasera?”. Attesi qualche minuto e mi arrivò la risposta. “Esco con Justin. Sai che mi fa la corte?””Non mi sembra un tipo affidabile, Linnie””Tranquilla! Semmai ho lo spray al pepe!”
-    Linnie stasera esce con l’armadio.
Elijah si richiuse in sé stesso, ma negò spudoratamente di essere geloso.
Dopo alcuni minuti di viaggio, il mio telefono squillò, con la suoneria personalizzata per Orlando. – Ma come! Orlie ha una suoneria solo per lui e noi no? – disse Billy.
-    Pronto? Ciao!
-    Hola Les! Che combini?
-    Ti ho perso dopo l’ultimo ballo, dov’eri finito?
-    Ero andato al gabinetto, ma quando sono tornato tu eri sparita!
-    L’ABBIAMO RAPITA NOI!! – urlò Dominic.
-    L’hai sentito? – chiesi.
-    Sì. Ehi, piccola, stasera ti va di uscire? Conosco un posticino niente male.
-    Orlie, a me non va tantissimo di uscire, sarò stanca…
-    Dài, ti prego! Giuro che non ti porto da nessuna parte, solo cenetta e albergo!
-    Uuuuuuuh… vabbene, dai.
-    Fantastico! Allora, ristorantino?
-    Ma sì, perché no? Va bene!

Non mi dilungo su quello che successe quel pomeriggio sul set. Peter ci mostrò quello che avremmo dovuto fare, coordinò gli Hobbit – sia i quattro protagonisti sia le comparse, tutte bravissime – aggiustò i vari dettagli. E intanto pensava al copione del giorno dopo. Era strabiliante il lavoro che riusciva a fare in così poco tempo. In effetti, anche se non ce ne rendevamo conto, il tempo stringeva. Dovevamo finire la Compagnia dell’Anello al più presto, e ce la stavamo mettendo tutta. Ma per ogni scena ci volevano almeno due ore di lavoro, per i vari ciack e le varie riprese, senza contare i vari errori che facevamo. Non era un lavoro semplice.
Ma non eravamo solo noi protagonisti ad impegnarci. Non avevo mai visto tanto entusiasmo in tante persone. Molti dicevano di voler essere Hobbit nella realtà, che era tutto bellissimo e che era veramente un  lavoro da favola. Ero contenta che fossero felici del proprio ruolo, ma pensavo che avrebbero cambiato idea se sarebbero stati Hobbit per altri due anni.

Le stelle cominciavano ad illuminare il cielo, e un vento freddo arrivava da nord, scompigliando le placide acque del lago. Era lì che, tolti parrucca, protesi e costume mi ero messa ad aspettare Orlando. Ero seduta sull’erba, fra il ponte di pietra e il mulino della casa di legno. Mi ero vestita con un paio di jeans lunghi e una felpa rossa con la lana dentro, e mi ero legata i capelli con due codini. Alla seduta di trucco a fine giornata i ragazzi mi avevano offerto una birra, ma avevo rifiutato: non sapevo dove mi avrebbe portato Orlie, per cui decisi di non rischiare. Avevo indossato dei pantaloni neri di velluto e un paio di stivali, e giocherellavo distrattamente con un codino mentre osservavo pensierosa l'acqua limpida del lago e la sponda opposta, quella dove la sera prima io e Orlando avevamo ballato Iris. Arrossii al ricordo.
-    Ci credi che sono riuscito a recuperare la radio solo dopo pranzo? – la voce di Orlie
mi fece sobbalzare. Scattai in piedi. – Ehi, non volevo spaventarti! – sorrise. Vedendo la mia faccia contrariata, mi allungò una mano. – Che dici di andare? Conosco un ristorante cinese niente male. Cioè, veramente non lo conosco io, ma Google.
-    Mi sembrava strano, il fatto che conoscessi un ristorante cinese a Matamata di tua iniziativa! – lo presi in giro. – Andiamo, dopo tutti questi balli ho fame!

Essendo componenti della Compagnia, anche se ci sforzavamo, passavamo di rado il tempo da soli come coppia. Non che gli altri fossero invadenti, ma tra le riprese, gli allenamenti e tutto il resto, anche se lavoravamo insieme, non ci permetteva di viverci come avremmo realmente voluto.
Non posso dire che quello fosse il ristorante cinese più rinomato di Matamata. Anzi, a dire la verità, ancora non so se ce ne sono altri, in quella splendida cittadina. Appena entrammo, ci accolse una cameriera cinese, che parlava bene la nostra lingua, ma con qualche picco di accento cinese. Ci chiese in quanti eravamo e ci scortò fino ad un tavolo all’angolo della sala semivuota, abbastanza isolato e tranquillo. Appena ci sedemmo, la stessa cameriera ci porse due menù verdi acqua – da dove li aveva pescati? – e se ne andò con un piccolo cenno. Aprii il mio, e nel farlo vidi che una parete del ristorante, quella opposta al nostro tavolo, era fatta completamente di doppio vetro, che permetteva di vedere tutto quello che succedeva in strada – potevi persino contare le foglie secche sul marciapiede. Mi dava un po’ di fastidio mangiare “in vetrina”, ma dentro a quel locale si stava così bene, era così tranquillo, che non avevo voglia di mettermi a fare i capricci, specialmente dopo aver adocchiato alcune delle prelibatezze raffigurate sul menù. Immaginai un gatto che si lecca i baffi e sogghignai.
-    Anche tu stai pensando al gatto beato?
Lasciai cadere il menù sul tavolo. – Come hai fatto???
-    Ormai le nostre menti si stanno fondendo. – annunciò criptico, annuendo piano con la testa. Una scena che risultò alquanto inquietante, ma al tempo stesso comica. Sorrisi.
Restammo concentrati ancora qualche minuto, intenti a scegliere la nostra cena, finchè la stessa cameriera – o era una diversa? Con quella divisa sembravano tutti uguali – venne con il libretto delle prenotazioni a scrivere quello che volevamo. Orlando scelse porzione gigante di nuvole di drago, io involtini primavera. Orlando spaghetti alla salsa di soia e io riso alla cantonese, e per finire, anatra imperiale e gelato fritto.
-    Non sarà un po’ troppo? – chiesi indecisa quando la cameriera se ne fu andata.
-    Se non riesci a mangiare qualcosa, dai pure a me. Tutto l’allenamento di oggi mi ha stancato. Devo dire che più divento bravo con l’arco, e più mi stanco.
-    Mmmm, modesto, eh?
Ridemmo. Appoggiai un gomito sul tavolo e giocai con il bicchiere pieno d’acqua. Ripensai a Linnie, all’uomo-armadio, a Elijah… a tutti gli avvenimenti di quel giorno. Orlando intanto parlava, ma io non lo stavo ad ascoltare. O meglio, gli prestavo solo un orecchio: raccontava di quello che aveva fatto durante il giorno, e soprattutto si divertiva come un matto a ricordarmi com’era la mia faccia mentre prendevo quella bottiglia di the alla pesca. Non è che non fossi interessata al suo discorso, ma la mia mente cominciava a deconcentrarsi, come mi succedeva spesso in quelle sere. Sospirando, presi il bicchiere in mano e bevvi un sorso d’acqua. Orlando intanto non smetteva più di parlare: sembrava una di quelle vecchiette al parco, che per ricordarsi il nome dei nipoti dicono i nomi di tutto l’albero genealogico, e intanto ne approfittano per raccontare la storia della loro interminabile vita. Sorprendente di come non si ricordassero il nome dei propri figli e nipoti ma si ricordavano perfettamente di che colore erano le persiane della loro casa natale. Mentre svuotavo il bicchiere, mi parve di scorgere, dall’altra parte della strada, un’ombra scura, con in mano qualcosa di strano. Ma il tempo di sgranare gli occhi e guardare meglio, e la figura era sparita.
-    Qualcosa non va? – Orlando, finalmente, aveva interrotto il suo lunghissimo sproloquio.
-    No, niente, solo che… non lo so, mi è sembrato di vedere… qualcosa – feci uno
strano gesto con la mano – laggiù.
Orlando si voltò, scrutò la strada per pochi secondi e poi mi guardò. – Probabilmente non era niente – disse scrollando le spalle – forse un passante.
-    Già, forse. – convenni.
-    Oh oh! Guarda lì! Mi sa che sono per noi! – disse, quasi esaltato, con lo sguardo
rivoltò all’entrata della sala. Mi voltai e vidi la cameriera dirigersi verso di noi con dei piattoni immensi. Uno lo pose delicatamente di fronte a me e l’altro, ovviamente, di fronte a Orlando. Costui – non posso dire uomo, perché in quel momento uomo non lo sembrava affatto – si passò la lingua sulle labbra e attaccò a divorare le sue nuvole di drago. Io mi limitai a sembrare più educata: versai la salsa agrodolce sugli involtini e me li mangiai con gusto.
Dopo lo squisito antipasto, fu la volta del primo, poi dell’anatra – che condividemmo – e del gelato fritto. Divorai il dolce chiedendomi come diavolo avesse fatto il cuoco a friggere una palla di gelato, ma ne lasciai metà. Ero al limite. Ma Orlie fu più che felice di finirlo.
Orlando aveva imparato a non fare più lo scherzetto del portafoglio dimenticato: un sollievo per lui, visto che dopo il pranzo all’Hippopotamus quel giorno a Wellington l’avevo minacciato seriamente di ucciderlo se ci avesse riprovato. Da bravo gentiluomo, pagò con la carta di credito e uscimmo dal ristorante. La temperatura, durante il giorno, era scesa notevolmente. Mi prese per mano e insieme ci avviammo alla macchina, che aveva parcheggiato in un posteggio abbastanza lontano:  un lieve bacio per scaldarsi le guance e poi via, di corsa – o quasi – verso la macchina, pronti a ritornare in albergo.

Anche se la giornata era stata lunga e faticosa, arrivata in albergo dopo la serata con Orlie mi sentii bene: in quel momento non c’erano pensieri ripetitivi che mi pulsavano nel cervello, né battute in elfico da ripetere, né canzoni da ascoltare e liste di cose da fare. Pensavo soltanto a com’ero stata bene con lui quella sera, e la memoria volò subito al ricordo della mia festa di compleanno. Arrossii. Misi la chiave della mia stanza nella toppa e, girandola, aprii la porta. Orlie mi guardava dalla soglia, un po’ assonnato ma felice. Lo guardai e sorrisi.
-    Adesso sei tu ad avere la faccia sbattuta.
-    Cosa vuoi: un po’ per uno, no? Tu sembri riposata invece.
-    Forse, ma in realtà ho voglia di andare a letto…
-    Beh, allora buonanotte. Vedrò di rubare a Billy qualche coperta prima che si
abbozzoli.
-    Aspetta – lo fermai. Col cuore che pulsava, mi avvicinai a lui e lo abbracciai. Lui
rispose all’abbraccio, e mi baciò i capelli. Lo baciai a mia volta, e prima che gli saltasse in mente di andarsene, lo afferrai per la felpa e lo portai dentro. Chiusi a chiave la porta e…

Fu una delle notti più belle della mia vita, e il giorno dopo arrivò in fretta. Senza svegliarlo, come il giorno prima, mi preparai e uscii, raggiungendo gli altri Hobbit nell’ingresso. Non credo che ci abbiano sentiti, ma comunque non ne fecero parola, e interpretai le gomitate d’intesa tra Billy e Dom come uno dei loro soliti giochini.
La prima parte della giornata lavorativa si svolse più o meno come la precedente, ovvero:  trucco alle cinque e mezza del mattino al set, poi salto in macchina e corsa allo studio. Ma invece di passare l’intera giornata chiusi lì dentro, Donna Butterfly ci fece provare un’ultima volta il ballo, poi i cameraman entrarono in azione, un paio di prove e voilà, la scena del ballo risultò buona a Peter, Fran e Philippa già dalla seconda ripresa. Così, si chiuse quella che sembrava la parte faticosa. Quel pomeriggio io ero libera, così decisi di farmi un giretto in città: in più, era da tanto che non aggiornavo i miei gossip: anche se non era uno dei miei hobby preferiti, mi piaceva sapere un po’ di notizie meschine sui miei “colleghi”.
Alla scuola di Oxford avevo un’amica, Mary, che amava spostarsi in motorino. Appena la conobbi, cominciò subito a parlarmi di moto, di tutti i tipi e di tutte le marche, e così l’argomento cominciò a interessarmi. Un  giorno, verso la fine del secondo anno, Mary mi propose di imparare ad andare in moto: così mi trascinò a casa sua, mi mise un casco in testa e passammo la settimana successiva a fare giri del suo isolato. All’inizio – quella fase ancora tutta traballante – io andavo lentissima e lei mi seguiva di corsa; dopo due giorni, ero in grado di andare da sola dritta, senza scatti in avanti, indietro, destra, sinistra e – una volta – in alto. Alla fine della settimana, sapevo portarla dietro con me e fare il giro dell’isolato in meno di un minuto.
Quell’anno Mary fu bocciata, e invece di continuare gli studi scelse di cambiare scuola, ma continuammo a tenerci in contatto. Ma un giorno mi disse che suo padre aveva ricevuto una promozione e dovevano trasferirsi in Germania. Quattro giorni dopo partì e io non la sentii né vidi più.
Visto che ancora non avevo la patente per guidare la macchina, e qualcosa mi diceva che prima dell’uscita del Ritorno del Re non ce l’avrei fatta a prenderla, decisi di raggiungere Matamata in motorino. Un tecnico del suono mi prestò il suo, con la promessa di non riportarglielo rigato o con una ruota bucata.
-    Mica sono un teppista! – dissi, e salii in sella.
Decisi di parcheggiare la moto nel posto dell’albergo e di girare un po’ a piedi. Era bello recitare con i ragazzi, ovvio, ma era ancora meglio stare un po’ per i fatti propri. Dopo qualche giro di strada e attraversamento di strisce, mi trovai davanti ad un’edicola. Sorridendo tra me e me pregustando già i pettegolezzi che avrei trovato, presi il portafoglio dalla borsa ed entrai. Ma qualcosa, appena varcata la soglia, mi bloccò.
Sulle mensole degli scaffali, sulla copertina di ogni giornale, campeggiava una foto che raffigurava o me e Orlando al tavolo del ristorante, o me e Orlando per mano che camminavano per strada. Ogni giornale aveva la mia faccia sbattuta in copertina. Chi più zoomata, chi meno, ma ero sempre io. Sempre Lesley Dalton e Orlando Bloom. E i giornali recitavano “Orlando Bloom: una nuova conquista amorosa?”, “La ragazza di Orlando Bloom”, “Lesley Dalton e Orlando Bloom: un boom di cuori!”
Shockata e impaurita, presi il cellulare.
-    Orlando – dissi lugubre. – Abbiamo un problema.

Intanto chiedo scusa per il mio enorme ritardo, ma è stato difficile scrivere questo capitolo – e ringrazio tantissimo Niniel per avermi dato qualche dritta -. All’inizio l’intenzione era di scrivere un capitolo 12 più lungo, ma poi mi è venuto in mente che se avessi continuato non ci sarebbe stato un altro colpo di scena come quello… là sopra.
Come al solito, gente, fatemi sapere che ne pensate!
Per farmi perdonare da voi lettori – amatissimi – ho deciso di mettervi un “ritratto” di Les che ho fatto con faceyourmanga.com. Che ne pensate?

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