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Autore: Ukeboy    17/10/2011    1 recensioni
Vincent è un ragazzo, come possiamo esserlo io e te, se solo non fossimo davanti ad uno schermo a leggere parole su parole.
Un giorno, mentre aspettava vicino a me che qualcuno ci venisse a prendere, mi disse: "siamo tanti piccoli punti, in un mare grande quanto dev'essere una vera capitale dei sogni, verso cui tutti puntano per vivere, per dare ai propri figli la speranza di un mondo migliore di quello da cui si parte".
Non so se io avrò mai figli, o se lo sarò mai più io, un figlio. Ho imparato a non aspettarmi troppo nell'immediato futuro, anche se in un miracolo ci spero sempre. Aiuta a sorridere ancora, ogni tanto.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non voglio ricordare il mio passato perché non posso piangere mentre siamo qui. Merce di scambio.
 
«Lasciami, dai, ho detto di no» sono strattoni le carezze che ricevo più spesso. Siamo in Italia, siamo adulti, pur non sapendo cosa vuol dire.
«E 'namo, non fa l'antipatico, ti offro una cena, dai! Pure una doccia» ricordi o no, questa è la mia vita. A lei non piacciono molto i ricordi che ha, però.
 
«Lasciami, che cazzo! Vaffanculo!» il rumore di una portiera sbattuta, i passi veloci, il respiro affaticato, fumoso nell'aria gelida di Gennaio. La strada è libera, si può correre stasera.
 
Mi chiamo Vincent, sono... beh, non sono europeo, senza specificare. Non so quasi più neanch'io se sono turco, egiziano, albanese, rumeno... sono un immigrato, ormai sembra basti sapere quello. L'importante, sempre, è continuare a scappare. 
La mia direzione stasera? Forse il centro, forse una strada...
 
«Mi sono sempre immaginato l'Italia come il paese più allegro del mondo, ma forse dovrei provare l'Olanda» ho detto qualche giorno fa, ad una giornalista; era una donna, piuttosto alta rispetto me, con dei grandi occhi verdi che si spalancavano ad ogni mia risposta. In realtà... un po' tutti erano piuttosto alti rispetto me.
 
«Ho iniziato a credere che la mia vita è fatta per questo... lo chiamiamo lavoro, noi» le dicevo, mangiando un panino ripieno di roba rosa e gialla. Il martedì sera si mangia sempre bene ad Ostiense.
 
Stavo ripensando... forse avrei dovuto accettare la proposta del ragazzo di prima. O uomo, o bastardo o... beh, fa nulla, ormai è andato.
Non c'è un vero e proprio senso adesso nel mio correre verso Termini, anche perché se continuo con questa foga arriverò alla stazione solo col pensiero. Mi fermo, riprendo fiato, tossendo un paio di volte con il freddo nei polmoni. Mi sembra di aver corso tutta la vita.
Con calma riprendo a camminare, barcollando leggermente. Mi riassesto la giacca, cercando di coprirmi almeno la pancia. Fanculo ai calzoncini e le magliette corte.
 
«Dovresti provare ad andare in una casa famiglia» mi aveva detto una volta, fumando, un cliente. Intorpidito dall'insolito caldo di un letto e dalla stanchezza, non mi preoccupai troppo di fargli notare il mio permesso di soggiorno mancante. L'importante, a volte, era godersi quei piccoli momenti in dignità, in silenzio, approfittandone finché potevi.
È ancora presto, stasera. Speriamo non ci sia troppa gente ad aspettare già. Non sopporto il freddo, ma forse mi piacerebbe di più se avessi i soldi per scaldarmi.
Oh, cazzo...
Un gruppetto di gente, poco più avanti, cammina spingendosi a vicenda e ridendo. Due hanno delle birre in mano, e sono quattro. Guardo intorno: nessun vicolo disponibile... niente; camminiamo e speriamo.
Uno del gruppo alza la testa, distrattamente, e mi nota. Mentre ride con gli amici e sorseggia birra, mi lancia occhiate. 
Cosa vuoi, stronzo. Se non hai soldi non mi guardare si avvicinano sempre di più, apparentemente non notandomi. Dieci passi, cinque, due... li sfioro, appiattendomi contro una saracinesca chiusa. 
Mani in tasca, occhi bassi... sono passati tutti?
«Ciao» cazzo... mai che una cosa vada per il verso giusto. Continuo a camminare, cercando di rimanere calmo e non accelerare il passo.
«Mi sa non ha sentito... ao! Ragazzino» continua ad ignorarli, continua, continua... è davvero così lontana la stazione?
«No, fa finta di non sentire» dice uno con tono sarcastico. Il gruppo è silenzioso; probabilmente mi stavano osservando allontanarmi, fermi. Mi sono sempre chiesto cosa pensano i gruppi di persone quando stanno fermi, in silenzio, a guardare qualcuno o qualcosa. Io, un gruppo non lo ho, ma sono amico di tanti.
 
«Ti piace qualcuno?» mi aveva chiesto una sera, uno dei pochi clienti che ho visto più d'una volta. Era raro incontrarli un paio di volte, quasi impossibile più di due sere: molti si vergognavano a caricare sedicenni in macchina, per passare poi un'ora, una notte, o addirittura una giornata di "divertimento".
«No» risposi, ricordando quello che Radel mi aveva consigliato. Radel sapeva sempre come evitare i casini... lui era a fare quella vita da ancora prima di me, io almeno prima lavavo i vetri delle auto, credo. Non ricordo più. "Se ti vogliono parlare parlagli, se ti vogliono baciare baciali, se ti vogliono scopare, stai zitto e lasciati scopare". 
In realtà, non riuscivo a farmi piacere nessuno, forse perché quotidianamente una testa di cazzo a caso mi tirava a destra e sinistra - se andava bene - sui propri letti, ordinandomi cosa fare. Magari se qualcuno me l'avesse ordinato, qualcuno mi sarebbe piaciuto.
«Mi dispiace, non puoi immaginarti nulla di bello» continuò l'uomo. Era un trentenne piuttosto alto, leggermente grasso, con dei corti capelli brizzolati ed il corpo sicuramente mai depilato. Dettagli importanti, quando devi soddisfare le persone.
«Posso immaginare... vivere come una persona vera, avere una famiglia, un lavoro reale, magari che non mi piace, o che è pesante... posso pure immaginare di...» e mi interruppe, come si interrompe una canzone noiosa. Aveva smesso di pensare ai miei interessi, per iniziare ad occuparsi dei suoi, e far parlare solo il sesso. 
Mi ripeto spesso una cosa, che so... è piuttosto banale: mai affezionarsi troppo. È giusto nel mio caso, almeno. Forse è questo il motivo per cui ho imparato in fretta a non fidarmi neanche delle persone per strada. Credo sia una cosa che peggiora col tempo: parti con la diffidenza verso un paio di persone, poi diventa un gruppo, poi diventa un tipo di persona, poi i tipi di persona simili a quella e poi... finisci per non fidarti più di nessuno.
Di giorno infatti evito di girare, la polizia è dovunque e la mattina si trovano più posti liberi per dormire, in giro. È noioso sedersi da una parte, magari un po' nascosta, e riposarsi, oppure chiudersi in un bagno, aspettare se ne vadano tutti, e lavarsi dai lavandini. Di tanto in tanto vado anche al centro d'accoglienza per quelli come me, ma è un posto che mi mette paura... mi spaventa quello che dice Radel. Preferisco sopravvivere, per ora. È per questo che non sono molto pratico di gruppi e persone "normali", anche se mi piacerebbe conoscerlo, qualcuno senza il problema di trovare ogni mattina il coraggio di arrivare al giorno dopo senza vere aspettative. Lo vorrei conoscere al di là di un letto, di un vicolo o di una macchina... vorrei conoscere qualcuno in grado di insegnarmi cosa dovrebbe fare una persona dopo essere nata.
 
Nasci. E poi? Cosa devi inseguire? A chi devi somigliare?

A me piace somigliare a Radel. Non lo dico troppo in giro perché tra di noi diciamo sempre che è meglio non stringere troppo le amicizie, che un giorno può capitare di sparire, o di non trovarsi più. In giro si parla di un certo Laim, dicono l'abbiano spedito in Francia dopo avergli convalidato alcuni permessi. Io non le capisco queste cose, so solo che, se mai dovessero obbligarmi a farle, non rivedrei più l'Italia.
E la paura delle persone è più forte quando cambi stato.
 
«Ao! Insomma, ci senti?» passi svelti sul marciapiede, l'ombra lunga contro la luce dei lampioni che si avvicina, la coda dell'occhio che vede le dita della mano raggiungere il mio braccio. Un movimento violento, per scansarmi, e continuare a camminare. Andate via, andate via, andate via...
«Ma guarda questo...» i passi si sono fermati. Finalmente, oh Cristo, ogni tanto allora qualcosa di bello succede.
«Lascialo stare, dai, è un barbone...» conclude un altro ragazzo, cominciando ad allontanarsi. Io... neanche esisto, non sono un barbone... lo sei tu, al massimo. Non sai nulla di me, non sai nulla di me... idiota.
Idiota.
 
«Barbone sei tu» un soffio, una voce fin troppo alta, un sussulto.
«Che cosa?» è la risposta. Non pensare, non dire. Scappa.

Forse è questo il mio problema: ho ancora troppe idee da difendere e troppa considerazione delle persone. Sono anche troppo deficiente, probabilmente...
Scappando, di nuovo. Stavolta senza un vero inseguitore: correvo da solo, o almeno così sembrava. Un'occhiata dietro di me, rischiando di perdere l'equilibrio: nessuno.
Andiamo, andiamo... quanto manca...  rallentai nuovamente, scorgendo finalmente in lontananza le grandi luci abbaglianti riflesse sui vetri dell'entrata alla stazione, come sempre piena di gente nonostante l'ora. Forse le undici, mezzanotte... c'è ancora un treno fermo con le luci accese... allora non può essere più di mezzanotte. C'è ancora speranza di trovare un posto riparato per dormire. Magari una pensilina...
 
Avvicinandomi, noto un paio di facce conosciute, solite dei posti in cui io ed altri ragazzi andiamo di frequente. Un ragazzo piuttosto alto, vestito leggero e con dei jeans larghi, ma belli, ride e scherza con due che conosco; uno è Diruk, un rom serbo, l'altro... non ricordo. Forse Andrei, o Nari... ma poi chissene. Meglio aspettare se ne vadano. Mi ha detto Radel, una volta, che se vai troppo spesso da loro poi ti convincono a farti schedare, e se ti schedano è come ritornare indietro da dove sei venuto; se ti va bene puoi fermarti al primo paese in cui sei immigrato. Io sono salito su una barca, pagandomi il viaggio con i soldi che mi avevano dato i miei genitori. I nostri traghettatori ci avevano diviso, messo su due barche diverse; eravamo dentro alcuni container verdi e neri, sopra decine e decine di scatole imballate, piene di cose superflue, sicuramente più dell'aria che era iniziata a mancare a metà viaggio. Ricordo il buio, e la polvere dentro la bocca, nei polmoni... mia mamma, prima di partire, mi aveva dato un respiratore, di quelli che si usano quando hai l'asma... mi aveva detto che se non respiravo potevo usare quello. Non lo so se ha funzionato, non me lo ricordo, però quando sono arrivato a Fiumicino, dopo aver lasciato la barca per un più scomodo tir, avevo ancora il respiratore in tasca, e lo ho tuttora. Lo uso quando mi sento soffocare nelle auto o nelle stanze dove mi portano, è quasi un pensiero che mi fa rimanere nella realtà quando tutto smette di esistere, trasformandosi solo in un buio impaurito e comandato.
È straziante a volte pensare dove... se erano arrivati, al perché non c'eravamo incontrati allo stesso porto, per quale motivo non c'era nessun viso familiare una volta sceso dalla nave. Dove erano? E se non erano... dove sono scomparsi?
A volte mi chiedo se schedandomi non riuscirei a recuperare le loro tracce, ma la paura mi blocca. Non voglio rischiare di perderli per sempre, magari... magari un giorno ci saremmo incontrati per strada, per caso, e tra abbracci e pianti avremmo risolto i nostri problemi. Questa però è una speranza, quindi la smetto di sognare.
 
Finalmente il ragazzo se ne va, portandosi dietro quello di cui non ricordavo il nome. Mi avvicino, magari per informarmi sulla situazione di stasera da Diruk.
Un cenno, un saluto, un sorriso stanco. Ha i capelli più neri del solito stasera; mi piace Diruk, è bravo. E poi mi da uno strano senso di tenerezza, anche se è più alto e grande di me. Sarà per colpa del viso da bambino, o dei capelli lunghi, simili ad un cesto di frutta deformato, oppure gli occhi azzurri limpidissimi, simili a quelli dei bambini appena nati. Mi faceva piacere stare con lui, mi faceva sentire un po' a casa.
«Ciao...» sorrido appena, innervosendomi subito al suo sguardo interrogativo. Non mi ricorda?
«Ciao, serve qualcosa?» no, evidentemente non mi ricorda. Rimango a fissarlo un po', senza un vero e proprio senso di delusione, ma un più semplice interrogativo sulla sua sincerità.
Un guizzo nei suoi occhi, un sorriso più vivo degli altri.
 
«Sto scherzando, cretino!» ride, tirandomi una pacca sulla spalla. Mi stringo in me stesso, sorridendo: che brutto scherzo.
«Avevo capito sai...» mi avvicino un po', infilando le mani nelle tasche della giacca per tentare di sentire meno il freddo.
«Vuoi?» dice lui, tendendomi un paio di guanti colorati. Sono un po' sfilacciati, ma mi dovrebbero tenere caldo, perché non accettarli?
«Grazie... com'è stasera?» chiedo, mentre cerco di sistemare il pollice del guanto sinistro per non farlo scivolare. È strappata la cucitura, che peccato.
«Non tanto diverso... la stazione stasera è vuota, non c'è nessuno del gruppo di dove vai te» cosa? Lo guardo per un momento, piuttosto assente, con la testa impegnata a pensare a dove potevano essere andati tutti. Non eravamo molti, al massimo una decina scarsa, ma eravamo tutti in situazioni simili: addirittura due di quelli che aspettavano insieme a me erano scesi dalla mia stessa nave. Era un po' triste sapere di non trovarli più.
«Prima è passato...» seguiamo con gli occhi un'auto bianca, scintillante, che lentamente accosta poco davanti a noi. Rimane per un po' lì, con il motore acceso; dentro si potevano vedere dei movimenti piuttosto violenti di un profilo di un uomo che gesticolava contro quello che sembrava un profilo femminile. Peccato, di nuovo.
«Sì, l'ho visto, che t'ha detto?» osservo ancora per qualche attimo la scena della macchina, finché non ne scende una donna vestita con una camicia bianca ricamata e dal collo di pizzo, insieme ad una gonna decisamente troppo corta per quella stagione. Non mi piacciono le donne così, sembrano quelle che fanno il nostro stesso... mestiere.
 
«Mi ha detto di dire in giro che dopodomani organizzano una specie d'incontro... vogliono riunire quanta... ah... tanta gente, sì... ha detto che è una cosa bella, perché un'azienda cerca alcuni lavoratori...» si interrompe, un po' confuso, cercando nell'aria le parole che non sapeva.
Non gli avevo mai chiesto da quanto era arrivato in Italia, né se la sua famiglia gli aveva insegnato un po' l'italiano. Io fortunatamente sono riuscito ad impararlo quasi subito, anche se è difficile parlarlo, sopratutto quando a Roma le persone parlano in modo tutto diverso da come ti insegnano i genitori.
«Ma puoi lavorare... anche senza schedarti?» strofino le mani, scaldandole con il fiato. Tanto la risposta già la sapevo.
«Eh... no... però hanno detto che sopra i sedici possono ospitarti in una casa famiglia di qui per qualche mese, poi ti mandano a fare i controlli...» si assesta il grande cappotto avana, gonfio e ripieno di piume, alcune delle quali sporgenti in alcuni punti. Doveva tenere caldo, decisamente, chissà dove l'aveva preso.
Era piuttosto buffo stare lì, di fronte la stazione, parlando tranquillamente. Se la polizia ci avesse visto, probabilmente ci avrebbe riconosciuto e portato in questura. Ormai un sacco di poliziotti ci avrebbero riconosciuto a vista, e arrestato per duemila reati diversi. Una volta li avevo visti, in lontananza, mentre guardavano proprio me, che ero appoggiato ad una macchina accostata, pronta a caricarmi. Lì per lì non ci feci molto caso, anche perché finché non venni a sapere che se ci prendevano ci portavano in questura e ci arrestavano - una cosa diventata famosa dopo l'arresto di una decina di ragazzi, una sera - pensavo non potessero farmi molto, se non dirmi di tornare a casa dai miei parenti. Evidentemente mi sbagliavo.
 
«Oh, Diruk... io vado, voglio rimediare qualcosa per domani» dico, tendendo una mano per salutarlo. Lui mi guarda un attimo, curioso, per poi sorridere e ricambiare la stretta di mano, accompagnando una pacca sul braccio.
«Vai al solito posto?» un cenno con la testa, ed il suo sguardo malinconico mi accompagna per tutto il tragitto dell'enorme galleria che è Termini, mentre vado a sistemarmi sul vicolo - anche se vicolo non è - nella parte posteriore dell'enorme edificio della stazione. Faccio uno scalo ai bagni, cercando di ignorare il più possibile la grassa donna dei cessi, anche a quell'ora immancabilmente lì, seduta sul suo trono di plastica ad abbaiare indistintamente a chiunque, mentre invece ciò che doveva fare era solo pulire ogni tanto e dirti come fare per aprire la porta, se non sapevi come fare.
La realtà, però, era che aveva scoperto il suo talento di investigatrice, facendo quel lavoro. Sembrava avere una particolare preferenza a fare il terzo grado a chi non gli piaceva.
«Che devi fare?» mi chiede, con un mozzicone quasi finito di sigaretta tra le dita. Mi studia il viso, i vestiti, si assesta una ciocca di capelli tendenti al rosso da davanti gli occhi praticamente neri e la sistema dietro un orecchio, con naturalezza. Sorrido, saluto, cercando i soldi per entrare. Ci metto più del previsto, meglio prendere tempo rispondendo.
«Andare al bagno, che sennò?» rispondo, un po' preoccupato dalle tasche dei pantaloni vuote. Infilo una mano nella giacca, trovando un buco in cui riesco a recuperare tre pezzi da cinquanta centesimi, e poco più in basso altri quattro da venti. Bel modo per evitare che la gente "poco raccomandabile" si chiuda nei bagni. Quei soldi mi servivano per l'acqua... cazzo.
Dopo aver messo i settanta centesimi nella macchina, finalmente le porte si aprono, dandomi modo di scomparire dalla sua vista per un bel po'. Mi infilo in uno dei bagni senza nemmeno pensarci più. Mi dava fastidio solo notare come la fortuna capiti sempre alle persone peggiori... o forse è la fortuna che rende la gente insopportabile, non l'ho mai capito.
Faccio ogni cosa con calma, senza fretta, dandomi una "pulita", per quanto potessi farlo. Un uomo di mezz'età, con dei grandi baffi biondi e gli occhi azzurri mi guardava curioso, sorridendo appena, mentre mi sciacquavo la faccia.
«Auf wiedersehen» sussurro appena, quando esce dal bagno. Chissà se mi ha sentito. Chiudo l'acqua sorridendo.
Non c'era rimasto più molto da fare, ormai. 
Era tempo di andare ad umiliarsi un'altra volta, con il respiratore in tasca.
Esco dai bagni leggermente accaldato, forse perché mi ero fermato ad asciugarmi sotto quelle macchine dell'aria calda più del solito, percorro con calma un ultimo pezzo di strada, prima d'arrivare sul marciapiede di Via Giolitti, quotidiano luogo di ritrovo per prostitute, spacciatori, venditori di fumo o più semplicemente di giornalisti in cerca dello scoop di cronaca, o lavoratori stranieri accartocciati ancora più dei giornali e dei cartoni sotto cui cercano di ripararsi per dormire. 
Via Giolitti è un tumulto di persone, un indefinito paese a parte, specialmente la sera.
 
Roma sarà pure varia, ma i dintorni di Termini, la sera, sono un continuo collegamento di paesi, razze, etnie, desideri inespressi, aspirazioni sotto processo della vita di strada, sogni più o meno giusti. Più, o meno realizzabili.
È una città di lupi, questa, dove finti agnelli ogni tanto spuntano, spaesati ed impauriti, sibilando meccanicamente qualche parola in una lingua che non gli appartiene, così come ogni altra cosa. 
Una volta Radel mi ha detto una cosa bellissima, lui sa sempre cosa dire. Quando sono solo lui c'è sempre, ed ogni volta mi dà la forza di andare avanti.
Mi ricorda i miei genitori, anche perché somiglia un po' a mio padre. Anche a mia madre. Ha dei corti capelli castano scuro, degli occhi color nocciola, piuttosto grandi, ed è alto poco più di me. Un po' mi somiglia, ma lui è più bello, più simpatico.
Un giorno, mentre aspettava vicino a me che qualcuno ci venisse a prendere, mi disse: "siamo tanti piccoli punti, in un mare grande quanto dev'essere una vera capitale dei sogni, verso cui tutti puntano per vivere, per dare ai propri figli la speranza di un mondo migliore di quello da cui si parte".
Non so se io avrò mai figli, o se lo sarò mai più io, un figlio. Ho imparato a non aspettarmi troppo nell'immediato futuro, anche se in un miracolo ci spero sempre. Aiuta a sorridere ancora, ogni tanto.
Però... so che, prima o poi, troverò qualcosa o qualcuno da proteggere e difendere, anche se per ora devo occuparmi di Radel. Lui non ha nessuno, come me.
 
Due fari blu, il rumore grottesco e basso di un motore. Si ferma davanti a me, mentre puttane di tutti i generi, sessi e nazionalità mi guardano, alcuni facendo addirittura versi di scherno.
Si abbassa il finestrino, piuttosto scuro, da cui distinguo solo una figura deformata. La macchina è una normalissima monovolume grigia, ancora più anonima di lui.
«Sei libero?» ha una voce inaspettatamente brillante, il volto è leggermente rugoso ed ha un orecchino sull'orecchio destro. Ha la pelle rossastra ed i capelli neri, corti, con una piccola striscia grigia a destra. Dall'aspetto non sembrava italiano, anche se l'accento romano lo tradiva, ma doveva essere uno di quelli gentili, a cui però non devi chiedere troppo per non spaventarli.
«Sì... per una cena e una doccia è gratis» dico, appoggiandomi con il braccio al finestrino. Mi guarda, innervosendosi un po'. Dev'essere una delle sue prime volte: guarda distrattamente avanti, puntella il sedile del passeggero con la mano, si acciglia e si rilassa. Un tipo indeciso, sicuramente.
«Va bene, dai, sali!» esplode d'un tratto, con una punta di euforia nella voce. Ha un sorriso rassicurante, magari... 
Salgo sull'auto, piacevolmente calda e profumata di uno di quegli alberelli viola dall'odore che ti fa girare la testa. Mi appoggia una mano sulla gamba, mentre riparte, guardando se arriva qualcuno.
 
«Ciao, sono Julian... - soppesò le parole, evitando una macchina parcheggiata poco davanti a noi, la quale stava caricando due ragazzi - come ti chiami? Quanti anni hai? Mi sembri un po' piccolo per stare da queste parti...» mi getta un'occhiata addosso, sembra allegro. Non puzza d'alcool, il che è un bene; mi sistemo meglio sul sedile, muovendo appena una mano vicino la sua, senza toccargliela.
Il modo migliore per farli tornare, mi aveva detto una volta Radel, era farti vedere disponibile anche alle cose serie. "Devono sentirsi desiderati, mentre stanno con te" mi disse, anche se mi sembrò un po' triste nel dirlo, infatti aggiunse "Sai, devi sforzarti di farti piacere le persone, tutte quante, e vederne i lati positivi... l'unico modo che hai per uscire da tutto questo è avere qualcuno che ti tiri fuori, appena puoi... attaccati a qualcuno e non lasciarlo". La mano dell'uomo si mosse sulla mia, toccandola appena. Avevo visto giusto: era gentile, oltre che imbarazzato. Si sentirà in colpa per quello che sta facendo?
«Tutto ok?» mi chiede, con tono ansioso. Forse non sarebbe stato così tremendo sfruttare qualcuno, anche se poi mi sarei sentito peggio di ora. 
No... peggio di ora no.
«Mi chiamo Vincent... Vincent Radel, ho diciassette anni, diciotto a Marzo» si volta per un momento verso di me, quasi rinnovato da quelle parole. Chi avrebbe scoperto i miei documenti, dopotutto? Nessuno. Bastava inventare una buona storia, e sperare che i miei genitori dispersi mi aiutassero almeno a cambiare quella vita così inutile, rimanendo dispersi. In modo da sapere anch'io cosa fare nel futuro.

Un sussurro nell'orecchio, un fruscio simile ad una carezza, ed un incredibile senso di nostalgia, all'improvviso.
«È giusto così, bravo Vincent... è ora io vada, chiamami se ne hai bisogno» lo farò. Dopotutto, lui è una parte di me.
 
Julian tossisce un paio di volte, allarmandomi. Avevo fatto qualcosa? Lo guardo, spaventato da una sua possibile reazione.
«Che c'è, Vincent?» dice invece, spontaneo. Tiro un sospiro, sentendo il cuore sollevarsi dal suo stato di perenne dormiveglia per un motivo non ben preciso. 
A Radel, poi, dovrò dire che non c'è bisogno di smettere di sperare... sì. Devo ricordarmi di dirgli che anche in quelle strade, comprese le più buie e maledette, trovi ancora qualche speranza, sottoforma di misteriosi momenti insieme a degli sconosciuti. 
Sono sicuro, però, che lo sa anche lui... dopotutto, questa vita, non può essere altro se non un confuso e insensato gioco di bugie e convincimenti, in cui tutti finiamo, prima o poi.
 
Siamo desideri che vanno e vengono, incrociando le speranze, nelle vie di questa enorme ed insicura Capitale dei sogni.
   
 
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