20: scelta obbligata dalla vita
Ryan se ne era andato ormai da un bel po’ di
tempo, che a me sembrava un’eternità. Me ne stavo lì, sul divano di pelle
rossa, con ancora la tazza piena di un surrogato del caffé che doveva contenere
qualche ora fa. Rimuginavo ancora sulla scelta di restare o partire. Lo chiedevo
a me stessa, ansiosa che all’improvviso qualcuno uscisse
fuori e mi desse una risposta, una qualsiasi via da seguire, perché a me
sembrava impossibile venire fuori con le mie sole forze da questo enorme dilemma.
Eppure ero così ferma nella mia decisione di
mollare tutto qui e partire con Ryan, quindi, poter finalmente riabbracciare i
miei cari.
Se
solo Josh non mi avesse fermato stamattina. Se solo non si fosse
impicciato in questa situazione. Se solo non
avesse detto di amarmi.
Ma in contemporanea un’altra domanda prese
vita nella mia mente. Davvero Josh ha giocato un ruolo tanto importante
all’interno di questa faccenda? Cioè, davvero questa
mia indecisione è stata causata da lui?
Mi
sembra essere ritornata a vestire i panni della vecchia Strawberry. Quella
ragazza di quindici anni che la mattina si svegliava sempre tardi, e proprio
non riusciva a sentire in tempo la sveglia. Che andava a
scuola e riusciva ogni anno ad andare avanti per un pelo, visto che non era
dotata di una gran voglia di studiare. Quella ragazza
che subito dopo la scuola andava a lavorare in un caffé, l’unico luogo dove
forse poteva dare libero sfogo ai lati della sua personalità repressi; l’unico
posto dove si sentiva veramente libera. Lì non c’era nessuno a
giudicarla, poteva fare tutto ciò che voleva. Le sue compagne la aiutavano senza
mai pretendere nulla e quando aveva un problema si prodigavano anima e corpo
per lei.
Ma
ricordo anche una fondamentale componente di quella
ragazzina. Una costante del suo carattere che
nell’adolescenza molte volte l’ha fatta soffrire, forse, inutilmente.
Era un’eterna indecisa.
Non
riusciva mai a prendere una decisione netta nella sua vita. Si trovava sempre
in bilico tra quello che era giusto e quello che voleva davvero fare, tra
quello che si aspettavo gli altri da lei e quello che voleva
La
maggior parte della volte optava sempre per la prima
ipotesi. Quella meno faticosa. Quella che, come si dice, fa
vincere tutti, quella forse più facile e scontata. Quella, che però , anche, le faceva rimpiangere la seconda e la condannava
spesso a uno stato di infelicità e una conseguente insoddisfazione interiore terribile.
Pensavo
che oramai quella ragazzina fosse morta. Sepolta nei meandri dei miei ricordi.
Che avevo ormai concluso quel capitolo della mia vita.
Ma invece, ecco qui che ritorno alle origini. Ecco qui
che quel maledetto mio modo di essere è stato liberato
e adesso è di nuovo padrone di me. Svolazza liberamente tra i miei pensieri,
spargendoci accuratamente un pizzico del suo potere, confondendomi. Intorpidendo il mio metro di giudizio che tanto ho faticato a
costruirmi.
Odo il
rumore dello scatto che la chiave fa quando viene
girata nella toppa della porta. Ryan deve essere tornato per
una risposta immagino. Ma cosa farò? Io non ho
una risposta ancora. Ho bisogno ancora di tempo. Tempo per capire se è giusto
partire e riprendere la vecchia vita da dove la si è
lasciata o restare e accettare le
conseguenze di questa nuova che ho intrapreso di mia spontanea volontà, che
forse, con il tempo potrà cambiare, migliorare.
Ma sulla soglia del salotto non è Ryan a
fissarmi con fare cagnesco. È ancora una volta Josh. La mia paura sale maggiormente quando lui comincia di nuovo ad avanzare verso
di me. Come nel vicolo. Mi alzo dal divano e comincio ad indietreggiare, questa
volta però, senza preoccuparmi di darlo o meno a
vedere. Ma lui non si ferma e continua a venire verso di
me con la stessa espressione minacciosa. Mentre mi trascino
stancamente da un mobile all’altro della stanza, mi rendo conto che le mie mani
hanno cominciato a tremare.
-
hai
pensato a quello che ti ho detto stamattina?- mi chiede lui fermandosi al
centro della stanza e incrociando sul petto le braccia.
-
Non ne
ho ancora avuto occasione- mento io, in preda alla
paura.
-
A
davvero? Bhè in effetti hai tanto a cui pensare
ultimamente…vero? Non ti fai manco più trombare né da me né da Ryan…credo che
quindi avrai un sacco di tempo libero…giusto?
-
Josh,
non ti permetto di trattarmi così…!- faccio io in preda a
un attacco improvviso di coraggio del tutto innato.
-
Mi
sembra di dire solo la verità- mi risponde lui con la sua aria beffarda che da
sempre lo contraddistingue. – ma dimmi…hai deciso cosa farai?- continua
-
In che
senso?- domando fingendo di non aver capito dove volesse andare a parare.
-
Partirai
o resterai qui?
-
Ancora
non lo so….- ammetto amaramente la mia sconfitta, mentre lui sorride.
-
Quindi
il nostro Ryan non ti ha convinto come credevamo…bene bene.
-
Non è
lui….sono io che sono confusa-
-
Bhè…quando
uno è senza macchia, non è confuso. Quando invece si ha qualcosa da nascondere lo si è - Io rimango lì come un ebete, mentre lui si
avvicina. Adesso non ho neanche la forza di scappare o respingerlo. Sono
distrutta.
-
Tu lo ami?- mi chiede infine prendendomi il mento tra le sue dita.
Io lo guardo senza dire una parola. Anche perché non
me ne viene nessuna al momento. Lui, con gli occhi mi chiede una
risposta, ma cosa posso farci se non la conosco.
-
non lo
so- faccio io. Lui avvicina le sue labbra a le mie e
mi bacia profondamente. Infialando prepotentemente tutta la sua lingua in
bocca. Io non voglio.
Vorrei
poter urlare che non voglio baciarlo. Vorrei poter
avere la forza di dargli una spinta e allontanarmi da
lui. Ma non ci riesco. Non riesco a reagire. E quindi rimango lì in balia delle sue azioni.
[…]
Avevo
in mano un mazzo di rose gialle, le sue preferite, e due biglietti di sola
andata per Tokyo. Mi caddero entrambi nel sentire quelle parole insicure pronunciate dalla sua bocca e nel vedere che non opponeva
resistenza al suo bacio. Una lama si conficcò nel mio petto squarciandolo e
rendendomi completamente nudo. Vuoto da ogni cosa che anche lontanamente
potesse assomigliare a un sentimento che non fosse
l’odio. Lasciai lì quello che mi era cascato per terra e me ne
andai senza far rumore, come un ladro. Senza dire nulla. Senza chiedere
spiegazioni. Come un predatore ferito dalla sua stessa preda.
[…]
Compresse
i nostri corpi l’uno sull’altro lungo la parete e spingendomi mi portò in
camera da letto. Anche qui, mi sarei voluta opporre.
Non volevo entrare. Non volevo che lui abusasse di me in quel modo. Ma non dissi nulla. Mi feci trasportare come una carcassa
morta che ormai non ha niente per cui lottare.
Mi
poggiò sul letto e con impeto prese a strapparmi quello che avevo in dosso.
Sembrava una furia. Capii che l’unico modo di placarla era dagli
quello che desiderava. Ma al contempo non
volevo.
Non so
dove trovai la forza di fermare le sue mani e gridare un no
secco. Lui mi guardò dritto negli occhi.
Ebbi più paura di prima perché potevo leggere in quelle ormai non più limpide
sfere verde smeraldo, un maggiore piacere, di natura sicuramente sadica, nel
mio rifiuto. Infatti mi sorrise e continuò con più
forza e più avidità a palpare ogni centimetro del mio corpo che ad ogni suo
contatto rabbrividiva e si opponeva. Continuava e continuava.
Poi mi sfilò gli slip, si slacciò i pantaloni,e mi
sorrise con menefreghismo di nuovo. Poi, con prepotenza entrò dentro me, iniziando a sferrare colpi sempre più forti. Senza
amore, senza un briciolo di sentimento. Sporcando ancora di più il mio corpo
già irrimediabilmente compromesso.
Sentii
lacerare con fortissime fitte ogni parte della mia femminilità deturpata.
Proprio in quel momento, mentre lui ardeva dal piacere e io dal dolore più
spirituale che fisico, capii che questa sarebbe stata la mia condanna in
eterno. Avrei dovuto pagare per il resto dei miei giorni la mia
voglia di trasgredire che quel giorno mi portò qui a Londra. Capii che non
sarei mai più uscita da questo circolo vizioso che
ormai era diventata la mia vita. Non c’erano vie d’uscita. Un angusto vicolo
cieco.
Solo
un pensiero mi tenne coscienze durante tutto questo. La volontà di non
trattenerti. Non voglio che tu sia legato a me. Non voglio vederti soffrire e
ho paura della certezza che se io dovessi seguirti e stare con te,
inconsapevolmente lo farei. Guardami. Guarda quello che mi lascio fare. Guarda il
modo in cui vivo. Non ti merito. Perdonami. Non voglio vederti legato. Sei uno
spirito libero, e come tale devi essere libero di
vivere, spensierato e fiero come sei sempre stato Non voglio essere un altro velo
di oscurità sui tuoi occhi. Non voglio essere un’altra fitta al tuo cuore. Non voglio
che tu rabbrividisca al pronunciare del mio nome.
Non voglio
essere ricordata da te. Voglio vivere e morire nell’anonimato per quanto ti
riguarda. Forse all’inizio questo ti sembrerà del tutto insulso…ma
con il tempo capirai. Dimenticami, Ryan. Cancellami dal tuo cuore e sii libero.
Of all the things
I've believed in /Di tutte
le cose in cui ho creduto
I just want to get it over with/Voglio
solo farla finita con
Tears form behind my eyes/Le lacrime che si formano
nei miei occhi
But I do not cry/Ma non piango
Counting the days that pass me by /Contando i
giorni che mi passano accanto
Words that I'm hearing
are starting to get old /Le parole che sento iniziano ad invecchiare
It feels like I'm starting
all over again/E’ come se
stia ricominciando tutto di nuovo
The last three years were just pretend/Gli ultimi tre anni erano
solo una finzione
I've been searching deep down in my soul/Sto cercando in fondo
alla mia anima
And I said, /E ho detto,
Goodbye to you/Arrivederci
a te
Goodbye to everything that I knew/Arrivederci a tutto
ciò che conoscevo
You were the one I loved /Eri l’unico che amavo
The one thing that I tried to hold
on to /L’unica cosa che ho cercato di tenere stretta
Michelle Branch – Goodbye to you
[…]
Cominciò a piovere. Pensai che da quando ero giunto a Londra, le
giornate di sole di cui avevo potuto godere potevano
essere contate, e neanche, sulle dita di una mano. Contrariamente
a quello che succede a Tokyo, o in qualsiasi città che abbia visitato.
Qui le persone non si affannano per tornare a casa o per riparasi.
È quasi illusoria la loro calma mentre continuano
imperterriti a camminare noncuranti della fitta pioggia che per le strade della
città. Tanto che mi domando se non sia solo io a vederla e a
sentirla.
Cercavo di distrarmi. Era un tentativo disperato, che rasentava il
patetico. Ma da quella immagine di te che baci lui,
mia cara, non si scappa. Mi insegue e inevitabilmente
mi afferra, costringendomi a riviverla. Vorrei scappare. Vorrei sfogare tutta
la rabbia che in questo momento si è sostituita al sangue nelle mie vene.
Vorrei tanto non essermi fidato, non aver creduto così in fondo da essere
deluso in questo modo.
Ma quel che è fatto è fatto, e anche se ti amo più della mia stessa
vita, ancora, nonostante tutto, come un vecchio cane che rimane fedele al suo
padrone fino alla morte; anche se sarei pronto a
morire anche solo per vederti sorridere, e questo tu lo sai bene, non ti sto
dicendo nulla di nuovo; non posso dimenticare. Non posso tornare indietro.
Quindi me ne resto qui, in mezzo alla gente e
pure così solo, con solo i miei pensieri a farmi compagnia.
Sento l’acqua bagnarmi i vestiti che umidi aderiscono alla pelle, e i
capelli. Lentamente piccole gocce scendono sulle palpebre, proseguendo fino
alle guance congestionate dalla rabbia.
Eppure, nel bel mezzo di tutto questo, tra tutte
le cose che in pochissimo tempo si sono succedute ad un ritmo sempre più
incalzante, un brivido mi attraversa la schiena, come un fulmine che squarcia
il cielo. Mi sento vivo. Dopo tre anni, adesso, grazie a l’ira,
il mio animo si sia risvegliato dopo un lungo e profondo letargo.
Mi sento ancora quel diciassettenne, quel
ragazzo impulsivo e passionale. Disposto a provare solo emozioni forti. Sento nuova linfa animarmi, percorre ogni centimetro del mio
corpo. Non mi importa se è odio, è comunque un
qualcosa che mi dica che non sono un vegetale, ma vivo e respiro come un essere
umano.
Giro i tacchi e comincio a correre. Sento la pioggia andare contro il
mio viso provocandomi un lieve non che un piacevole solletico. Mentre dentro di
me mi dico e ripeto,per esserne certo, “sono vivo”.
Arrivo in albergo, e raccatto velocemente tutto ciò che mi appartiene da
quella stanza. Mentre prendo la maglia dalla poltrona,
lo sguardo mi cade su un foglio piegato sul mio comodino.
Lascio tutto ciò che ho in mano e prendo il foglio bianco, un po’
ingiallito dal tempo e mentre lo apro mi siedo sul letto. Rileggo velocemente
quelle righe, dolci mandanti di quella missione che
ormai volge al termine. Questa lettera mi ha dato la spinta
per tirare avanti e a spingermi a venirti a cercare. Ma adesso che le rileggo
scopro che oltretutto questo pezzo di carta ha sempre contenuto la risposta che
forse prima ero stato troppo cieco per non vedere.
Tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho detto, in fondo, non è
servito a nulla perché tu non sei
Puoi avere i suoi stessi capelli; i suoi
stessi occhi; puoi sorridere come fa lei, baciare come bacia lei. Puoi parlare come parla
lei, comportarti come lei, portare il suo stesso nome, avere il suo stesso
profumo. Ma non sarai mai lei, la timida e innocente
ragazza che io amo e amerò finché avrò aria nei polmoni. Sei
solo un fantoccio in mano a questa sporca società che ti ha logorato dentro
fino ad annientare ogni traccia della tua vera personalità. Sei solo una
bambola di cera vuota all’interno che queste persone, quelle che tu chiami
amici, che dicono di averti aiutato, hanno plasmato a loro piacimento. Tu non
sei Strawberry.
Ripiego accuratamente la lettera come se fosse un cimelio prezioso ed
esco da quella camera d’albergo che ormai cominciava a starmi stretta,
portandomi dietro la mia valigia. Giunto per strada fermo un taxi e vi salgo a bordo. Il conducente mi chiede la destinazione.
Ho un momento di titubanza.
-
l’aeroporto,
per favore- dico infine, con voce fredda, pizzicata leggermente da una punta di
rammarico.
Nel
momento stesso che pronuncio questa frase una triste nonché
del tutto prevista verità si fa largo tra i miei pensieri. Ho fallito.