Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Ukeboy    17/10/2011    0 recensioni
"Almost Heaven, West Virginia... Blue Ridge Mountains..." sussurri timidi, rivolti al cielo blu, macchiato di tanto in tanto da qualche spruzzata di bianco. Erba verde, fresca e morbida sotto di me, steso in quell'infinità così semplice. Io, l'acqua, ed i pensieri.
Un piccolo quaderno vicino al mio fianco sfogliava con il vento qualche pagina un po' ingiallita, odorosa degli anni passati e con alcuni fogli quasi sigillati, saldamente incollati tra loro. Ricordi scritti di getto, quasi di rabbia, senza pensare davvero di essere solo davanti un foglio, con una penna in mano. Sentimenti agitati dal tempo e dagli eventi, trascinati da questa o quella parte per far comodo a frettolose vite troppo dolorose per essere vissute con calma. Ho letto e riletto centomila volte quelle parole, quelle pagine, cercando di ritrovare il me stesso che le ha scritte.
Tempi dimenticati e pensieri lasciati puri, incontaminati.

L'amore è la saggezza dello sciocco e la follia del saggio.
{Samuel Johnson}
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Siamo un passo di troppo.
Abituati come siamo a perderci nei nostri pensieri, ci ritroviamo di minuto in minuto, di ora in ora, di giorno in giorno ad assecondare il volere di quelle emozioni lontane, distaccate, opprimenti e senza senso che spengono i desideri dentro le esistenze più fragili, ai limiti della solitudine e di quella grave consapevolezza di dover fare dei compromessi con il mondo.
Per vivere.
Sopravvivere agli eventi. 
Abituati come siamo a vivere le nostre vite come repliche di film d'adolescenti sognanti... noi che nelle nostre visioni fumose perdiamo giornate intere, stringendoci il cuore mentre ci avviciniamo tremanti a quelle verità intorno cui il mondo si concentra, girando sempre più veloce a mano a mano che la punta delle nostre dita sfiora la superficie di quelle sensazioni possessive...
 
Amore. Paura. Dolore. Felicità. Tranquillità.
 
Il rumore dell'acqua vicina, simile a tante piccole bolle scoppiate, sembrava essere l'unico suono a cui era stato dato il permesso di esistere. Non cinguettii, né cicaleggi, men che meno passi o fastidiose interruzioni di quel pacifico silenzio d'altri tempi, d'altri luoghi. Posti risparmiati dal progresso solo grazie alla loro estrema vicinanza al sole ed alle nuvole.
 
«Almost Heaven, West Virginia... Blue Ridge Mountains...» sussurri timidi, rivolti al cielo blu, macchiato di tanto in tanto da qualche spruzzata di bianco. Erba verde, fresca e morbida sotto di me, steso in quell'infinità così semplice. Io, l'acqua, ed i pensieri. 
 
Un piccolo quaderno vicino al mio fianco sfogliava con il vento qualche pagina un po' ingiallita, odorosa degli anni passati e con alcuni fogli quasi sigillati, saldamente incollati tra loro. Ricordi scritti di getto, quasi di rabbia, senza pensare davvero di essere solo davanti un foglio, con una penna in mano. Sentimenti agitati dal tempo e dagli eventi, trascinati da questa o quella parte per far comodo a frettolose vite troppo dolorose per essere vissute con calma. Ho letto e riletto centomila volte quelle parole, quelle pagine, cercando di ritrovare il me stesso che le ha scritte. 
Tempi dimenticati e pensieri lasciati puri, incontaminati.
Ero destinato a tutto questo, evidentemente.
 
La prima data che trovai scritta in alto a sinistra, sulla primissima pagina del quaderno, riportava uno scarabocchiato "12 Giugno 1983" con una matita molto scura... i vari segni intorno - stelline, faccine sorridenti, cerchietti e altri disegnini vari - facevano capire quanto avessi aspettato prima di riuscire a scrivere qualcosa di serio. Era anche normale, voglio dire. Il motivo per cui iniziai quel diario fu, sostanzialmente, per avere qualcosa di cui il mio ego avrebbe potuto cibarsi nei secoli a venire, in modo da sentirmi più profondo e figo a tenere un diario "segreto" su cui scrivere qualcosa giornalmente, o abbastanza spesso, tipo Anna Frank o i soliti nomoni del caso. 
Il problema principale risiedeva, però, nel fatto che io non avevo mai avuto l'impulso di scrivere quello che mi succedeva ogni giorno, né riuscivo a tenerlo a mente abbastanza bene e a lungo da convincermi a scriverlo su dei fogli... finii dopo appena due righe del primo giorno con l'inventare, facendolo diventare l'abitudine. 
Di volta in volta, sempre più spesso, aprivo il quaderno per inventare quello che volevo succedesse, mischiandolo con quello che in realtà era successo. Passai presto dall'avere un diario, ad avere diversi quaderni pieni di pezzi di storie o addirittura storie intere e poesie. 
Un diario vero e proprio cominciai ad averlo solo dopo un anno, e lo aggiornavo solo per eventi di entità degna di nota, tipo le mie prime volte con il mio "compagno di giochi" d'infanzia. Storie - o forse dovrei dire sbagli - infantili.
Appena fu possibile mi trasferii a Roma, con la speranza di riuscire a frequentare i corsi di sceneggiatura a Cinecittà, di cui avevo tanto sentito parlare dalla mia amica a Bologna, la quale lavorava in un'agenzia cinematografica. Mi immaginavo già, appena finito di studiare, pronto a raggiungerla in quella immensa metropoli che credevo fosse la città in cui viveva, e speravo di poter vivere. 
Pensavo funzionasse così al tempo: se avevi agganci e amici in un certo settore, avevi il posto assicurato, e una pensione che ti aspettava facendo il minimo indispensabile per essere tenuto in regola. 
Anzi... a pensarci bene... non sono sicuro la cosa sia cambiata, a vent'anni di distanza.
Facciamo che non è cambiata, no.
 
Con il passare del tempo, prevedibilmente, nel mio diario cominciai a mano a mano a sfogare i miei più nascosti desideri: amori, passioni, frustrazioni, solitudine, paure, allegrie, pensieri suicidi. Le pagine, da storie fantasiose su amori impossibili e fantasie erotiche, divennero piano piano sempre più simili a cronache di una persona che ero io... ma non ero io, e neanche un mio amico. 
Un me con una penna impietosa in mano che, giorno per giorno, faceva fuori uno o due sogni, prima di mettersi a dormire.
 
Quella persona, era evidentemente illusa e delusa dalla vita. Nonostante il lavoro assicurato, le sue discrete abilità da scrittore e una casa di parenti nella capitale e, dunque, con il discorso "crisi" fuori dalle palle, il mondo sembrava avercela con lui perché aveva la possibilità di non annaspare tra bollette da pagare, spese extra per far fronte ai rincari, e spese insostenibili e proibitive per l'università del proprio figlio, tutte cose che invece i genitori di quel povero imbecille si erano dovuti subire, con i relativi pianti e disperazioni di un po' tutta la famiglia che, essendo di un paese quasi sconosciuto e bastardo (d'origine... almeno in teoria) del Molise aveva un'insana tendenza al prendere la melodrammaticità napoletana e mischiarla alla schiettezza pugliese e calabrese: sostanzialmente, un mix letale per l'autostima di un ragazzino di quindici anni. Inoltre i sensi di colpa ed il peso scaricato sugli studi di quel giovane simpaticone che a volte, ora, scriveva affranto e frustrato "vorrei non vedere il sole, domani" fu talmente grande che in quarto superiore smise di farsi piacere qualunque materia, anche se questa gli interessava. 
Cominciò a scrivere decine di storie, poesie, canzoni, pensieri... anche senza senso. Le scriveva ovunque: a volte sui fogli, a volte sui quaderni, a volte sul retro di una foto, sui cartoni dei cereali... era una specie di mania compulsiva, credo. Scriveva tutto di getto, senza neanche leggere quello che scarabocchiava, e lasciava tutto sui tavoli, scappando, quasi dimenticandosi di aver appena scritto qualcosa che probabilmente nella sua testa vagava disperso tra un'uscita con qualche raro "amico" e i versi di qualche poesia letta per caso sui libri di scuola, o sui libri della biblioteca vicino scuola. 
Per lui l'importante era scrivere. Non importa se poche ore dopo aver lasciato sul tavolo della cucina una poesia profondamente deprimente scritta sul cartone dei cereali, veniva commentato dai suoi genitori con cose come "Ma vuò smettèr e' pensàr a 'ste cazzàt e impegnàrt a scuolà?" e altri commenti particolarmente costruttivi come "bella merda" del sempreverde Giovanni, suo, e purtroppo anche mio padre. Figure che ti spronano, assolutamente. 
Ti tolgono pure la voglia di respirare.
Tuttavia, nonostante tutto questo casino immenso della mia adolescenza più tranquilla, mi ero comunque riempito di sogni e, almeno le prime settimane a Roma, uscito da qualche mese da un classico con un settantadue preso a colpi di citazioni di Pasolini e Svevo, moltiplicarono quei sogni per cento. 
La vita però è, evidentemente, imprevedibile - per non dire stronza - e come ho detto prima, il mondo sembrava odiare oltremodo la mia felicità futura assicurata.
 
Il mio vero e proprio inferno cominciò nell'Ottobre del 1987, il quale fece implodere con dei botti immensi un paio di speranze trascinate a forza fino a Roma, finendo per disintegrare a Dicembre gran parte di quel piccolo Eden sognante che avevo costruito come difesa alla desolazione dell'adolescenza. Fu proprio a Dicembre, neanche due mesi dopo quella fottutissima caduta della borsa di New York e lo scoppio dappertutto di proteste per ogni classe di lavoratori, con la bufera politica italiana nel pieno della sua distruzione e notizie di guerre e tensioni ovunque, che conobbi il significato di una vita "casa e lavoro". 
In realtà... conobbi anche l'esistenza di due stati come l'Iran e l'Iraq, i quali prima di quell'anno avevo letto per caso su un atlante, o visto su qualche foto e letto qualche riga in proposito sui libri di geografia. 
Sembrava, infatti, che proprio l'Italia, uno dei paesi da sempre più impediti nell'affrontare decentemente una guerra, fosse in parte causa della faida infinita tra i due "Fratelli", come avevano preso via a chiamare Iraq ed Iran i telegiornali. Era così, con il traffico di armi sottobanco e la produzione di mine antiuomo, che le mie speranze di vedere un nuovo mondo riaffiorarono. Vidi la nascita e la crescita di un movimento pacifista che non avevo mai creduto esistente, o addirittura possibile, in uno stato come l'Italia. 
Il panico di questi figli dei fiori in ritardo coi tempi, insieme agli ambientalisti anti-nucleare, erano ormai diventati la causa delle orde sempre più infinite di persone incazzate e frustrate, senza niente da fare, che riempivano ogni strada, binario, edificio di ogni città in cui potevano essere notati. Rileggendo il diario, qualche giorno fa, ho trovato uno scarabocchio molto breve sul 23 Gennaio 1988.
 
Oggi sono sceso per la prima volta a protestare, ed ho fatto un casino immenso a Piazza di Spagna. Questi stronzi prima o poi lo capiranno che siamo di troppo in questa guerra?
 
P.S. hai lasciato le melanzane nel forno, yuppie, quando hai finito la doccia leggi questo e valle a tirare fuori. 
 
La prima reazione che ebbi leggendo quelle pochissime parole fu un misto d'ironia, profondo disgusto per la superficialità dei pensieri, e ammirazione per quella specie di inconsapevole sdoppiamento di personalità. 
Lo yuppie contro l'hippie, il comunista contro il capitalista, l'affranto esponente ritardatario della Beat Generation italiana contro il consumista americano ed europeo, amante della musica leggera e della poesia semplice e frivola. 
Un cameo di coglioni, tutti dentro un enorme armadio di complessi mentali, insomma.
Un'altra pagina, quella dopo, sembrava scritta da un'altra persona ancora. Era ormai un crescendo di frustrazione e delusione, quasi insopportabile.
 
27 Febbraio 1988
 
Ormai credo lo sceneggiatore sia soltanto un sogno che guarderò da lontano, da vecchio, se mai arriverò ad esserlo. Stavo pensando che possiamo buttarci nella politica, che mi consumerà nel giro di pochi anni e mi renderà inutile, relegandomi a qualche lavoro molto più noioso di questo. Magari risolverà anche il nostro piccolo problema, sapete quello del fatto che non dovreste esistere, o meglio... del fatto che voi non esistete. 
Tanto presto o tardi vi faccio sparire anche da qua dentro.
 
Se lavoro in questo modo, magari almeno eviterò anche di pensare che non ho mai avuto abbastanza tempo per conoscere meglio le persone, e che queste persone non hanno mai avuto abbastanza tempo per me.
Nel tempo libero, mio caro Johnny Guitar, ammazzati. Mi piace se lo fai soffrendo e cantando qualcosa di indie.
 
P.S. ricordati domani di ridare il libro a Stefania
 
Ricordo ancora che quell'anno lì, nel 1988 o giù da quelle parti, smisi quasi totalmente di usare la cartina di Roma per orientarmi: mi bastava guardare il Tg e sentire i vari cortei organizzati da questa o quella associazione, e seguirli pacificamente dalla distanza - sopratutto per evitare di essere scambiati per "infiltrati" - e arrivare nei vari posti in cui le persone normali, o presunte tali, ancora riuscivano a lavorare per cercare di mettere via qualche soldo per l'università, un sogno che stava diventando qualcosa di proibito nella mia visione delle cose. 
Nell'Aprile del 1988, finalmente, con una sottospecie di calma politica ritrovata, e una calma interiore ancora da cercare, cominciai a chiarirmi le idee sulla situazione politica italiana: ero ormai militante politico in associazioni ridicole, mi ero anche iscritto alla Federazione Giovanile dei Comunisti Italiani ed ero vicino a numerose organizzazioni pseudo-anarchiche, che continuavano a tentare d'ingrandire il numero dei propri iscritti raccogliendo gli individui più sbandati, provenienti dai resti di un'estrema sinistra che si vedeva bersagliata dalle accuse di terrorismo legate alle Brigate Rosse, dalla crisi del Psi, e dalla serietà e lealtà praticamente nulle che vi erano dentro quei buchi claustrofobici, rimasugli di morale e spirito di giustizia, chiamati più semplicemente "Partiti", forse per dargli un nome e ridicolizzarli per bene. 
Compresi lentamente la merda incredibile in cui stavamo sprofondando nella politica e nell'economia, ormai divorata dalla crisi che avanzava, apparentemente inarrestabile, la quale continuava a macinare e masticare le briciole dei soldi dello Stato, già ridotte ben al di sotto delle possibilità italiane, e del debito pubblico che saliva come un razzo verso valori incomprensibili ai più.
Fu più o meno così, tra tasse insopportabili, tagli a destra e a manca, manifestazioni continue, proteste, scioperi, scissioni sindacali e qualche altra divertente rottura di coglioni in cui mi ritrovai, che sfruttai, nel Settembre dell'89, l'unico spiraglio abbastanza grande che ebbi per iscrivermi all'università. 
Cinecittà e la possibilità di realizzare quel sogno proibito di ormai un anno e mezzo prima sembravano essere ora a portata di mano, così che provai a sparare quell'unico colpo che avevo.
 
La pagina del 19 Settembre 1989, credo il giorno prima dell'inizio delle lezioni, era stata bagnata da qualcosa vicino all'angolo sinistro del foglio, così che alcune parole erano state lavate via, e ridotte a macchie bluastre informi.
 
Domani iniziano finalmente le lezioni... mi sono fatto dare qualche soldo dagli zii, ho comprato un paio di magliette e camicie... spero bastino per variare un po' ed evitare di essere bollato come "barbone comunista" o quelle cose che di solito la gente normale dice, credo anche di prepararmi a risolvere il problema con le mie personalità... le cose ormai sembra... così che... maga... sì che poi pot... [...] e in ogni caso sono pronto per questa cosa, comunque vada... spero solo di vederlo di nuovo, sopratutto ora che sono uscito da tutti quei partiti e coglioncelli vari. 
 
Mi sono guardato allo specchio stasera, e mi sono lavato via la pece della politica che ho seguito ultimamente, forse tornando ai miei ideali da innocente bambino, plasmati - o forse sarebbe meglio dire "avvelenati" - dallo schifo che ho ormai conosciuto, senza neanche stare troppo vicino alla politica.
 
P.S. la lavatrice, spegnila quando hai finito di lavare, che cazzo.
 
I risparmi di un anno e mezzo di lavoro, i quali si aggiravano intorno ai cinque milioni - lira più, lira meno - se ne andarono, senza neanche salutare, con l'iscrizione al primo anno. Mi ritrovai di nuovo, in parte, sulle spalle dei miei genitori, che nel frattempo erano stati toccati e infettati dalla crisi, con il licenziamento di mio padre dalla fabbrica dove lavorava, e la sua fulminea e fortunata sistemazione in una modesta bottega di falegnameria, insieme ad una vecchia conoscenza che aveva abbandonato il lavoro in fabbrica per darsi al mobilio.
Anche mamma aveva cominciato a lavorare. Faceva la sarta e la donna delle pulizie. Mi mandavano duecentomila lire al mese, scusandosi in ogni lettera come se fosse colpa loro.
I sensi di colpa tornarono presto a divorare il mio corpo, reso ormai anoressico dallo stress e dalla mancanza di una compagnia abbastanza stabile da spronarmi a mangiare e vivere in maniera degna. I miei capelli castani cominciarono a tendere al biondo, i miei occhi nocciola iniziarono a diventare pallide imitazioni di marrone ed il viso, già di suo irregolare negli zigomi e nella mascella, era ora un festival di spigoli e smussature, tanto da farmi sembrare un malato terminale. C'era chi mi chiedeva se avessi l'AIDS, quando mi conoscevano. Se non mi conoscevano, preferivano non farlo, e si tenevano a debita distanza.
Ridevo, ricordo. 
Ridevo e speravo di beccarmi un giorno questa famosa AIDS che tutti dicevano portare a morte certa. Almeno nessuno avrebbe avuto niente da ridire, no? Non potevo neanche permettermi il suicidio con le sigarette, dopotutto...
 
«Spero solo di vederlo di nuovo» mi leccai le labbra a ripensarci, continuando a guardare il cielo, inspiegabilmente calmo mentre io ripercorrevo la mia vita come quella di un altro: un pazzo, nevrotico, sconvolto da eventi fin troppo più grandi di lui, già di per sé troppo ampio per la sua stessa personalità.
 
Nell'89, dicevo, cominciò il periodo dell'università: furono i tre anni più stressanti, e tuttavia più soddisfacenti della mia vita. Dividevo il lavoro dallo studio con una facilità impressionante, ritrovandomi addirittura del tempo libero che usavo per continuare a studiare le direttive su come lavorare in team e come rapportarsi al mercato. Se non fosse stato per Manuele, sarei caduto ben presto in una spirale d'interesse per il business. Era magnetico. Così come lui, maledetto idiota attivista e convinto nullafacente, alla nobile età di ventidue anni.
Tentai con tutto me stesso - mettendoci anche più di quanto credessi possibile dalle mie capacità - di rimanere al pari con il corso: impresa fallita miseramente, in quanto appena dopo quei famosi tre anni dopo l'inizio dell'università, in un altro Dicembre - mese che ho imparato ormai ad odiare - dovetti preoccuparmi in tutti i modi di tenermi il lavoro, per quanto merdoso fosse (dipendente di un'impresa di pulizie e restauro) e per quanto di settimana in settimana gli orari diventassero sempre più proibitivi e sfiancanti: dalle sei ore al giorno, solite, si passò alle otto senza straordinari, poi alle dieci con straordinari pagati in buoni benzina - utili, contando che non avevo una macchina né una moto - alle dieci ore, più straordinari quasi obbligatori a causa della riduzione dello stipendio, ma pagati almeno in contanti. 
Rischiai il licenziamento almeno un paio di volte, e la depressione post-abbandono università mi avviluppò, riducendomi ad un caldo e triste pomeriggio di Maggio, ad un anno di distanza dall'abbandono universitario, nella vasca da bagno. Era un po' come ne "Le Vergini Suicide", che avevo letto qualche mese prima, rimanendone affascinato. Ne lessi anche alcuni capitoli proprio insieme Manuele, che ne rise di gusto, facendomi trovare ridicola tutta quanta la cosa.
In effetti mi sentivo ridicolo dentro quella ceramica smaltata, con una lametta in mano, circondato da acqua e sapone a chili, con l'odore della primavera fuori dalle finestre, e lo squallidume del bagno dalle pareti piene di macchiette nere di muffa intorno a me. Stava diventando un po' troppo grunge il tutto, e a me i Nirvana non erano proprio piaciuti.
 
Manuele entrò in casa tranquillamente, come ogni sua normale "visita", che stava ormai diventando convivenza forzata. Aveva le chiavi, così come io avevo quelle del suo appartamento. Non eravamo né amanti, né scopamici, né niente. Lui era tutto preso dalle sue lotte sociali e io ero tutto preso dal sopravvivere alla vita. I suoi genitori avevano mangiato sulla crisi, essendo piccoli imprenditori di un'azienda metallurgica, e lui di tutta risposta gli rubava i soldi, per finanziare imprese assurde e, come diceva lui, "di gusto profondamente proletarialistico", incartandosi puntualmente sull'ultima parola.
Nel giro di un anno il mio mondo era semplicemente esploso, e ne rimanevano i resti, proprio davanti ai miei occhi. 
Il suo mondo, quasi idilliaco, fioriva di giorno in giorno insieme al suo sorriso, e alla sua voglia di fare. Il mio, almeno nel periodo a Roma, tentò di sembrare interessante soltanto con quel "boom" di eventi positivi di quei tre anni d'università, insieme a qualche fuoco d'artificio che se ne volò anche in giro per la mia testa, sconcuassandomi definitivamente i nervi, quando dopo tutto il culo immenso che mi ero fatto in agenzia, mi ero ritrovato sulla lista dei "posti a rischio". Di tutto ciò, lui, benedetto e divino, non ne sentiva neanche l'odore.
Probabilmente, l'unica cosa negativa della sua miracolata esistenza, ero io, forse. 
Non che parlassimo troppo di noi due, visto che ci ritrovavamo spesso e volentieri a parlare di politica, di cinema, di musica e di letteratura. Molto bohèmiene, sì... forse troppo, a giudicare dalla situazione in cui ero dentro quella vasca da bagno. C'avrei messo ancora qualche minuto, prima di fare qualcosa, proprio perché pensavo a lui, e al fatto che invidiavo quella sua spensieratezza, quasi innocente. 
Proprio mentre mi rilassavo, convincendomi che avevo imbottito abbastanza sonniferi per non sentire una cannonata dritta al corpo, sentii distintamente la sua voce avvicinarsi, facendomi reagire bruscamente e tirando la lametta fuori dalla finestra. Non ci potevo credere.
Era arrivato nel momento più assurdo. Proprio lui, la persona che invidiavo di più, che era ora apparso facendo capolino dalla porta del bagno, quasi come le apparizioni mentre sei in coma: sai di essere in un mondo tutto tuo, e quindi ti immagini le cose migliori che possa mettere in piedi la tua immaginazione. 
Sorrideva, guardandomi senza entrare, non sapendo di aver appena fatto qualcosa che lo avrebbe segnato per tutta la vita. O almeno, che lo avrebbe fatto segnare da me come peggior nemico.
 
«Che scena porno, posso unirmi?» non smise certo di sorridere, vedendomi lì. Ah no, il suo sorriso era l'unica cosa che lo salvava dalla dannazione eterna, probabilmente. Moro, con i capelli fluenti sul collo, gli occhi profondi, marroni ed il viso acuminato, fino, con labbra sottili da cui solo le parole più sibiline potevano uscire. 
No, no... ero io lì lo sbaglio, non quel suo essere felice e soddisfatto della vita. Ero io che sorridevo solo a fasi alterne come la luna, e io che nel mio profondo ottimismo - che oggi mi vengono a dire dipendeva dal periodo, come se non lo avessi già capito al tempo - credevo di salvarmi da quel destino violento e deprimente, crogiolandomi nell'egoismo più puro. 
Proibirgli l'uso dei miei sentimenti e della mia fragilità era ancora più importante del porre qualche obiettivo importante nella mia vita. Tuttavia, quel giorno entrò davvero in bagno, senza neanche il permesso, e mi costrinse a lasciargli un po' di spazio nella mia vita da romantico new age. Ma tutto questo, lì per lì, non lo pensai.
 
Avevo lo sguardo perso nel vuoto, a dire il vero, a pensare che non aveva motivi per smettere di sorridere, lui.
 
«Sebastian, guardami almeno... mi hai sentito?» alzai appena gli occhi verso di lui. 
«Che hai detto, scusa?» non sorrideva più.
Che cazzo di evento, dovevo farglielo notare.
 
«Noto che sei serio, non credevo succedesse anche a te» e per la prima volta, nel giro di cinque o sei mesi che lo conoscevo, si accigliò.
«Qual'è il tuo cazzo di problema?» rispose, rimanendo fermo sul suo posto ed incrociando le braccia al petto, in una posa molto surreale. Tornai a guardare il bordo della vasca, ed i miei piedi che a volte galleggiavano sulla superficie. L'imbarazzo per la situazione stava diventando ridicolo, specialmente perché sapevo che era forse la prima volta che mi vedeva anche solo senza maglietta. Doveva essere il primo in assoluto, dopo mio padre e il mio "amico" d'infanzia, che durò un paio di mesi prima di buttarsi sull'altra sponda e convincersi di essere etero e profondamente virile.
 
«Vuoi la lista numerata o ti va bene un elenco puntato?» sentii le mie labbra incresparsi, soddisfatto dal cinismo ben riuscito. Lui inspirò profondamente, come a trattenersi. Era davvero infastidito.
Non capivo perché in quella coincidenza così fatale come l'interrompere un mio suicidio - e farmi perdere la lametta - ci si dovesse mettere anche quel comportamento così innaturale da parte sua. Cos'è, mi leggeva nel pensiero? Vedeva attraverso i muri? Possibile che dovesse arrivare proprio ora lo pseudo-salvatore di depressi convinti?
 
«Non credo mi servirà, ho letto il tuo diario» per diversi attimi, o forse dovrei dire secondi, il mondo perse colore. Il bianco perlaceo della vasca, il nero della muffa, il celestino chiaro delle mattonelle a terra, il giallo pulcino delle tende e gli altri vari colori che mi circondavano si scurirono di parecchie tonalità, sfiorando un nero totale. 
Capii come non fosse una magia, né un mio attimo di shock, quello spostamento del giorno prima, compiuto dal mio diario da orizzontale a diagonale, dentro il cassetto vicino al mobiletto del letto, irraggiungibile da chiunque. 
Trovai fastidioso persino l'odore del bagnoschiuma alla fragola, che di solito mi salvava nei momenti più di bisogno.
 
«Bene... oh, no, no... bene, complimenti, mi complimento, sei un ganzo ora, un figo, una testa di cazzo realizzata... che bello, ma dimmi una cosa» mi voltai verso di lui, passando da sdraiato a seduto, dentro la vasca, ormai sulla via della crisi nevrotica evidente. Il suo sguardo si aprì in un punto di domanda, come a far notare che gli interessava cosa volevo chiedergli.
 
«Tu chi cazzo sei?» presi fiato, mentre il suo sguardo tornò accigliato.
«Cosa credi di fare? Ad entrare dentro casa mia, dentro la mia vita... fingerti amico e poi spiarmi le cose, entrare nel mio bagno senza preoccuparti della mia risposta... chi cazzo credi di essere? Narciso? Dorian Grey? Capisci che tutto ciò che hai, e fai, deriva solo dal fatto che sei un fottuto figlio di papà, convinto di essere moralmente accettabile nella tua PENOSA esistenza da lottatore del capitalismo? Ne sei co...» non riuscii a finire il mio monologo moralista, in quanto si avvicinò della manciata di passi che ci separavano, con uno scatto, ed uno schiaffo - molto più simile ad un pugno - mi scaraventò con la faccia addosso al muro dietro di me. Sentii un rumore simile al "dong" delle campane rimbombarmi in testa, e la testa cominciare a bruciarmi.
 
«Mh, ora sì che puoi morire, stronzo... senza neanche suicidarti, senza dare fastidio a nessuno... forza, dai... adesso io me ne vado da qui, ti lascio morire, e non avrò un singolo rimpianto se non quello di aver dato retta a quella voglia, dentro di me, di migliorare la tua vita e dargli un senso, come ho dato un senso alla mia» parlò, parlò per quelle che mi sembrarono ore. Mi toccai svariate volte la fronte, scoprendo la mano sempre più coperta di sangue. 
La mia gioventù bruciata stava davvero scadendo nel banale ormai. Ora anche il marito frustrato mi toccava.
 
«Nel tuo beato vittimismo, creato da te stesso, isolato dal resto di quello "sporco mondo", come lo chiami... tutto bene, vero? Questa specie di... tristezza che ti sei cucito addosso, per evitare di dover trattare con le persone... ma davvero ti guardi allo specchio ogni tanto? Quante volte devi guardarti negli occhi prima di trovare il coraggio di dire che quel coglione lì davanti al vetro sei tu, e non una delle tue tante personalità?» il dolore si mischiò alla rabbia, così che qualche lacrima cominciò a scendermi dagli occhi, creando un misto di sangue annacquato sulla faccia. Mi sciacquai, vedendo il sapone tingersi di rosso, mano a mano che le gocce cadevano rovinosamente nello specchio d'acqua sotto di me.
 
«Ora sai che farò? Prenderò la spesa che ho fatto PER TE, uscirò da questa stanza che volevo rimettere a posto PER TE, andrò a casa a stracciare le lettere che ho scritto PER TE, e ti lascerò marcire nei tuoi desideri più amati, o odiati, visto che sembra tu non riesca ad amare nulla se non la tristezza... però non venire a dire, o pensare poi, che la gente non ci ha provato ad amarti, perché io ho davvero provato in tutti i modi» lo guardai, in silenzio. Le lacrime mi continuavano a fiottare dagli occhi come avessi aperto qualche rubinetto, e lui che rimaneva serio, senza sorridere. 
Non era poi così bello quando non sorrideva, in effetti.
 
«Fai come vuoi...» mi limitai a dire, con la voce rotta da quello che stava ormai diventando vero e proprio pianto. Ero totalmente privo di forze per rispondergli, e conclusi quella conversazione con un freddo "ma non hai capito un cazzo di quello che volevo" ed appoggiandomi lentamente alla vasca dietro di me, immergendomi di nuovo nell'acqua e continuando a tenermi una mano sulla fronte per evitare che si appiccicassero i capelli. Non durò molto.
 
«Testa di cazzo che non sei altro» mi tirò per un braccio, alzandomi, e neanche ebbi il tempo di reagire - o forse ci fu abbastanza tempo per fare qualcosa, ma il torpore del sangue che usciva cominciava a cancellare ogni tentativo di forza - che mi prese e mi trascinò a terra, prendendo l'accappatoio lì vicino ed asciugandomi alla bell'e meglio. 
Una favola sgraziata, a ripensarci ora.
 
«Take me home... country roads» mentre un filo di fumo sfuggiva dalle mie labbra, il quaderno ingiallito sembrò gridare di voler essere letto un'ultima volta, per cercare l'ultima data scritta. Risaliva al 19 Febbraio del 1995, qualche giorno dopo San Valentino, ed un paio di mesi dopo l'ennesimo evento di crisi del governo che costringeva Manuele a fare ore di straordinario in fabbrica, nonostante i continui aiuti da parte dei suoi genitori, che mi preoccupavo di nascondere, sapendo il rifiuto che ne avrebbe avuto.
Ormai convivevamo da un anno, nella sua casa. I miei zii erano stati ben felici quando gli avevo detto che avrei liberato l'appartamento per dividere le spese di una casa fuori centro con un'amica, e non indagarono di più. Un giorno poi sarebbe stato divertente vedere la loro reazione davanti "la mia amica" alta uno e settantasette, senza tette e con un'aggiunta a metà vita. 
Le parole sul foglio, a differenza delle pagine prima, erano ordinate sulle righe, tanto da sembrare quasi un tema di scuola, o pagine di un racconto. Mi chiesi se non avevo inventato tutto, confermando però quegli eventi con i ricordi che avevo, seppure ridotti a frammenti.
 
19 Febbraio 1995
 
Ho deciso tranquillamente di farmi rinchiudere in una clinica. Di quelle vere, deprimenti, da film.
Continuo ad avere quasi paura di cosa succederà, ma penso di essermi ormai reso conto che Manuele ha tentato più di una volta di mettermi una di quelle medicine che stimolano la fame nel bicchiere. 
Ha un sapore amaro l'acqua quando ci mette quella roba, a dire il vero. 
Sono stato da Marcello... che mi ha detto, molto schiettamente, che ho un bisogno disperato di un ricovero in qualche ospedale psichiatrico. Io non la vedo così nera, anzi... sono piuttosto felice di questa situazione. Ho un lavoro, ho un compagno, non ho l'AIDS ed il mio lavoro continua ad andare avanti, anche se non sopporto più le ore di straordinario... ma non ho avuto ancora un collasso, quindi immagino la situazione non sia così grave. 
Credo piuttosto si sia basato molto sulle apparenze e sui numeri: quando gli ho detto che pesavo 47 mi ha guardato un po', a metà tra l'infastidito ed il sorpreso, e mi ha detto "ti vedevo davvero sconvolto, ma non credevo fino a questo punto"... fortuna che di lavoro fa proprio lo psicologo, o avrei potuto pensare che non fosse così professionale in quel momento. Mi ha detto che per i miei uno e settantaquattro ci vorrebbero almeno sessanta chili.
 
Mi ha quasi sbattuto fuori dallo studio quando ho cominciato a ridergli in faccia ad ogni cosa che diceva. 
Comunque, su una cosa aveva ragione: mi sono sciupato.
 
Credo mi farò chiudere in clinica, principalmente per non dovermi preoccupare del continuare a lavorare in queste condizioni, e per far giungere la notizia delle mie condizioni a casa, senza dovergliela comunicare di persona. Manuele non sa nulla, né vorrei farglielo sapere, ma credo sia improbabile che rientrando a casa e non trovandomi si convinca che sono solo andato via, magari tornandomene a casa. Conoscendolo, poi, con tutti i suoi "agganci di Dio" impiegherebbe lo stesso tempo che impiega un peto per nebulizzarsi nell'aria a trovarmi. Dovrò parlargliene.
 
Tuttavia sono quasi rattristito dal fatto che non riesco più a scrivere "noi", "voi" e riferirmi a me stesso come a più persone. Ora sì che mi sento malato di qualcosa, ora che non riesco più a fare una divisione delle personalità, per evitare problemi. Oltretutto ste pagine cominciano a puzzare di vecchio, o forse sto marcendo io, vedrò di capirlo più tardi.
 
P.S. i fagioli sono a bagno nell'acqua, tirali fuori quando domani (oggi, vabbè) leggi.
 
Rimanevo a fissare il cielo ancora del tutto pulito, con un ammasso di panna montata - o forse nuvole - lontano all'orizzonte. Qualche raro cinguettio mi scosse da quella catalessi in cui ero caduto.
Ma perché avevo smesso di scrivere? Anche in clinica mi pare scrivessi, specialmente sulla carta igienica.
Aprii d'istinto il diario, andando a quella famosa pagina, per vedere cosa era successo alle pagine dopo: erano strappate. Mancavano almeno una decina di fogli alla fine del quaderno, ed erano stati tutti quanti strappati, lasciando solo qualche parola come "cosa" "Silenzio" "avevo" "Dove poi io..." e nient'altro. Buttai il quaderno sull'erba, tornando a fissare il cielo.
 
Nella clinica in cui mi rinchiusi ci rimasi per quattro anni. Dicevano che ero completamente andato, che non mi rendevo conto di quello che facevo, e che l'unica soluzione era l'elettroshock. Mi chiesi se anche loro avessero letto il mio diario, o si basassero sul principio "distruggi i neuroni del gay" che tanto andava di moda, ancora. 
Sicuramente avevano modo di capire quanto io pensassi a Manuele mentre ero in clinica. Lui veniva a trovarmi due volte al mese o più spesso, se glielo concedevano, e mi diceva cosa succedeva là fuori, mentre io marcivo dentro. Scrivevo il suo nome, spesso, facendo seguire parole a volte disperate.
 
Lui aveva deciso d'iscriversi a scienze politiche. Per evitare di rientrare a casa e sentire la mia mancanza, diceva. Diceva di aver cambiato lavoro anche, e che ora era un commesso in una catena di negozi d'abbigliamento.
Il tempo, come si dice, volò... almeno dopo l'inizio dell'elettroshock: giornate vuote, a fissare il soffitto, o il muro, cercando di collegare un pensiero a un altro. 
Forse di essere uno zombie me ne accorsi troppo tardi, o forse, come dicevo, dovevano aggiornare i sistemi di trattamento dell'omosessualità, e della depressione in generale, anche perché oltre che crearmi dei mal di testa pazzeschi e dei vuoti di memoria continui, non sembravano sortire effetto. Tuttavia, la vera "sorpresa" non venne dal mio cervello, che credevo ormai scoppiato, bensì dal mio sangue. 
Dopo soltanto sei mesi dalla mia entrata in clinica, uno di quei dottori dal sorriso fotocopiato e attaccato davanti la faccia con un po' di scotch comparì un giorno, facendo capolino, dalla porta della mia stanza, ricordandomi qualcosa di simile successo circa un anno prima.
 
«Signor Alvate... non so se devo darle una brutta notizia, o dirle che abbiamo scoperto una cosa che non ci aveva detto» aveva una faccia piuttosto rilassata, come se fosse a suo agio nel parlare dei miei problemi... immagino anche cosa pensasse: "solite cose, lavoro di merda, eh..." o qualcosa di simile. Ricordai di dover rispondere qualche attimo dopo, in cui rimasi a fissarlo in cerca di una motivazione a quella frase.
 
«Tipo che mi piace l'arancione?» dissi, cercando di guardare cosa c'era scritto sui suoi fogli. Lui tentò di forzare una risata, non riuscendoci. Si sedette accanto a me, sul letto.
«Lei è sieropositvo» lo guardai stralunato. Non mi erano mai piaciuti i termini medici, specie quelli sentiti in TV e mai compresi. Cercai di andare per logica, tirando fuori qualcosa di simile a una risposta.
 
«Che siero, scusi?» stavolta il suo sorriso sembrò intimidito. Si spense qualcosa dentro di lui. Evidentemente, doveva essere stata qualche lampadina allo xeno che s'era improvvisamente fulminata, dando modo alle altre lampadine di far notare d'essere ancora accese, anche se fiacche. Mi mise una mano sulla spalla, sospirando.
 
«Conosce l'HIV, Alvate?» mi guardò negli occhi, cercando di penetrarmi nell'anima. Scossi la testa, anche se questo termine mi diceva qualcosa che non ero sicuro mi piacesse.
«Non ha mai sentito parlare dell'AIDS, in tv o sui giornali?» cercai con le mani qualcosa a cui aggrapparmi, anche se non stavo cadendo. Trovai le lenzuola, ed il letto. La sensazione di precipitamento tuttavia non si interruppe, e anzi mi ritrovai a lottare contro una sensazione di panico rapidamente crescente dentro di me. Ma come? Proprio ora? 
Adesso che avevo deciso di rinchiudermi dentro quattro mura per evitare di fare del male a me ed al mondo, questo qui si vendicava in questo modo?
Non era possibile. Doveva essere uno scherzo, c'era qualcosa sotto.
 
«Ne ho sentito parlare, sì... e anche di HIV e sieropositivo... la ho?» mi chiesi il perché di quella domanda. Non è che ci fosse uno scopo preciso in quelle parole, come non c'era uno scopo preciso nella maggior parte delle cose che mi ritrovavo a fare... ma da qualche parte, in qualche angolo della mia coscienza sodomizzata dal tempo, c'era una speranza che ci fosse una risposta diversa dal "sì".
 
«Lei è portatore sano, a quanto pare» mi sentii in obbligo di ridere; ma venne spontaneo, come le risate dopo una battuta davvero divertente, di quelle impossibili da trattenere, che ti fanno male alla pancia. Cominciai a ridere, sentendo i polmoni contrarsi per evitare di darmi abbastanza fiato da poter sopravvivere a quella risata isterica. Sentii i nervi, finora tesi, sciogliersi come lacci di scarpe, e continuai a ridere. 
Vennero a prendermi i dottori, ad un certo punto, sedandomi perché ridevo. Ridevo fino alle lacrime, e le lacrime ridevano a loro volta facendone scendere altre. 
 
Mi spensero il cervello a suon di sedativi per i successivi quattro giorni. 
Passarono le settimane, e passai dai sedativi ai calmanti, agli ansiolitici. Finii presto sotto Prozac e, da quanto ricordo, divenni una specie di zombie anoressico per i successivi tre anni, due dei quali passati sotto elettroshock continui, nel tentativo di riabilitarmi - secondo loro - ad una "vita normale". 
Delle poche ore che ricordo di quegli anni, ho ancora vive nella mente le immagini di Manuele e le sue visite sempre più frequenti. Dopo un anno infatti, o forse due... o magari tre dall'inizio dell'elettroshock, arrivò a visitarmi una volta ogni tre giorni, quasi con una scadenza fissa. 
Un giorno molto freddo, forse d'inverno, forse d'autunno, capii il perché delle sue visite sempre più vicine tra loro. 
Aveva cominciato ad ammalarsi. Lo notai dal suo aspetto sempre più sciupato, e dall'ingrigimento dei suoi capelli, dai suoi occhi di giorno in giorno più annacquati. Doveva per forza essere in parte colpa mia se non mi ero accorto prima, se non ero stato il primo a parlarne, ma dopotutto... avevo smesso di scrivere un diario, così avevo smesso anche di notare troppe cose tristi del mondo intorno a me. 
 
«Dicono abbia l'AIDS, Sebastian» sospirò, guardando le nostre mani intrecciate sul tavolino bianco. Era quasi tutto bianco, lì intorno. Anche io e lui.
«Sono stati così gentili da dirmi anche che se la malattia non ha scosse improvvise, grazie agli antidolorifici e qualche farmaco, posso vivere ancora una decina d'anni» alzò lo sguardo, mostrando di nuovo quel suo maledettissimo sorriso.
 
«SMETTILA DI SORRIDERE, CHE CAZZO!» quella giornata si concluse con i miei urli che si allontavano nel corridoio, diretti verso una stanza d'isolamento dalle pareti imbottite. 
Gli occhi lucidi di Manuele mi seguirono per i successivi due giorni. 
Tutto tornò alla solita apatia alla sua visita dopo: parlammo di tutto e di niente, ci scambiammo confidenze come "manchi a casa" e "mi manca sentirti urlare contro la tv". Cose da coppie di vecchi sposati, costretti a delle vite troppo frenetiche, e tuttavia apparentemente vuote. Era un Maggio, forse del '97.
Non ci sentimmo più per almeno un anno, se non tramite qualche lettera e telefonata. Nelle lettere diceva che si stava impegnando per finire di studiare, e continuare a lavorare. Diceva anche che forse se lui non si faceva vedere, mi avrebbero "rilasciato". Mi fidai di lui, in quei mesi insensati.
 
Continuai, la notte, a ricordare quei momenti insieme a lui, ripresentando più e più volte il suo volto dentro la mia testa. 
Mi accorsi solo dopo diverse settimane di "ricordi" che la malattia, per Manuele, si stava mostrando con un invecchiamento fuori controllo: sembrava scambiare i suoi giorni per mesi, ed i suoi mesi per anni; a ventiquattro anni cominciò ad averne trenta, a ventisei si diresse verso la quarantina, ed a ventisette anni, con me finalmente fuori dalla clinica e "guarito da tutto quanto" - come disse raggiante il direttore, guardando i suoi impiegati imbarazzati piuttosto che me - festeggiammo il suo compleanno con alcuni suoi (e potremmo dire anche miei, se non fosse che non li sentivo da cinque anni buoni) amici, che a confronto sembravano suoi figli. Fu una festa molto modesta, senza neanche l'alcohol, al di fuori di qualche bottiglia di spumante e un po' di vino: per me fu una delle cose più scatenate degli ultimi sei anni. Finii inoltre col fare nuovamente sesso con Manuele, dopo tanto tempo. 
Sembrava quasi non fosse successo niente in quegli anni. Tutto normale, tutto giusto e perfetto così com'era.
Era arrivato in questo modo il 1998: l'anno di Alfredo Ormando, dei mondiali di calcio in Francia, di Windows 98, delle vittorie di Pantani e della caduta del governo, l'ennesimo, ancora. 
 
Il mondo, per quanto identico a come lo avessi lasciato, sembrava cambiare lentamente, plasmarsi come una gelatina.


II.
 
- I vari allegati comprendono le carte per il corso privato, i bollettini da pagare e le date dei prossimi esami. Per qualunque problema, ci contatti al... - il suo corso di studi sembrava spronarlo quanto me a continuare a studiare. Dopo il suo compleanno, infatti, Manuele sembrava aver perso quella specie di aura invincibile che lo aveva accompagnato dal momento in cui mi comunicò di essersi iscritto all'università, fino a quando, appunto, non passò il suo ventisettesimo, a Giugno. 
Quando gli chiesi il perché di tutto quell'affaticamento, mi liquidò con un "preferisco lavorare che studiare, in queste condizioni, e poi ce la posso comunque fare senza problemi". Una crisi respiratoria a metà Agosto pose fine a quell'ottimismo arrogante e convincente. Gli eventi si gettarono senza paracadute dalla punta dell'Everest, da lì in poi.
Dopo Agosto si rese conto di dover abbandonare o gli studi, o il lavoro. Lo convinsi ad abbandonare il secondo, trovandomi un impiego come cassiere, mentre il mio peso saliva a poco a poco, quasi nutrendomi della sua vita, che invece sembrava andarsene lentamente, di giorno in giorno.
Scoprì anche, piuttosto presto, che i suoi genitori ci mandavano soldi, e smise di parlarmi quasi del tutto, rivolgendomi parola soltanto per lo stretto necessario, allontanandosi da ogni relazione umana con me oltre il passarmi accanto in bagno, o in cucina, o in camera.
 
Poco prima delle vacanze di Natale, intorno a metà Dicembre, la nostra - anche se la casa era intestata soltanto a lui - stanza da letto adibita a piccolo ospedale da campo, completo di siringhe e medicinali, si riempì per qualche ora di una manciata di ricordi avvolgenti e momenti di silenzio concentrato.
Erano passati diversi mesi dalla mia uscita dalla clinica. Manuele aveva chiamato uno di quegli amici che erano alla festa per presentarmi a lui e farmi entrare a lavorare come aiuto-tipografo nella sua bottega, visto che con lo stipendio da cassiere non riuscivamo neanche a pagare le bollette. Lavorava molto con i computer, e ben presto compresi che il mondo si stava davvero evolvendo, mentre io rimanevo fermo nei miei problemi sentimentali e sociali. Tuttavia, Luciano - o come voleva farsi chiamare lui, "Lucio" - sembrava una persona a posto, e indifferente ai miei trascorsi. Mi disse che mi avrebbe dato una settimana di tempo per imparare ad usare il computer e la macchina per stampare. 
In una settimana imparai a malapena ad infilare l'inchiostro nella macchina ed accendere il PC. 
«Mi accontenterò, per ora» sospirò a fine settimana, quasi soddisfatto del risultato. 
In realtà, pensavo, molto probabilmente aveva pietà di me e di Manuele, che ormai era costretto per la maggior parte del tempo a letto dalla tosse, che più tardi scoprimmo essere tubercolosi. Come ci si poteva aspettare da lui, ovviamente, il ricovero era un'opzione impraticabile nella sua testa da insurrezionalista indipendente contro l'intero sistema, e quindi si constrinse dentro casa, la quale nel frattempo aveva assunto quell'atmosfera di vecchio e logoro, mentre i mobili invecchiavano, le pareti ingiallivano ed il parquet si consumava e logorava ad ogni passata di straccio; ma nonostante tutto, manteneva la stessa atmosfera di nido confortevole e, sopratutto, caldo.
 
Una sera di Novembre, mentre la sera coccolava gli ultimi pensieri della giornata e in casa suonavano le note di Ordinary World, sottofondo indegno di quei momenti così intimimamente incondivisibili tra me e lui, ci ritrovammo stesi uno vicino all'altro, nel silenzio, pur rimanendo irraggiungibili. 
La radio, completamente grigia a parte il tastino "Rec" - mai usato, forse per la troppa luce che emanava il rosso ciliegia della plastica, o per la paura di risentire i suoni gracchianti delle nostre voci - era appoggiata su uno dei due comodini vicino al letto, intenta a ripetere la cassetta che gli avevo comprato appena uscita, sapendo il suo profondo amore per quei cinque figoni pop che credevo intenzionati a sfornare album di cover per i futuri quindici anni.
Era passato poco più d'un mese dalla sua scoperta della mia piccola bugia riguardo i soldi dei suoi genitori. Era arrivato ad evitare di parlarmi anche quando doveva farsi medicare a casa, parlando piuttosto a gesti, o inventandosi improbabili modi per evitare di chiedermi aiuto. 
Quella sera tornò a parlarmi, quasi nell'aria ci fosse stato qualcosa che lo convinse a perdonarmi. Mi ero convinto che non importava più se mi parlasse o meno, ma piuttosto mi interessava che sapesse che io ero lì, che per lui sarei rimasto, in ogni caso e ogni giorno, fino alla fine, lontana o vicina che fosse, cercando di dargli tutto quell'amore che non gli avevo dato prima d'ora.
Lo meritava, dopotutto. Se l'era guadagnato, anche se ora non se ne sarebbe fatto più nulla.
 
Mi chiese quasi sussurrando, mentre ascoltavamo musica, di poter leggere la sceneggiatura che stavo scrivendo, per vedere "che schifezza avessi messo su". Gli sorrisi, dandogli i fogli che avevo già riordinato, mentre scrivevo la parte finale. 
Accese la luce, si stropicciò gli occhi e cominciò a leggere, mentre in maniera molto teatrale partì Skin Trade, quasi più sofisticata del solito. 
 
«Seb... mi posso appoggiare un po' a te? Poi ti finisco di leggere la sceneggiatura...» posò il pacco di fogli sul comodino accanto a lui, mentre io mi limitai semplicemente ad aprire un braccio, dal momento che ero appoggiato con la schiena alla spalliera del letto - che nel frattempo era diventato matrimoniale - ad aspettare un suo commento. La sua testa, con i suoi capelli ingrigiti, si distese leggera sulle mie gambe, rivolgendomi uno sguardo addolcito. Una piccola macchia marroncina gli era comparsa poco sotto il mento, destando la mia curiosità. Sembrava impossibile stabilire la sua età senza saperla direttamente da lui: forse ne aveva quaranta, o forse ne aveva cinquanta, o magari solo trenta... i suoi ventisette anni erano scomparsi quasi del tutto ormai. Rimanevano i resti di una bellezza smaliziata, ormai affllitta da una vecchiaia che lo rendeva simile ad un vecchio demone in disfacimento.
 
Partì Come Undone, dando al tutto un'atmosfera più degna. Si esaurì tutto in pochi istanti.
 
«Mh... che ore sono, Seb?» mi chiese, con un filo di voce. Mi voltai verso la grande sveglia quadrata, cercando di capire l'ora contando i pallini. Dovevano essere le nove e tre quarti di sera, all'incirca.
«Quasi le dieci» sorrise, come faceva sempre. Sorrise e alzò una mano per accarezzarmi la guancia. Sentii le sue dita scivolare lente sui miei zigomi, sul naso... quasi come se mi vedesse per la prima volta. Gli sfiorai la mano con la mia, quasi avessi paura smettesse. Lo guardai negli occhi: aveva uno sguardo intenso, stanco, e felice.
 
«Tutta questa dolcezza ha un senso, vero?» gli dissi, sorridendo a mia volta. Lo feci spontaneo, cercando di nascondere quelle centinaia di emozioni che mi lasciavano dentro un suo respiro, una sua carezza, un suo sguardo. Mi accorsi che alcune vene del suo braccio erano diventate improvvisamente molto più scure, e gonfie.
 
«Sei bello... te l'ho mai detto?» sussurrò, alzandosi lentamente dalle mie gambe. Mi diede un bacio appena sfiorato sulle labbra, con il respiro trattenuto, tanto lento che mi convinse a baciarlo di nuovo, dopo che si staccò. 
Lo baciai, sentendo la lingua inumidirsi della sua. Me ne stavo fottendo di tutto quanto. 
 
Fanculo la malattia.
Fanculo il futuro.
Fanculo ogni fine preconfezionata.
 
- Fanculo. A tutto quanto - pensai. Mi sentii felice, nel pensarlo.
Non si staccò dal bacio, che durò diversi minuti, quasi a voler recuperare un tempo perso in cose troppo stupide per essere considerate come davvero successe, o anche solo pensate. Si allontanò lentamente dalle mie labbra, rimanendo a fissarmi, pronto ad abbandonarmi lì sul momento per quello che avevo appena fatto. Si voltò, cercando un fazzoletto. Tossì un paio di volte, prima di alzarsi, senza dire una parola se non una comunicazione di servizio.
«Vado al bagno, ho sete» e con una stanchezza malcelata, si diresse barcollante verso la porta che collegava la camera al bagno, che dava alla casa un effetto molto "telefilm anni ottanta".
Spensi la radio. Basta Duran Duran. Basta musica.
Mi guardai per un po' in giro, senza vedere davvero la stanza in cui ero: pareti giallognole, su cui un piccolo specchio e qualche foto di noi, incorniciata, lasciava spazio, sul fondo, ad un interminabile armadio bianco molto alto, dai disegni floreali. Forse erano le tende rosse e bianche a dare quel tocco di profondità all'intera stanza, in quel momento: i vestiti, sparsi sul letto e sui mobili bianchi, sulle due piccole sedie di paglia ai due angoli opposti a me... sembrava tutto così perfettamente naturale che quasi avevo paura di veder svanire quella tranquillità. 
Mi voltai verso il comodino alla mia sinistra. Aprii il cassetto, cercando il diario che avevo lasciato a casa sua, quando decisi di ricoverarmi: mancavano ancora una decina di pagine alla fine. Sembrava non essere stato toccato, ma chi si ricordava in che condizioni era? L'elettroshock mi aveva fatto dimenticare anche come mi chiamavo, quasi.
Lo aprii, sentendo l'odore forte della carta invecchiata. Scrissi frettolosamente qualcosa, per dimenticarlo appena qualche ora dopo.
 
Aspettai Manuele un'intera ora a letto. Credevo fosse sconvolto dalla facilità con cui avevo fatto quello che lui aveva evitato di fare per tutti quei mesi. Aveva evitato in tutti i modi quel bacio completo, finito, sensato. Era riuscito solo in qualcosa di appena accennato, con il respiro trattenuto, e smorzato dalla paura di farmi del male. Di condannarmi, così come io avevo condannato lui.
Non lo meritavo, né lo volevo.
 
«Manuele... posso entrare? Almeno parliamone» bussai alla porta, un po' intimidito da tutto quel silenzio. Chissà cosa pensava.
«Volevo dirti una cosa soltanto, prima che tu decida di non parlarmi fino al prossimo equinozio d'inverno» ancora silenzio. Volevo soltanto ricevere uno sguardo, un qualcosa che dicesse "vattene", o qualche altra cosa per cui avrei avuto un motivo per stargli lontano. 
Invece no. Non parlò.
Non parlò per niente, neanche quando io entrai in stanza. Neanche quando lo scossi dalla sua posizione rilassata dentro la vasca, riempita appena da acqua mischiata a sapone. Nemmeno quando gli urlai che se apriva gli occhi, era ancora in tempo per sentire l'unico "ti amo" che avrei mai detto. Non mi degnò di una risposta, nulla. 
Rimase silenzioso mentre arrivava l'ambulanza a caricarlo, mentre lo trascinavo fuori dal bagno, cercando di coprirlo con qualche vestito, vedendolo tremare.
A dire il vero... ad un certo punto sembrò non respirare più, ma credevo fosse tutta una mossa per farmi preoccupare. Prima o poi avrebbe ripreso, come aveva già fatto qualche mese prima.
Prima o poi avrebbe ripreso...
Rimase in coma per quattro giorni, attaccato alle macchine. I medici mi dissero che c'erano possibilità non si riprendesse totalmente, in quanto il fisico sembrava essere sotto sforzo e in decadimento. L'avevano dovuto operare per un emo-pneumotorace, che era stato apparentemente risolto con l'inserimento di un tubo per asportare il sangue e l'aria in eccesso nel polmone. La piccola macchinetta vicino al letto di Manuele diventò una compagna onnipresente in quelle ore angoscianti.
 
Persi qualunque interesse nella vita in quei giorni. Tentai di stare giorno e notte con lui, in stanza, venendo quotidiniamente cacciato dai medici e dalle infermiere, a cui interessava solo sapere se ero un suo familiare. Le loro facce quando rispondevo "ma è il mio compagno" urlando, in lacrime, erano degli sguardi a volte vuoti, a volte di compassione. Erano parole di conforto, che mi ricordavano delle regole assurde per cui non potevo vedere la persona che amavo sfiorare la morte, standogli accanto.
Non trovai altro che disperazione in quelle notti da solo in casa. Scrissi, ricordo. Scrissi quelle pagine che erano ormai strappate.
Scrissi per me, per portare quei fogli da lui, e leggerglieli mentre era lì, addormentato in quel suo sonno surreale. 
Io parlavo, e lui sembrava soltanto dormire, quasi sorridendo.
 
Era bello, in quei giorni. Era l'evento più bello della mia intera vita, guardarlo sul viso e poterlo accarezzare sentendo tutta quell'emozione nel farlo. Gli sussurravo continuamente all'orecchio quanto mi dispiacesse essere finito insieme a lui, perché lui era troppo per concludere la sua storia così, per colpa mia.
Piangevo e ridevo, e parlavo. Scrivevo, a volte, mentre lui era lì, forse ad ascoltare il rumore della mia penna sulla carta.
Il quarto giorno arrivò quasi in silenzio. Quella sera, tornando a casa, mi fermai davanti la mia vecchia casa, o meglio... quella dei miei zii. Era occupata da qualcun'altro, che teneva la luce del bagno accesa, con la finestra aperta. Sul davanzale c'era un ragazzo biondo, dai capelli ricci, con una sigaretta in mano.
Io ero lì davanti quella casa, circondato dalle macchine ed i motorini assordanti, a guardare la sua faccia inespressiva, rivolta verso di me, in quel momento. Per un attimo mi sembrò di sentire l'odore del tabacco provenire da quella finestra. Mi ricordava qualcosa di desiderato, sperato. 
Un desiderio inespresso, o irrealizzato, forse.
Mi voltai, continuando a camminare verso la mia vera casa, che tuttavia non era mia.
 
Arrivai sulla soglia dell'ingresso, sentendo il telefono squillare. Aprii frettolosamente la porta, lasciandola aperta e con le chiavi attaccate, e corsi a rispondere al telefono.
 
«Pronto?» dall'altro capo del telefono si sentiva un rumore di voci lontane e passi e fogli fruscianti.
«Sì... parlo con... Alvate? Sebastian Alvate?» la voce fresca della ragazza all'altro capo del telefono mi scosse. Potevano essere solo brutte notizie, se mi avevano chiamato appena mezz'ora dopo essere uscito dall'ospedale.
«Mi dica...» sospirai, sentendo il cuore stringersi in un qualcosa di simile ad una pressa da fabbrica. 
 
«Il signor Iannone si è svegliato, ha iniziato a chiamare il suo nome, ed ha detto ai medici... insomma, potrebbe venire?» sembrò quasi che nella sua voce ci fosse dell'apprensione, una preoccupazione reale in quell'ultima domanda. Il mio cuore si tolse dalla pressa per cominciare a ribellarsi e voler uscire dalla gabbia toracica.
 
«Credo di sì... mi ci vorrà mezz'ora, non sono fuori dall'orario visite?» guardai verso la porta, per poi guardare l'orologio che avevo al polso. Erano quasi le otto, e presto sarebbe passato un bus proprio sotto casa mia. 
Dovevo sbrigarmi.
 
«Non è un problema. Mi ha detto di chiamarla il primario, dopo aver parlato con il signor Iannone» sorrisi. Mi immaginai Manuele, nel letto, intento a minacciare i dottori di fare causa a tutto quanto l'ospedale se non mi avessero chiamato.
«Capisco, la ringrazio, a risentirci» tirai la cornetta addosso al telefono, che rimbalzò cadendo penzolante. Mi fiondai prima in camera, prendendo alcuni fogli sparsi sul letto, che aspettavo per leggerglieli solo una volta svegliatosi. Corsi nuovamente fuori la porta, togliendo le chiavi e fuggendo senza chiudere a chiave.
 
Venti minuti dopo ero in ospedale, correndo verso la stanza di Manuele.
Mi ero chiesto per tutto il viaggio cosa volesse dirmi, quando si era svegliato... volevo chiedergli se mi aveva sentito mentre gli leggevo il mio cuore, se credeva anche lui che tutte quelle cose gliele avrei dovute dire prima che tutto questo disastro cominciasse. Volevo baciarlo, volevo dirgli che se lui doveva essere costretto in un letto ed alla morte, volevo esserlo anch'io. 
Volevo... speravo di vedere il suo sorriso.
 
Il trambusto fuori dalla sua stanza mi bloccò la corsa accorata verso di lui. Un viavai d'infermieri sembrava inarrestabile: alcuni portavano fuori dalla stanza degli stracci sporchi di sangue in mano, altri portavano dentro delle siringhe, altri sembravano non fare nulla, guardando dentro la stanza con apprensione... e lontano, quasi sussurrato, il vociare delle persone. Mi avvicinai più lentamente alla porta della stanza, arrivando sulla soglia, circondato da alcuni infermieri.
 
«Portate un lettino! Lo trasferiamo!» urlò uno dei medici, correndo verso il letto di Manuele. Guardai dietro il medico, cercando di resistere alla visione: il suo corpo era rannicchiato tra le lenzuola, macchiate quasi dappertutto di un colore a metà tra il rosso chiaro e il rosa. Tentai di muovermi verso di lui, venendo bloccato da un'infermiera che mi mise un braccio davanti al petto, blaterando qualcosa riguardo il lasciare libero lo spazio, chi fossi, chi non fossi...
Passai la notte in ospedale, cercando di ricevere da qualche medico qualche informazione. Lo avevano portato in sala rianimazione per qualche motivo a me sconosciuto, ed erano ormai diverse ore che uscivano solo infermieri e medici apparentemente esausti.
Furono loro, o almeno una delle loro infermiere, a svegliarmi, verso le cinque di mattina e dopo sette ore di operazione, chiamando "Per Iannone c'è nessuno?" a pochi centimetri da me. Aprii gli occhi, toccando un suo braccio. Mi chiese se ero un familiare.
 
«Sono Sebastian Alvate, il suo compagno... la prego» il suo sguardo sembrò eloquente. Quasi sembrava voler dire "mi dispiace ma non posso dirle nulla". Invece no.
Mi chiese i documenti, li controllò, dopodiché lesse qualcosa sulla cartella e mi guardò, affranta.
 
«Il signor Iannone come sa... presenta una tubercolosi miliare... ormai sembra si sia espansa oltre che ai polmoni, anche alle tonsille ed al fegato. È molto grave, abbiamo tentato di asportare il fegato e le tonsille, tuttavia...» si fermò, rivolgendo il suo sguardo ad un punto vuoto dietro di me. Continuai a guardarla mentre, forse intorpidito dal sonno, mi chiesi se non stessi sognando tutto quanto.
 
«Tuttavia? Che cosa?» sentii il cuore ricominciare ad uscire dalla gabbia toracica, e gli occhi bruciare, forse per il risveglio.
«Ci sono state delle complicanze durante l'intervento... cianosi, ed una frequenza cardiaca irregolare... per ora è in coma» sentii qualcosa infrangersi dentro di me. Non fece rumore, se non un leggero "crack", che forse provenne dai miei denti, stretti per trattenere le lacrime.
 
«Ci sono speranze che si rimetta?» le chiesi, stupendomi di quanto fosse flebile la mia voce. Mi strinsi una mano dentro l'altra, affondando un'unghia nella carne.
«Per ora non possiamo dirlo... abbiamo tolto le tonsille ed il fegato, ma abbiamo paura che l'infezione polmonare contagi altre zone prima di poter fare qualcosa di definitivo» mi misi seduto. Cominciavo lentamente a non capire più niente, e a lasciare la situazione andare da sè, cercando di capire cosa dovevo fare.
 
«Ma è un coma farmacologico, no? Quello che fate per sicurezza...» chiesi, quasi dicendolo a me stesso. Non la guardai neanche negli occhi: mi fissai sul pavimento verdognolo, lurido.
«Purtroppo non sembra in grado di respirare in maniera autosufficiente, ed è questo che ha indotto il coma... che sembrerebbe spontaneo, e mediamente profondo» sospirò, suggerendomi qualcosa per scaricare la tensione.
 
«Vuole che le porti un caffè? Tra qualche minuto dovrebbe uscire il paziente» mi chiese, stringendo al petto la cartellina, quasi a difendersi da tutto quel mondo estraneo che le stavo facendo crollare addosso, coinvolgendola nella frana che mi stava uccidendo. Scossi la testa, continuando a guardare il vuoto.
«Aspetterò qui... sì...»
 
Rimase in coma per un mese e mezzo. Quarantanove giorni. 
Ogni singolo giorno, ogni ora a disposizione, la passavo con lui. Tornare dal lavoro, pulirmi dall'odore d'inchiostro e precipitarmi da lui. Venire strappato via dai medici e tornare a casa, mangiare qualcosa per non morire prima di vederlo sveglio, e dormire. Poi di nuovo lo stesso ciclo, ogni volta.
Scrivevo, mentre ero da lui. 
Gli leggevo quello che scrivevo, spesso. Con il suo coma, la mia vita era pressoché conclusa. I miei unici rapporti oltre lui erano con amici che chiamavano per fargli visita quando c'ero anche io, o per i suoi genitori che volevano sapere come stava, ed un'unica volta i miei genitori che volevano sapere come stavo, cosa facevo. Come se fosse stato importante, dopo gli anni passati lontani da casa, senza una loro visita. 
Ora che Manuele era ridotto in quel modo, poi, era veramente insignificante sapere come stavo.
Passò il mio compleanno senza che lo festeggiassi, dopo quello precedente passato in clinica come una vincita inattesa a tombola: le persone, lì dentro, si erano ricordate del mio compleanno, sebbene io stesso lo ignorassi, cosicché una piccola folla di persone si era lanciata in elogi sperticati al mio aspetto, alla mia forza di volontà. Dicevano che ormai ero un uomo "a posto", anche se sembravo ancora un ventenne immaturo.
Era stato il mio unico regalo, questo. Oltre la telefonata di Manuele, che diceva sarebbe presto venuto a tirarmi fuori.
 
Cercai di vivere in quei giorni, per quanto potevo. Di settimana in settimana, col passare del tempo, sentivo sempre meno il sapore di quello che mangiavo e capivo sempre meno quello che succedeva intorno a me. A volte, sentivo qualcosa comprimermi i polmoni, costringendomi a tossire, in modo da ricordarmi che anche quando ero solo, qualcosa mi univa a lui.
Sapevo cos'era, forse. Tuttavia... una punta di paura del realizzarlo prima del tempo, mi costringeva a rimanere ancorato all'idea che era una delle ultime cose che potevo condividere con chi mi aspettava, silenzioso e dormiente, in una stanza d'ospedale. Non mi accorgevo di perdere il senso della vita, proprio ora che credevo di averlo trovato.
Alla fine di tutto ciò, il dodici Gennaio, mentre entravo nella sua stanza insieme al quaderno nuovo che avevo cominciato a riempire dopo aver finito il vecchio, trovai un medico ed un infermiere ad aspettarmi. Il medico era intento a fare alcune visite di controllo a Manuele, sospirando. Quando entrai si voltò, tirando sulla faccia un sorriso appena accennato, seguito da un "oh, è lei Alvati". 
Mi portò fuori dalla stanza, a prendere anche lui un caffè.
Mi comunicò che durante la notte Manuele, dopo una lieve crisi cardiaca, era riuscito a dare segni di risveglio. Rispondeva ad alcuni stimoli basilari, muovendo a volte un dito, o una palpebra. 
 
«Non sappiamo quanto ci metterà a recuperare, ma dovrebbe essere fuori pericolo, ormai» lo sussurrò, bevendo il suo caffè, continuando a sorridere debolmente. Sembrava ci fosse altro che voleva dirmi, sotto i suoi baffoni ingrigiti. Gli sorrisi di rimando, rimanendo a pensare.
Andai nella sua stanza, poco dopo, e gli rilessi quelle pagine che avevo scritto qualche mese prima. Quelle pagine strappate.
 
Cominciavano con un "Mia unica vita" e proseguivano in un racconto forsennato di quanto avrei dovuto fare e dire insieme a lui, in passato, nel presente, nel futuro. 
Fu alla seconda, o forse alla terza pagina; quando cominciai a tossire violentemente mentre leggevo che se l'avessi incontrato prima forse non sarebbe finita così, che la sua mano si mosse, debolmente e lentamente. Chissà cosa voleva dirmi. 
Mi limitai a dargli un bacio sulla guancia, in un punto in cui il respiratore artificiale non arrivava. Mosse nuovamente la mano, rivolgendo il palmo in su. Sorrisi, sussurrandogli qualcosa, e poi gli tenni la mano, mentre leggevo. Mi sembrava che il peggio fosse passato, in quel momento. L'attesa era stata giusta, mi aveva ripagato regalandomelo di nuovo dopo tanti giorni passati nel sonno.
 
«...per tutto, per sempre, io e te» smisi di leggere le ultime righe, appoggiando i fogli sul comodino. Guardai l'orologio: l'orario visite era quasi finito.
Dovevo approfittare di quel momento, o non l'avrei fatto mai più.
 
«Io... so che non puoi rispondermi, anche se vorresti... per ora te lo dico io, poi me lo dirai tu, ok? Però... senza che io lo legga o sia sicuro che non mi senti... io ti amo» la sua mano scattò appena, chiudendo il mignolo sopra la mia mano. Quella era la sua risposta.
Lo salutai, cercando di non piangere. Ero davvero felice che tutto quello stesse accadendo davvero. Credevo di aver davvero perso le speranze si svegliasse. 
Il giorno dopo fu quasi una fotocopia del primo, ad eccezione del fatto che la sua mano si mosse diverse volte, arrivando a chiudersi debolmente intorno la mia. Riuscì anche a muovere leggermente la testa, voltandosi verso di me. Ero sicuro si stesse sforzando in tutti i modi per mostrarmi che era vivo, che ormai stava guarendo, e che era grazie a me. Forse mi sussurrò anche qualcosa, ma magari lo immaginai.
Cominciai a dare in giro la notizia, preparando tutti al "grande ritorno", essendo sicuro che a Manuele avrebbe fatto piacere vedere le persone che gli erano accanto, riunirsi per salutare il suo "ritorno al mondo".
 
Il sole lentamente si cominciava a nascondere tra gli alberi, tingendosi dei colori più caldi, mentre l'acqua intorno continuava a frusciare indisturbata. L'aria si faceva pungente, e le lacrime che mi bagnavano gli occhi sembravano asciugarsi con il leggero vento che aveva cominciato a soffiare. 
Mi alzai, pulendomi dall'erba che avevo addosso, e mi avvicinai al piccolo ruscello, limpido e trasparente.
«Dovevo essere proprio un pazzo per convincermi ad amarti in quel modo, fino in fondo, vero?» accarezzai la superficie con una mano, sentendo il brivido dell'acqua fredda percorrermi il corpo. Mi sembrò quasi di sentirlo avvicinarsi dietro di me, respirando appena, occupato a mettermi un cappotto sopra le spalle, abbracciandomi e sussurrandomi le parole più dolci che trovasse, accarezzandomi con le labbra la pelle.
 
«Non ho smesso neanche quando mi hanno detto che non c'era più niente da fare... piuttosto ho cercato di farti rivivere mille e più volte nella mia testa, nelle mie storie, nelle poche Polaroid che mi rimangono di te...» sentii qualche piccola goccia appoggiarsi pigra sul bordo degli occhi, cadendo poi innocenti nell'acqua, smossa dalla mia mano. Mi allontanai dai cerchi concentrici, in lotta tra loro, andando a recuperare il quaderno da terra. 
Avevo ricordato tutto, con calma.
Avevo ricordato che in realtà la sera del quattordici gennaio i medici dichiararono la morte cerebrale, avvertendomi soltanto la mattina dopo, e togliendomi il respiro che trattenevo ormai da troppo, troppo tempo, aspettando che lui tornasse almeno a parlare. Non potei neanche dire "me l'aspettavo", niente. Nessuna consolazione, né dal mondo, né da me stesso. 
Solo le campane che suonavano, mentre la chiesa si riempiva di uomini e donne vestite di nero, alcune in lacrime.
Solo gli abbracci con gli amici di sempre, ed i pianti con i genitori.
Un silenzio indegno, come il fastidioso fruscio delle cassette prima di finire.
Il nastro era finito, e girava a vuoto, senza qualcosa a fermarlo.
 
Rimasi un altro mese intero a Roma, dopo la morte di Manuele, mentre la malattia avanzava. 
I suoi genitori mi dissero che se volevo rimanere per finire di studiare, avrebbero pensato loro alle spese. Si mostrarono più che disponibili, e pronti ad accogliermi come un figlio. Anzi, a dire il vero... sospettavo quasi volessero sostituire lui con me. Ma io non potevo più vivere nella stessa casa che era stata dapprima sua, e poi "nostra", per quanto lo Stato lo negasse.
 
Tornai dalla mia famiglia nell'apatia più totale. Il mese che avevo passato a Roma era stato per impacchettare le cose, e cercare di portare via più cose possibili, cercando di tenermi più dimostrazioni possibili che Manuele era esistito, che non era stato tutto una mia illusione o pazzia. Ne approfittai anche per rendermi conto della situazione economica della mia famiglia, così da essere cosciente del fatto che tutto ciò che avrei dovuto fare una volta tornato là, sarebbe stato lavorare. Mi bastava come pensiero.
Mi evitava di pensare troppo al perché la mattina mi svegliavo, per cosa vivevo, per cosa avevo vissuto finora, almeno.
Non salutai nessuno, se non i genitori di Manuele, e troncai i miei fili con quella vita che evidentemente era stato troppo da chiedere, per uno come me. 
Dovetti usare un'intera cabina del treno per il viaggio, perché avevo riempito due valigie solo con alcuni vestiti di Manuele, le nostre foto, le cose che più mi ricordavano che lui aveva vissuto con me. Forse mi sentii in colpa a portarle via, e ancora più in colpa a dover usare degli oggetti per dare alla mia vita la prova che era tutto successo realmente. Ringraziai i miei neuroni elettrificati che ormai connettevano sempre meno.
Quando scesi dal treno, con la dovuta fatica a causa delle valigie, trovai entrambi i miei genitori ad aspettarmi. Fu mia madre la prima a venirmi incontro zoppicando, vedendomi fermo davanti il treno in partenza, spaesato. Cominciò a piangere ancora prima di potermi abbracciare. Appena le fu possibile, mi strinse forte, così che si accorse di quanto fossi dimagrito. La abbracciai anch'io, le parlai, dicendo che secondo me stavo bene, e lei rispose che ero troppo pallido e sciupato, che ci avrebbe pensato lei a farmi mangiare. Mio padre rimase per diversi minuti a guardarmi, seduto sulla panchina, mentre abbracciavo mamma.
 
«Non ti scomodare, per carità...» gli dissi, guardandolo negli occhi, quando gli arrivammo davanti. Lui di tutta risposta si accigliò ancor di più di quanto non fosse, per poi commuoversi in silenzio, alzandosi ed abbracciandomi. 
Mi disse che ero cambiato tanto, e che ci sperava davvero di vedermi, presto o tardi, prima di venirmi a cercare con i cani della polizia.
 
Non accennarono nulla per mesi riguardo Manuele, forse per rispetto... o forse per paura. 
Trovai un lavoro come tecnico di una tipografia che si occupava della stampa di giornali locali e volantini, per conto di varie agenzie pubblicitarie. Almeno qualcosa che sapevo fare.
Una volta conosciuto meglio il posto, riuscii anche ad ambientarmi, e conoscere qualcuno.
In un certo senso... la vita che cominciai a fare - lavorare di notte e dormire di giorno, crollando la mattina - sembrava accontentarmi. I momenti liberi erano davvero pochi, ed i vuoti di memoria aiutavano a non pensare al passato. Solo la notte, mentre i giornali stampavano, ed il rumore delle macchine si mischiava a quello della radio accesa, il mio ritmo infernale perdeva qualche battito e dava modo alla depressione di prendere il sopravvento. Cominciai a leggere, cercando di non lasciare spazio a quei ricordi, di impedirgli di mangiarmi.
Non potevo lasciare me stesso uccidermi prima del tempo.
 
Qualche mese dopo il mio ritorno, mia madre si accorse che avevo qualcosa che non andava. Mi costrinse, insieme mio padre, a portarmi all'ospedale, dove pronunciarono più volte quel nome martellante... "tubercolosi miliare". Molti dei medici si rammaricarono alquanto con i miei genitori, dicendo che la malattia sembrava in uno stadio avanzato, ma che era ancora curabile. Avevo ormai ventinove anni, e di quei sogni di diventare sceneggiatore, o politico, neanche l'ombra. Non ero riuscito a diventare famoso, come invece speravo, né avevo più un futuro, ormai.
 
La verità, Rebecca, è che inseguendo quel sogno d'amore in cui sono rimasto intrappolato, sono rimasto nel piccolo anonimato di "tecnico". So che ora tu, amica mia, vorresti rendere giustizia a qualcosa che poteva esserci e non c'è stato. Ho sempre amato la tua naturalezza nei confronti della vita. Probabilmente è in questo modo che mi hai convinto a scrivere questa lunghissima lettera, credendo di ricavarne qualcosa dopo tutti questi anni che non ci sentivamo. Verrai a sapere anche della mia malattia, e non so cosa ne penserai, anche se so la capirai.
Ti dirò... sono quasi stanco di raccontare di me. Ho iniziato ieri a scrivere, quando sono tornato dal solito posto, quello che da piccoli guardavamo da lontano e credevamo irraggiungibile... ora c'è un piccolo sentiero, ed è un paradiso. Se mai tornerai giù mi piacerebbe fartelo vedere. Dicevo, però, che ho iniziato ieri e finisco soltanto oggi, dopo quasi quindici ore ininterrotte di scrittura. Mi fanno male gli occhi. 
Non ero più abituato a leggere e rileggere le cose per tutto questo tempo, specialmente se scritte su un monitor.
Tuttavia, ti ringrazio. Nello scrivere, sono riuscito a piangere, a ridere, ad avere nostalgia... a sentirmi realizzato, dopo tanto tempo, ed a ricordarmi molte cose che credevo perse durante quegli insulsi anni in clinica.
 
Non è molto come storia, lo so... forse speravi riuscissi a romanzare, a metterci qualche inseguimento, un paio di pistole - ah, giusto, quelle già ci sono - potevo non so, metterci del porno... ma forse smettendo di scrivere, dopo la morte di Manuele, ho smesso anche di inventare. Magari è questo che renderà interessante questa storia, se davvero la faremo diventare una sceneggiatura come hai detto. 
Sono passati quasi dieci anni dall'ultima volta che ho toccato una penna per scrivere qualcosa di "serio", eppure... quel rumore della carta sul foglio, nel silenzio intorno... quell'odore d'inchiostro fresco, appena smosso dallo scivolare della mia mano su quella carta fine e leggera. Forse non avrei dovuto neanche smettere di scrivere, ti pare? 
Solo che... c'ho provato, in questi anni. Mi mettevo con un po' di angoscia davanti ad un foglio, intimorito da quello che potessi scrivere, inventare... ma tutto ciò che usciva invece era la realtà, e lui: lui sindacalista, lui innamorato, lui sognatore, lui uomo, lui amante... non c'era spazio neanche per me, tra quelle righe, e mi sembrava un peccato sprecare dei fogli per ricordare a me stesso cose indelebili, per quanto confuse. 
Ho provato anche a scrivere delle poesie, ma... da qualche parte dovrei averle, anche se ne sono troppo geloso affinché possano essere considerate belle. 
Invece questi fogli... questi credo li lascerò qui, sul tavolo, dimenticandomene... come facevo prima, quando ancora non ero così possessivo con i miei pensieri e ricordi.
 
Tuttavia... credo di essere tentato dal portare con me tutto questo. Non per gelosia, ma piuttosto per... compagnia. Per averlo con me mentre i miei rimorsi, i miei ricordi, le mie speranze, i miei sogni e tutto ciò che è rimasto di quella vita sognata e irrealizzata mi accompagnerà lì dove voglio arrivare: al centro della terra, o al punto più vicino possibile. Ti chiederai, forse, "e come?" con i tuoi grandi occhi color nocciola, come quando da piccola ti dicevo che sarei diventato famoso e tu meravigliata volevi sapere come avrei fatto... mi dispiacerebbe pure di averti creato tutte quelle illusioni, se non fosse che tu sei davvero realizzata e, forse, famosa. 
Devo avvisarti però che quelle illusioni a me hanno rovinato. I resti della mia anima sono da qualche parte in quella casa, lì a Roma, e ormai anche la tubercolosi mi sta sfinendo dall'interno. Un po' come lui, insomma.
 
Mi dispiace davvero carissima, credevi di darmi un futuro, quando io stesso ho deciso che non ci sarebbe stato, né ci sarà. 
Perdonami... spero capirai quanto io possa voler pagare per quell'egoismo e quell'ingenuità che ho fatto pagare a lui.
Forse questi fogli te li recapiteranno i miei genitori... o almeno lo spero. Almeno questo glielo lascio decidere, per farli contenti, per quanto potranno esserlo quantomeno.
Ho un treno per Roma tra poco. Ti lascio scritto il mio ultimo pensiero, prima di andare a vedere la "nostra" casa, a cercare come un morto di fame le ultime briciole di ricordi, e riavvolgere il nastro fino a quel lontanissimo 1993... sai che i Duran Duran hanno pubblicato uno dei loro album più belli quell'anno? Si chiama "The Wedding Album"... buffe coincidenze, vero? Ma mi perdo in chiacchiere.
 
Volevo solo dare un finale alternativo a questa vita. Non posso tornare davvero indietro nel tempo, è vero... ma posso lasciare un ricordo di me che forse ti aiuterà a non essere dispiaciuta per quello che ti diranno riguardo la mia fine. Così come tutti quelli che leggeranno, magari.
 
Ho vissuto credendomi migliore. Superiore agli eventi della vita, pronto a combatterli uno ad uno, perché io ero migliore, più forte.
Tuttavia... ho trovato una cosa che mi è risultata invalicabile, limitante. Credevo che il silenzio, per me sacro, fosse l'ultima cosa di cui avrei dovuto aver paura. 
Col tempo invece... mi sono accorto che in realtà, quando la confusione intorno diventa silenzio, e ti trovi a sentire la solitudine fare eco dentro di te anche mentre sei circondato dalle persone... allora devi spaventarti, chiederti se sei ancora vivo, e nel caso fosse così, chiederti perché il mondo non fa più rumore. Significa che c'è qualcosa che ti impedisce di sentire.
Un sussurro sommesso, forse.
 
Un sussurro soltanto, che nella notte ti tiene sveglio, nel caldo di quel suo tocco leggero sul tuo corpo, che ti leviga, raggiungendo il viso e baciandoti appena sulle labbra, strusciandole trattenendo il fiato e tu, emozionato, non puoi far altro che rimanere immobile, speranzoso che quell'attimo sia l'ultimo, e l'eterno. 
Ho immaginato più volte che fosse un soffio di vento, nascosto dal buio e dalle bugie della mente oscurata, e chiusa da quelle sensazioni dolci, quelle romantiche carezze di pensieri altrui. È probabile che sia ancora più ingenuo, a non accorgermi di cosa è in realtà.
Realizzando l'esistenza di tutto questo, mi sono accorto di non aver vissuto che per incontrare ogni notte quel fruscio leggero nei miei ricordi, prima d'addormentarmi del tutto. 
Un dolore e un piacere continuo, come se ci fosse lui, lì, accanto a me, a sussurrarmi nell'orecchio, intrecciando le sue braccia con le mie e lasciando sfogare quel ragazzino che ogni notte lo ricordava, nell'imperscrutabile penombra e nella paura costante del dimenticarlo.
 
Ho vissuto soltanto... per quel nostalgico, fastidioso e piacevole fruscio appena percettibile, proprio come quello delle cassette giunte, dopo la musica, alla loro fine.
È così anche la mia, di fine, su un foglio rimane impressa. 
Macchie su maestosi drappi bianchi ed il coro delle mie e sue giornate, giunte al termine.
Che il mondo sappia quanto ho amato vivere questa musica.
 



Nota:

Ok, non è il massimo e possibilmente ci saranno degli errori... se li trovate, farlo notare è molto più di benvenuto :P per il resto, accetto volentieri critiche di qualunque tipo (evitate di essere acidi, giusto per sottolinearlo) elogi, mezze critiche, mezzi elogi, sputi (virtuali) e quant'altro...

Il testo è un'opera di finzione ed ogni riferimento a persone o eventi realmente accaduti è puramente casuale.
Spero sia stata (o sarà) una buona lettura.
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Ukeboy