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Autore: Schizophrenia    16/10/2011    0 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Eccomi! Stavolta ho fatto meno tardi del solito, non siete felici?! xD
Bene, scrivo giusto qualche parola e poi corro a studiare per il compito di latino, per il quale oltretutto sono fottutamente terrorizzata. xD
Ad ogni mooodo, questo capitolo riserva un sacco di belle sorprese. *-*
Mark è sempre un coglione ma cosa ci volete fare, la gente non cambia in soli dieci capitoli. xD Anche se è cambiato molto dall'inizio della storia, un personaggio davvero dinamico, oserei dire. u.u
Beeene, vi lascio al capitolo subito subito dopo i ringraziamenti. <3

Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
- Selena_
- Ipazia
- LadyGiulia
- sweetstar
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- Fairness
- Selena_
- lorenzablu
- orsetta
- Prusskij_Lazur
- Selena Marie






Salviamoci la pelle.

-Liebe.




Leningrado, Unione Sovietica.
14 Gennaio 1944
6:01

<< Stai facendo un ottimo lavoro sul fronte, Dimitri, Leningrado dovrebbe avere molti più uomini come te a difenderla >>, il Colonnello Generale Gurtsieva era stanco, glielo si poteva leggere benissimo in faccia: chiaro a chiunque, ai suoi amici quanto ai suoi nemici, ma era tutto perfettamente comprensibile, quella guerra andava avanti da troppo tempo.
Il giovane scosse appena il capo. << La guerra sta andando bene, ma non è tutto ciò che voglio >> ammise, sebbene fosse una cosa ovvia. Era noto che tutto ciò che desiderava era solo ritrovare Bea, desiderio impossibile da realizzare, almeno per il momento; ma Todorov sentiva che qualcosa stava per cambiare: non poteva essere tutto perduto. Combatteva principalmente per se stesso, ma ogni volta che puntava il fucile contro un tedesco, i suoi pensieri erano diretti sempre e solo alla ragazza che era sparita dall'Unione Sovietica.
L'uomo annuì, conosceva benissimo i pensieri del giovane di fronte a lui, e non se ne stupida; aveva sempre notato il rapporto particolare che c'era tra sua figlia e il figlio dei Todorov, non gli dispiaceva: aveva sempre trattato Dimitri come un figlio. << Potreste sposarvi, quando sarà tornata >>, voleva dargli quella speranza, Bea sarebbe tornata. In quanto al matrimonio, il colonnello aveva sempre sospettato che sarebbe andata a finire così, tra i due.
<< Pensa davvero che tornerà? >>, aveva esitato prima di chiederlo, era la paura che lo tormentava da quasi un mese, come un incubo che gli impediva di dormire, costretto a girarsi sul giaciglio per tutta la notte, con la fronte imperlata da freddo sudore. Non dormiva decentemente da tempo, ma fortunatamente questo non significava che le sue abilità in battaglia calassero. Il ragazzo aveva sempre eseguito gli ordini senza sbagliare, senza fare di testa sua e questo era esattamente ciò che ci si aspettava da un soldato.
L'altro annuì, cercando di mostrarsi convinto, per quanto potesse risultare difficile. << Certo che tornerà, troveremo il modo per rivederla, tenente Todorov >> disse, mettendo in quelle parole tutta la convinzione che possedeva. Volendo guardare in faccia alla realtà non c'erano possibilità di rivedere Bea; ormai era sparita per sempre dalle loro vite e dall'Unione Sovietica, che l'avessero già uccisa o meno non era più di loro competenza, non avrebbero mai sentito parlare di lei ancora, ma Boris Gurtsieva stava rimproverando il ragazzo per la sua mancanza di fiducia, perché voleva davvero credere di poterla ritrovare, pur sapendo di quanto la cosa potesse essere impossibile da realizzare.
Il ragazzo annuì, << Manca tanto a tutti, vero? >> chiese, ma era una domanda retorica. Accese una sigaretta, portandosela alle labbra ed offrendone una anche al suo superiore. << Sergeij me ne parla sempre, non vede l'ora di rivederla. Anche voi, ne sono sicuro, lei e sua moglie; ma avete la minima idea di cosa possa passare io, adesso? Non voglio farmi illusioni, Colonnello >> replicò, non riuscendo nemmeno a guardarlo negli occhi. Non era intenzione di Dimitri mancargli di rispetto, ma non voleva credere che la ragazza che amava sarebbe tornata da lui, quando le probabilità erano così basse.
Il Colonnello sbuffò appena, accettando la sigaretta e accendendola. << Cosa provi per mia figlia, ragazzo? >>, lo sapeva già benissimo, ovviamente, ma aveva bisogno di conferme da parte di quel ragazzo, non per lo Stato, ma per sua figlia.
Dimitri Todorov esitò su quella domanda, non lo aveva mai detto ad alta voce, né ne aveva mai parlato con qualcuno: non era esattamente una cosa che era possibile confessare al padre della tua migliore amica, né tanto meno il ragazzo aveva mai avuto amici così fidati, troppo concentrato a guadagnarsi l'affetto dell'unica persona che aveva sempre considerato importante, per se stesso; non gli interessava essere elogiato per le abilità sul campo, e nemmeno stringere un legame così stretto con i suoi compagni, voleva solo l'amore di quella ragazza. Abbassò lo sguardo, incapace di reggere quello dell'altro militare, << L'amavo, signore >>
<< Ti trema la voce, soldato >>, gli fece notare, mantenendo un certo distacco professionale. Non poteva lasciarsi coinvolgere: si trattava di sua figlia e del ragazzo che aveva sempre considerato come un figlio. Sperava in una loro unione, certo, ma adesso gli sembrava quasi impossibile da ottenere, se non del tutto.
Il tenente alzò lo sguardo, << L'ho persa. Cosa pretende che faccia?! >>, non aveva mai posseduto un può temperamento, e la velocità con cui lasciava che la rabbia prendesse il sopravvento lo dimostrava chiaramente.
<< Preferirei che tu non parlassi dei tuoi sentimenti al passato, Todorov, e la mia bambina e sono certo che sia ancora viva, da qualche parte, in Germania >>. Non voleva chiudere il discorso, non poteva parlare troppo di Bea a casa, anche se sentiva il bisogno di farlo: non voleva che sua moglie e il figlio minore si preoccupassero ancora di più per la ragazza, e non poteva scaricare su di loro i suoi problemi; erano la sua famiglia, ed era suo dovere proteggerli.
Il più giovane si trattenne dallo sbuffare, << Mi ha fatto chiamare solo per parlare di Beatrisa? >> chiese, ansioso di riportare la ragazza nell'angolino più remoto della sua mente e chiudercela dentro, a chiave, in modo da potersi concentrare su altro, su cose più importanti che stavano avvenendo, sulla vittoria che finalmente riusciva a intravedere di Leningrado su quei dannati bastardi dei tedeschi. Gli stessi tedeschi che gli avevano portato via quella ragazza; no, non riusciva proprio a segregarla ai margini dei suoi pensieri.
Boris scosse il capo, << Ovviamente no, ma pensavo che avrebbe potuto togliere un peso ad entrambi >> rispose, leggermente infastidito dalla domanda del ragazzo, ovviamente portava fede ai suoi impegni militari, come sapeva che avrebbe dovuto fare quando si era arruolato, parecchi anni addietro. << Volevo informarti che oggi avrà inizio l'operazione Neva II, sai già ciò che bisogna fare, vero? >>, ne avevano parlato talmente tante volte che la risposta del ragazzo non poteva che essere positiva.
<< E' un attacco molto pericoloso, Colonnello, siamo sicuri di poter rischiare così tanto? >>, però era un buon piano, questo doveva ammetterlo.
<< I tedeschi sono stremati, non si aspettavano che avremmo resistito così a lungo. Stiamo combattendo contro i loro rinforzi! Dobbiamo darci una mossa, se non vogliamo che arrivino dalla Germania armi ancora più potenti di quelle di cui dispongono adesso >> lo rimproverò l'altro. Bisognava essere svelti e risoluti con quelle decisioni.
Dimitri annuì, << Crede davvero che possa funzionare? D'accordo, per adesso siamo in vantaggio, ma chi dice che non sia solo una loro trappola per farcelo credere? >>, tento di protestare il tenente. Voleva davvero credere che stessero davvero per vincere quella guerra, ma combatteva da troppo tempo per farlo sul serio.
<< Dimitri, dobbiamo pur rischiare qualcosa se vogliamo definitivamente salvare Leningrado e cacciare i tedeschi >> fu l'unica risposta del Colonnello Generale. L'operazione Neva II aveva buone possibilità di riuscita, ma non era sicura. Dipendeva dai loro soldati, ma si contava soprattutto su quanto i nazisti fossero stanchi; se Leningrado avesse fallito quella mossa, probabilmente l'Unione Sovietica sarebbe stata facile preda della Germania, che l'avrebbe considerata un bersaglio facile. Non si poteva però più aspettare per mettere in atto quelle manovre militari: i loro nemici avrebbero potuto riprendersi, se aspettavano troppo, e inoltre stavano pianificando tutto quello da parecchio.
L'altro scrollò appena le spalle, non era alla guerra che stava pensando, suo malgrado, in quel momento. << Ha detto che tengono Bea come ostaggio, secondo lei >> cercò di introdurre il discorso, sebbene fosse stato il primo a non voler parlare della ragazza, appena una manciata di minuti prima, << cosa pensa che le succederà, se riuscissimo effettivamente a mandar via i tedeschi? Insomma a loro lei -deglutì a vuoto, e si passò una mano tra i capelli corvini, cercando le parole adatte per esprimere verbalmente i suoi timori- non servirebbe più >> riuscì a buttar fuori alla fine, anche se aveva già in mente un sacco di risposte che non gli avrebbe fatto piacere sentire.
Il Colonnello distolse lo sguardo dal ragazzo, << Suppongo che in quel caso dovremmo abituarci all'idea di non vederla mai più; avremmo già dovuto farlo. Le speranze non vivono, in questo periodo della storia, tenente >>, gli fece presente, iniziando a percorrere il perimetro della stanza a grandi passi, fermandosi accanto alla finestra. Si trattava pur sempre di sua figlia, la sua primogenita. Non era un ragazzo, ma era forte come un ragazzo: sia emotivamente che fisicamente, ed era ciò che suo padre adorava.
Il tenente Todorov guardò la schiena del suo superiore con uno sguardo di fuoco. << Come può parlare di lei così? >>
<< Così come? >>, non si girò per porgli questa domanda.
<< ... come se fosse già morta >>
<< Guarda, Todorov, sta nevicando, ancora. La Neva si solidificherà ancora: l'inverno non è mai stato d'aiuto all'Unione Sovietica come in questo momento; dobbiamo attaccare. Prendi tutte le armi che ci restano e avvisa i tuoi uomini, io parlerò con tutti gli altri >>, era il modo che aveva Boris Gurtsieva di mettere fine alle discussioni che non gli piacevano: dava ordini o sviava in qualcos'altro. Diede l'ultima boccata alla sua sigaretta, prima di spegnerla.
Dimitri sbuffò, << Come crede, Colonnello, ma non le assicuro una vittoria, questa volta >>, sbottò, uscendo velocemente dall'ufficio del suo superiore.
Sapeva accettare gli ordini, di buon grado, anche, ormai ci si era abituato, e dopotutto si trovava bene in quei posti. Prese un'altra sigaretta, dopotutto aveva finito da poco, era vero, ma doveva assolutamente scaricare il nervoso di quella giornata insostenibile. Ed era solo mattina. Riusciva a sentire le bombe, poco lontano: provocavano un rumore assordante e avrebbe dovuto stare attento a non prenderne una in testa. Gli mancava Bea, più ti quanto fosse mai successo in quei giorni, lei avrebbe saputo capirlo, ascoltarlo, gli avrebbe chiesto come si sentiva. Da quanto qualcosa non gli chiedeva come si sentiva? Ma stava bene, Dimitri Todorov si sentiva un vero uomo che combatteva per la propria patria e, in un certo senso, per la propria donna; cercava di star bene e di consolarsi come poteva. Non aveva mai detto che fosse facile, ma dopotutto non aveva mai creduto che quella vita lo sarebbe stata.
Forse c'era stato un tempo in cui qualche illusione se la faceva, un tempo in cui immaginava una vita felice in un soviet, nella quale Bea era sua moglie e avevano tre o quattro splendidi marmocchi tra i piedi. Dimitri sapeva che sarebbe stato un padre fantastico, ed aveva la convinzione che anche Bea sarebbe stata un'ottima madre. Aveva bisogno di stringere la ragazza, ma, se gli fosse andata bene, si sarebbe ritrovato al massimo con un molto affascinante fucile tra le mani, ed ancora più affascinanti uomini-biondi-e-dagli-occhi-azzurri in divisa davanti.


Leningrado, Unione Sovietica.
14 Gennaio 1944
19:43

Non so come riesco a trovare la forza di scriverti queste poche righe, Bea, sono davvero distrutto. Dal gelo e da tutto quello che sta succedendo qui.
I russi sembrano di colpo più preparati, hanno attaccato, questa mattina, eravamo impreparati e abbiamo perso un sacco di uomini. Fuori sento tutte le armi da fuoco che ci siamo orgogliosamente portati dalla Germania, sento odore di polvere da sparo e di sangue. Dicono che il sangue sia inodore, ma io riesco a sentirne la puzza; forse è solo la puzza di quello secco, ormai incrostato attorno alle ferite di molti, che si staranno infettando.
Io non riesco a sparare con la mano sinistra, non è un problema, ovviamente non sono mancino, ma brucia. Sarei rimasto a farmi curare un altro po' in quelle infermerie, ma è impossibile. Un attacco così forte e improvviso davvero non ce l'aspettavamo. Ho giusto due ore per dormire, insieme al gruppo con cui sono venuto qui, ma non riesco a non scriverti, mi fa sentire così bene e libero. Sei l'unica a cui potrò mai raccontare tutto ciò che sta succedendo qui, sinceramente, senza mentire; potrebbe esserci anche Walter, entrambi meritate di sapere gli orrori della guerra, anche se credo che per vostra fortuna i vostri rispettivi padri abbiano evitato di mentirvi, come invece è toccato a me. Chissà, forse se mia madre non fosse morta mio padre non mi avrebbe creato l'illusione di una vita militare perfetta.
Magari quando tornerò potrò consegnarti queste lettere di persona, anche se sono orribili e scarabocchiate su un vecchio quaderno scolastico. La cosa strana è che vi ho trovato vecchi appunti, sopra. Avevo una grafia molto buffa e più disordinata, potrei fartene leggere qualcuno: sono nozioni che avevo completamente dimenticato! Non ho idea di cosa studiate in Unione Sovietica, ma mi sono appena reso conto che stai perdendo del tempo scolastico, non che nel tuo paese avresti potuto studiare per bene, con la guerra in corso. Mi dispiace, in parte credo sia colpa mia, o almeno è colpa di quelli come me che hanno sostenuto la guerra per tutto questo tempo: non avevo la minima idea di ciò che stavo facendo, probabilmente.
Non ho idea di come considerarmi politicamente, adesso. Sono nazista, credo. La razza ariana è sempre superiore alle altre, credo, ma ormai non tanto: se fossimo stati davvero tanto superiori a quest'ora avremmo previsto l'attacco a sorpresa dell'Armata Rossa, non credi? Non mi piacciono gli ebrei, anche se in fondo a me non hanno fatto mai niente. Forse la guerra aiuta le persone a ragionare, Beatrisa, dovrebbe andarci un po' mio padre sul fronte, in questo caso, magari potrebbe essere finalmente ciò che lo convince a liberarti.
Forse non ne sarei così felice. Se tu fossi libera e in grado di scegliere, te ne andresti. Forse è la febbre a farmi parlare, ma non voglio che tu vada via, sei l'unica ragazza per cui provi qualcosa di diverso dalla pura e volgare attrazione fisica, Milde*. Non so perché continuo a scriverti queste lettere, perché ti sogno tanto spesso, ma sono sicuro di una cosa: ho bisogno della tua presenza in modo costante, al mio fianco. Non posso accettare che un giorno tu possa sparire dalla mia vita per sempre, farò di tutto perché questo non accada, farò di tutto per difenderti, perché proteggere te è come proteggere me stesso, dal quando dipendo da te.
Ho una folle paura che sia già troppo tardi, che quando tornerò a casa -sempre che io riesca a tornare a casa dopo questa guerra, mi sembra ovvio- tu non possa esserci già più. E allora sarà niente la febbre, il gelo dell'inverno tedesco, la ferita al braccio sinistro. Credo che potrebbe definitivamente andarsene un pezzo di me. Tu non hai idea di quanto vali, Beatrishka, non hai idea di quanto vali per me; proprio per questi motivi ho appena deciso che se anche riuscissi a tornare non leggerai mai questa lettera. Sto rinunciando alle ore di sonno per una lettera alla persona credo più importante della mia vita che non la riceverà mai, sembra una cosa stupida, ma per me non lo è, serve a me: serve per chiarirmi con me stesso, perché dopo tutto quello che è successo non avrei assolutamente idea di cosa fare, se non fingere che tu sia qui, fingere di parlarti, quando alla fine sto parlando da solo, sono solo. Le persone che sono nella mia stessa tenda stanno dormendo beatamente, ma io non ci riesco.
Vuoi sapere la verità su una cosa, Bea? L'ultimo giorno che sono stato lì avrei voluto davvero baciarti, avrei fatto di tutto per portare a compimento quell'atto, ma avevo paura, una dannata paura di essere rifiutato, perché avresti avuto tutti i motivi per rifiutarmi, Beatrisa Gurtsieva. Sei la ragazza più bella che abbia mai visto, anche quando sei ricoperta di lividi e graffi, emani una luce ed una orza che credo di non aver mai visto in nessuna persona al mondo, nemmeno in mia madre. Vorrei tanto poter passare tutta la mia vita con te, Bea, ma non posso; magari in un'altra vita, se fossimo due persone diverse, sarebbe una cosa accettabile. Forse se fossimo semplicemente noi, ma in un'altra epoca, ti avrei addirittura chiesto di provare a frequentarci. Avverto il bisogno della tua presenza, ma mi trovo costretto a lasciarti andare, ad accettare che forse un giorno verrai uccisa per mano mia. Dammi la forza di scappare da questo incubo, perché non ne posso più.
Non ho scelte a disposizione, ho esaurito le mie possibilità.
Sebbene non capisca esattamente cosa in questo momento stia provando per te, sappi che è grandissimo,

Mark Schreiber



Leningrado, Unione Sovietica.
17 Gennaio 1944
9:48

Ho un po' di tempo per scriverti, mia dolce Bea,
Sono bloccato in una brandina, una ferita alla gamba. E' ufficiale: odio il paese che ti ha messa al mondo, ragazzina. Non riesco più a credere nella guerra, ma credo anche che nessun russo possa spararmi addosso e colpirmi senza venire ucciso subito dopo. Ovviamente, non sono riuscito a farlo fuori, ma avrei potuto farlo, e mi rifarò appena sarò nuovamente in grado di correre: le infermiere dicono che ci vorrà del tempo, è una bella ferita, ma aspetterò.
Ad ogni modo, credo che morirò molto prima di guarire: ogni tanto viene qualcuno a parlarmi, qualche soldato che riesce ancora a farcela; i soldati tedeschi sono davvero in grossa inferiorità numerica, e i russi sembrano sempre più carichi, quasi stessero per vincere, e i nostri sono stanchi: io sono qui da poco, ma loro da anni, Bea, vogliono tornare dalle loro famiglie, vedono compagni morire e cadere molto più velocemente di quanto facciano i nostri avversari; e davvero la fine, hanno vinto. Hitler è un illuso a voler ancora cercare di annientare Stalin, non adesso: credo che l'Unione Sovietica sia un paese molto patriottico, mi piacerebbe visitarlo qualche volta, magari in circostanze diverse. Scommetto che ci sono un sacco di cose interessanti da vedere, non mi hai mai raccontato dove passavi le giornate qui, beh, immagino che sia perché non ho mai avuto il tatto di chiedertelo.
Ho davvero voglia di dormire, adesso, ma non potrei nemmeno se non ti stessi scrivendo: mi danno poca morfina e il dolore alla gamba è lancinante, nemmeno il braccio è messo tanto meglio. Le infermiere tedesche che arrivano dalla Germania sono brave, ma non portano molto con loro, nemmeno l'esperienza, per lo più sono giovani ragazze che hanno lasciato l'amore della loro vita in divisa, che partiva per il fronte qui, a Leningrado; arrivano qui e sperano di rivederlo, di incontrarlo, ma ormai i ragazzi in cui lo avevano riconosciuto sono morti. I russi invece hanno gli infermieri americani a loro completa disposizione.
Non mi piace combattere qui, ma mi piace ancor meno dover rimanere fermo in condizioni pietose, quando farei di tutto per un'oretta di sonno tranquillo. Riesco a sentire le urla, un qualche brandina non troppo distante, starà morendo qualcuno, capita spesso, ultimamente. Le urla dei moribondi e di quelli che necessitano di un'operazione riempiono le mie orecchie. Morire in fretta non sarebbe una cattiva idea, in effetti.
Non ho più paura, ormai. Prima ne avevo, credo di avertelo già scritto, di recente è sempre più difficile tenere a mente queste cose. Come ti dicevo, non ho più paura, quando vedi accadere le cose peggiori, riesci a non averne più, riesci a credere che se deve capitare anche a te capiterà e non puoi farci assolutamente niente: per quanto tu combatta, per quanto tu possa tentare di mettere in salva la tua vita e quella dei tuoi compagni, non potevi lottare contro il destino, è un avversario troppo forte.
Ormai scriverti è l'unica cosa che mi fa andare avanti: mi illudo che un giorno riuscirò a rivederti, magari potremmo andarcene in Canada. Canada, sì. E' un bel posto, almeno così dicono: ho fatto qualche ricerca; si parla francese e inglese; pensavo al Québec: ho studiato francese e non avrei problemi a parlarlo adesso. Sai, mia madre adorava il francese, me lo ripeteva sempre, quando ero piccolo; forse perché sua nonna era francese, non me lo spiegò mai bene, ma ero troppo piccolo, probabilmente anche se ci avesse provato non avrei capito assolutamente nulla.
Ci troveremmo bene a Montréal, Milde*, sarebbe divertente. Il Canada non è minimamente toccato dalla nostra guerra: per me, è un qualcosa che ci stiamo inventando perché i potenti giocano a battaglia navale e ci usano come pedine. Beh, io non mi sto per niente divertendo. Montréal è sicura, Bea! Nessuno cercherebbe di tenerti chiusa da qualche parte, e nessuno cercherebbe di uccidere me per aver tradito l'esercito tedesco. A nessuno importerebbe da dove veniamo, Beatrishka, ti rendi conto di quanto potrebbe essere bello?! Dopotutto non ci rimarrebbero altre soluzioni: se restiamo in Germania, tu morirai, se abbandono l'esercito, sarò io a morire. Non ne posso più di questa vita, Bea, e sono sicuro che non vada bene nemmeno a te, o mi sbaglio?
Forse non vuoi restare con me, e lo capirei benissimo, credimi, non ci sarebbe scelta più ovvia da parte tua, ma non mi hai respinto quella sera, prima che me ne andassi. Vorrei che scegliessi di rimanere con me, per sempre, ma sai meglio di me che sarà la cosa più difficile da realizzare. Se non mi vuoi, Bea, cercherò di farti fuggire dalla Germania: potresti andare via con Walter e la sua famiglia, il signor Hoffmann e un bravissimo medico e troverebbe facilmente lavoro ovunque, e tutta la famiglia non condivide le idee naziste. Sono certo che ti troveresti benissimo con loro, meglio di quanto possa trovarti con me, ad ogni modo. Gli Hoffmann ti adorerebbero, ne sono certo, e potresti tornare in Unione Sovietica quando vorresti.
Montréal è davvero un bel posto, spero che deciderai di rimanere con me, se mai riuscirò a tornare lì, da te.
Cercherò di dormire, adesso, voglio essere pronto per la mia morte.
Spero di rivederti, nonostante tutto,

Mark Schreiber


Weimar, Germania.
27 Gennaio 1944
18:21

Mark tossì piano, cercando di rigirarsi nel letto, tra le coperte completamente bianche, aveva la gola secca e stava morendo di sete, ma non riusciva ad aprire gli occhi. Il suo cervello non connetteva molto, ma doveva aver dormito. Chissà quant'era stato lungo quel sogno da permettergli di sognare tutta una guerra. Gli era sembrato tutto così reale che, mentre cercava di aprire gli occhi e di articolare la voce, credeva di essere ancora sul fronte, a combattere contro i russi, eppure sotto di sé avvertiva un materasso, non troppo morbido, ma era pur sempre qualcosa di tremendamente confortevole paragonato ai ricordi di quel orrendo sogno sulla guerra che aveva fatto. Le sue narici erano invase da uno strano odore di disinfettante, era terribile ed insopportabile.
<< Ehi, finalmente ti stai svegliando >>, era un mormorio come se quella voce tremendamente familiare cercasse di non svegliarlo, pur volendo farlo. Non riusciva a capire a chi appartenesse, ma gli pareva di non sentirlo da troppo tempo. Non riusciva a collegare ad essa nessun volto. Cercò ancora di aprire gli occhi, ma le palpebre erano pesanti: avrebbe tanto voluto dormire un altro po'. Sorrise, anche se tirare gli angoli delle labbra verso l'alto era uno sforzo tremendo: era Walter, era lì di fronte a lui ed era in piedi.
Walter Hoffmann si aprì un un enorme sorriso, appena vide il suo migliore amico aprire gli occhi, << Potevi prendertela comoda un altro po', mi hai fatto aspettare solo tre giorni, non preoccuparti >> lo prese allegramente in giro, con quel tono che utilizzava troppo spesso, e che a Mark sembrava essere mancato così tanto, come se non avesse l'onore di ascoltarlo da giorni e giorni, ma questo non era possibile.
Il caporale tentò di tirarsi a sedere, ma non vi riuscì: la gamba destra gli tirava in una maniera spaventosa, ed non muoveva troppo bene il braccio sinistri, gli faceva male come se vi avesse dormito sopra tutta la notte. << Tre giorni? >> chiese confuso, trovandosi costretto a appoggiare nuovamente il capo al cuscino, osservano l'amico seduto su una sedia accanto al suo letto. Si guardò intorno per un momento: era tutto bianco, il soffitto, le pareti: era su un lettino strano, e c'era un'altra fila di lettini strani, lo conosceva, quello: l'ospedale di Weimar, ci era già stato una volta, quando Walter si era rotto il braccio, a lui incidenti del genere capitavano, ma suo padre non aveva mai tempo di portarlo in ospedale, ci pensava il signor Hoffmann a casa sua. << Perché sono qui? >> chiese ancora, senza dare tempo al suo migliore amico di rispondere.
Il giovane dagli occhi azzurri sorrise, sembrava divertito e probabilmente lo era sul serio: Walter trovava sempre un modo di divertirsi, in praticamente tutte le situazioni possibili ed immaginabili, soprattutto quelle meno opportune; questa era una delle tante cose che non capiva del suo migliore amico, come il fatto che riuscisse a dormire ovunque. << Davvero non ti ricordi niente? Beh, in questo caso, congratulazioni, sergente >>, rispose, con sarcasmo, prendendo una medaglia dalla spalliera in ferro del letto d'ospedale dove era finito Mark e lanciandola sul petto di quest'ultimo.
<< Sergente? >>
<< Il ventidue gennaio le nostre truppe hanno iniziato a ritirarsi dalla Germania; tu sei stato portato un veicolo mobile perché ancora ferito gravemente ad una gambe. Beh, congratulazioni, durante quel viaggio -uno dei più sicuri per la ritirata- ti sei preso un'altra bella pallottola nella stessa gamba ed hai battuto la testa. Ti hanno ricoverato qui appena tornato in Germania >> spiegò, osservando il suo migliore amico con quegli occhi così chiari, quasi fieri ed orgogliosi di lui, sebbene non fosse un sostenitore della guerra. Neanche un po'.
Mark ascoltò tutto ad occhi chiusi, con la testa sprofondata nel comodo cuscino, quasi senza respirare, tanto da dare l'impressione a Walter che si fosse riaddormentato. << Quindi non ho sognato tutto quello che è successo >>, sospirò, parlando più con se stesso che con il ragazzo seduto accanto al suo letto. La prima cosa che gli venne in mente fu Bea: non era una bella notizia, se era stato via così tanto tempo potevano essere accadute cose orribili a quella ragazza. Aprì lentamente gli occhi, << Quindi adesso sono un sergente? >> chiese, cercando di essere allegro della cosa, nonostante non vedesse l'ora di tornare al campo di concentramento, per vedere lei.
Walter Hoffmann rise, << Sembra proprio di sì. Wow, hai fatto carriera in così poco tempo: Hitler sarebbe fiero di avere nazisti così pronti a rischiare per la Germania nell'SS >>, lo prese ancora in giro, ma non gli sfuggì la smorfia di fastidio che si era appena dipinta sul volto del ragazzo disteso sul letto: era un acuto osservatore, lui. << Cosa c'è che non va? >> chiese, poco dopo.
Il sergente scosse il capo in risposta. << Nulla, è solo che la guerra non è un'esperienza che vorrei ripetere: ho sbagliato a desiderare così ardentemente di andare a combattere per delle idee non mie >> rispose, abbassando lo sguardo. Non era solo quello: era qualcosa di più importante e più serio; era il totale sconvolgimento delle sue idee, dei suoi ideali, delle sue opinioni, ma non era ancora pronto a dirlo a qualcuno. Voleva solo vedere Bea.
Hoffmann annuì, << Finalmente l'hai capito >> scherzò ancora, osservando il suo migliore amico. << Come ti senti, la gamba fa molto male? >>, si preoccupava per lui, lo aveva sempre fatto e aveva buoni motivi: non c'era mai stato nessuno oltre lui che si preoccupasse per quel ragazzo dai così teneri occhi nocciola. Non poteva non volergli bene.
L'altro scrollò appena le spalle, << Mi da un po' fastidio, ma non è una cosa seria >> disse: forse cercava semplicemente di auto illudersi: se stava bene con la gamba voleva dire che poteva tornare presto a casa e quindi rivedere Bea, gli mancava sul serio, e soprattutto voleva sapere se era ancora viva e cosa gli avevano fatto. Ricordava come la trovava quando ancora non si prendeva cura di lei. << Dov'è mio padre? >> chiese, qualche minuto dopo. Non l'aveva visto, quando si era svegliato, e pensava che forse, forse sarebbe stato fiero di lui, vedendo la medaglia.
Il suo migliore amico scrollò appena le spalle, cercando un soggetto che lo imbarazzasse di meno da ammirare, << Beh, credo che sia molto impegnato al campo, sai com'è fatto: ci tiene al suo lavoro >> disse, cercando di distogliere dalla realtà almeno il suo migliore amico: non era il caso che in quelle condizioni pensasse che sì, forse suo padre non ci teneva a vederlo nemmeno quando non si svegliava per due giorni consecutivi, appena tornato dal fronte in Unione Sovietica.
Ovviamente il ragazzo non si era preparato una buona scusa e Mark non gli aveva creduto nemmeno un po': beh, era ovvio; suo padre non si era mai presentato per qualcosa che lo riguardasse, perché avrebbe dovuto fare un'eccezione, quella volta? Perché aveva fatto tutto quello in modo che un giorno fosse fiero di lui? Beh, tanto non serviva a molto. << Certo, Walter, grazie >> cercò di essere abbastanza convincente, ma sorrise davvero in modo sincero al suo migliore amico. << Sei andato a trovare lei? Sai come sta? >>, chiese ancora, cercando di portare il discorso sull'argomento che gli interessava di più.
Il ragazzo dagli occhi azzurri lo osservò, << Non l'ho mai vista, non mi permettevano di entrare quando tu non c'eri, dopotutto non potevo presentare nessuna scusa >> iniziò a dire, passandosi una mano tra i capelli biondi e sedendosi meglio su quella sedia scomoda tipica degli ospedali. << Però ho chiesto notizie a mio padre, di tanto in tanto: è viva, non è messa troppo bene ma è viva, presenta ferite profonde, ma lui può curarla solo quel tanto da permetterle di sopravvivere >> aggiunse, per non farlo spaventare troppo: aveva capito fin troppo bene quanto l'amico tenesse a quella ragazza, purtroppo.
Mark strinse i denti, cercando di resistere, eppure non riusciva a non pensare che quei bastardi avevano osato toccarla: li avrebbe uccisi uno ad uno molto volentieri, ma ne andava della vita di entrambi; doveva trovare il modo di andarsene da quell'ospedale il più presto possibile: ormai Bea non serviva più ai tedeschi per i loro piani contro Leningrado e c'erano davvero poche possibilità che non la uccidessero perché ormai priva di alcuno scopo, lì dentro. << Come sta la mia gamba? E' il caso che torni presto, mio padre sarà felice di vedere la medaglia ed il mio grado passato a sergente >> disse, cercando di alzarsi, ma senza alcun risultato.
Walter fece una leggera smorfia ed ignorò completamente la sua domanda: sapeva che il vero scopo non era mostrare la medaglia al suo padre, ma correre dalla deportata, e lui avrebbe sicuramente aiutato il suo migliore amico a realizzare questo desiderio, se gliene avesse parlato per bene, una volta tanto. Di solito era così bravo a far deviare il discorso su un altro argomento, ma questa volta era sicuro di ciò che diceva. << Quando sei arrivato all'ospedale avevi uno zaino con te ...>>
Il sergente spalancò gli occhi, d'un tratto preoccupato: c'era tutto ciò che aveva con sé durante la guerra, in quello zaino, non ci aveva minimamente pensato per tutto il tempo. << Walter, ti prego, dimmi che gli infermieri l'hanno tenuto con loro in attesa che mi riprendessi >> riuscì a dire, guardandolo supplicante, ancora preda di quell'espressione impaurita: se qualcuno avesse saputo ciò che provava per Bea, sarebbe stata ancora una volta la fine per entrambi.
Hoffmann scosse appena il capo, << No, però l'ho ottenuto io prima che potesse chiedere di mandarlo a tuo padre >> cercò di tranquillizzarlo il ragazzo, che capiva benissimo le sue paure. << L'ho aperto, ci ho scavato un po' dentro e... senti, lasciamo perdere la versione lunga delle mie "scuse" per aver invaso i tuoi spazi, ho letto quelle lettere >>, buttò giù, tutto d'un fiato: il figlio del medico non era mai stato bravo a prepararsi dei discorsi, lui adorava improvvisare e non sempre era una buona idea, ma si trattava del suo migliore amico, quindi tanto valeva tentare.
Il sergente aprì la bocca, per urlare, per aggredirlo, per accusarlo di essere stato un idiota, perché quelle erano le sue cose e lui non aveva nessun diritto di spiare nei suoi pensieri e nel suo cuore, ma fortunatamente un'infermiera entrò nella sala, salvando un'amicizia che durava da tutta una vita, avvicinandosi al letto di Mark, << Oh, si è svegliato. Come si sente? Sono qui per un'altra dose di morfina >> si annunciò la donna, mentre velocemente adempiva al suo compito.
Mark strinse i denti, << Sto bene >> sillabò, anche se avvertiva la gamba andargli a fuoco. Non sentiva troppo dolore al braccio, fortunatamente, ma nel complesso si considerava fortunato: era sopravvissuto.
Appena la donna andò via, Walter lo osservò. << Scusa >>
L'altro scosse il capo, << Non è questione di scuse, lo sai >> rispose, senza aggiungere troppe cose. Era sempre stato un tipo permaloso, ed il suo migliore amico lo sapeva, se la prendeva quasi per tutto, ed era difficile convincerlo a fare pace, ma quella era una cosa troppo seria, ed entrambi non volevano rinunciare. Schreiber dal canto suo sapeva però che nn avrebbe avuto alcun senso tenere il muso a Walter: ormai aveva letto quelle lettere, non si poteva tornare indietro nel tempo per impedirglielo, non aveva alcun senso fare l'offeso, non avrebbe cambiato niente, in quel momento, quindi fece in modo di incontrare gli occhi azzurri dell'amico con i propri. << Scuse accettate. Per questa volta>>
Hoffmann sorrise, felice di averla scampata, per una volta. << Adesso però devi essere sincero, Mark: cosa provi per lei? >>, era serio come non si era mai visto, quella era una importante: il ragazzo che ora giaceva nel letto non aveva mai dato segni di provare quei sentimenti per nessuna ragazza, era una novità assurda per chiunque lo conoscesse almeno un po'.
Schreiber si passò una mano tra i capelli. << Non lo so, Walter. Mi manca, quando non c'è, sento il bisogno di vederla, di sfiorarla, di baciarla... ho paura che le facciano del male, ma non posso averla. Devo metterla al sicuro, non posso fare altro, e già facendo questo rischio tantissimo >> sospirò il ragazzo, abbassando lo sguardo. << Non ho la minima idea di come aiutarla ad andarsene da questo posto, e non voglio che se ne vada >> aggiunse, afflitto.
I pensieri del suo migliore amico erano qualcosa di molto vicino al "dev'essere stata la morfina a farlo parlare, non si è mai aperto così tanto". Annuì, mentre lo ascoltava. << Credo che tu ne sia innamorato, ma è un sentimento insano, lo sai anche tu che non porterà a nulla di buono >> lo mise in guardia.
<< Fammi il piacere; l'amore è una cosa stupida >> sbottò Mark, anche se gli si dipinse un sorriso sul volto, che sapeva di dolcezza e tenerezza, al solo pensare che potesse provare amore per la ragazza russa. Ovviamente tentò di reprimere, di uccidere quel sorriso, ma vi riuscì solo in parte. Non vedeva l'ora di guarire e quindi tornare a casa da lei; perché lei lo faceva stare bene.


* Milde = Dolcezza, figurativo. (tedesco)


Mi stancherei, non crederei più a niente;
Ma poi c'è lei inaspettatamente
e certe volte non ci credo che è vera
tanto che non vedo l'ora che arrivi la sera
quando mi toglie i guantoni e mi cuce le ferite,
sorride ai problemi e dice che finché stiamo insieme
lei è felice;
e io finisco anche al tappeto, altroché,
 ma questa vita un po' la cambio
se quando torno ad aspettarmi trovo te,
io la mia casa la difendo
e si può credere alle favole anche se
fai a pugni con il mondo...
[A pugni con il mondo -Articolo 31]
   
 
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