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Autore: Mick St John    24/10/2011    1 recensioni
Mick sta lentamente riprendendo le forze dopo essere stato ferito nell'episodio precedente, il 18 (Death Symphony), ma il destino, oltre al suo corpo da vampiro, mette alla prova anche il suo cuore. Beth infatti ha troppi pensieri che la mettono in agitazione e capisce che qualcosa tra di loro sta cambiando.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Seconda Stagione di Moonlight in fanfic'
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Vi presentiamo il 19 episodio co-prodotto da Mick St. John , Lady Maeve, Daniela e curato graficamente da Faith.

Come al solito poche annotazioni per ricordare ai nostri lettori che utilizziamo anche delle fonti.

- L'intro è una fanfic di prorpietà di Lady Maeve cui va un GRAZIE gigantesco per la pazienza e il tempo dedicato al sottoscritto oltre che alla fanfic.
- I riferimenti storici prendono spunto da veri documenti storici e dai romanzi di Alexander Dumas.
- Brian White e Shemar Moore sono effettivamente amici e la foto non è un fotomontaggio
- La fan art di Sophia Myles è prelevata da http://enginemonkey.deviantart.com/
- Potete trovare informazioni e foto della Goldstein's House a questo link

Non ci resta che augurarvi buona lettura del 19° episodio della Moonlight Fanfic sperando che anche questo sia di vostro gradimento!






Moonlight Episodio 19

- Destiny -


Intro


********
1.

Los Angeles - 1922

Julie posò la scopa nell’angolo della cucina, soddisfatta.
- Bene!
Disse guardandosi intorno mentre controllava che tutto fosse pulito e in ordine.
Si tolse il grembiule appendendolo al gancio dietro la porta e andò in salone, prendendo il giornale che ancora non aveva avuto il tempo di leggere dalla mattina.
- Vediamo un po’...
Spiegò le pagine sulle gambe e lesse le notizie del giorno. Era un periodo abbastanza tranquillo, ovviamente tralasciando le solite rapine e gli omicidi che avvenivano puntualmente in centro.
La giovane donna sbuffò e ripiegò il giornale, stendendo poi le gambe sul divano e chiudendo gli occhi per riposare.
In quel momento il campanellino a vento della porta del suo negozio, tintinnò.
“Classico... ogni volta che decido di riposarmi un pochino arriva qualcuno”
Pensò alzandosi e mettendo su un finto sorriso, tornò in cucina e poi fuori, nel negozio annesso a casa sua.
- Mary, che sorpresa!
Disse sentendosi sollevata di vedere una faccia amica, mentre rinfilava il grembiule e la cuffietta per i capelli.
- Cosa posso fare per te?
- Mi servirebbe una crostata, Julie.
Disse la donna in rosso, guardando il bancone a vetro pieno di dolci.
- Come la preferisci? Crema o frutta?
Mary la guardò alzando le spalle.
- Non ne ho idea, è un regalo... ti ricordi quell’amica di mia madre? Annie?
Julie annuì.
- Si, certo...la moglie del signor St. John... Oh capisco, ha partorito?
Mary annuì con decisione.
- Si e come al solito la mamma ha mandato me a prendere il regalo.
- Beh, io ti consiglio questa!
Disse sorridendo, prendendo una crostata alla frutta.
- L’ho fatta stamattina e ne sono particolarmente fiera.
Mary sorrise di rimando.
- Perfetto, allora fammi una confezione regalo di quelle che solo tu sai fare!
- Certamente.
Disse iniziando a confezionare il dolce e per impegnare il tempo decise di approfondire la conversazione.
- Mary, hai poi più deciso dove andrai ad abitare?
La donna in rosso si lasciò scappare una risatina amara e i suoi occhi verdi si velarono di tristezza.
- No Julie, resto con i miei.
Julie la guardò sconvolta da quella risposta inaspettata.
- Ma come? Dopo tutto quello che mi hai detto?
- Non sono come te... io non potrei mai fare quello che hai fatto tu.
La pasticciera si accigliò.
- Quello che ho fatto io è un'altra storia, tu devi seguire la tua strada!
- Quella che i miei genitori hanno scelto per me è la più sicura...
Julie sospirò finendo di impacchettare la crostata, ma non osò replicare.
- Ecco a te, sono 25 dollari, Mary.
La ragazza pagò e prese il dolce, aggiungendo con tono malinconico e rassegnato.
- Non tutte hanno il tuo coraggio e non tutte hanno la tua forza... A presto Julie.

Quella sera Julie si spogliò con le parole di Mary in testa.
Era vero, lei era una donna forte e Jack glielo ripeteva sempre, ma l’unica cosa che aveva fatto era incaponirsi e seguire il suo sogno, lei voleva una vita semplice e soprattutto indipendente e così era stato.
Guardò il piccolo ritratto che sulla sua libreria, occupava il posto d’onore e sorrise.
- Tu si che eri coraggiosa...
Disse alla donna che le ricambiava il sorriso nell’acquerello.
La sua trisavola Jacqueline Elizabeth De Robert era stata adottata ancora infante e trasferita da Parigi a Londra, per essere cresciuta nella nobilissima famiglia inglese degli Stewart. Ma la nobiltà non era adatta a lei e la giovane Elizabeth sognava una vita semplice, lontano dalle complicazioni e dalle forzature cui la costringeva il suo alto lignaggio.
Così sfidando non solo la sua famiglia, ma anche tutti i principi sui quali il suo mondo ruotava, scappò dalla sua casa e in seguito a questo, venne diseredata e perse tutti i suoi averi.
Ma non avrebbe comunque potuto desiderare niente di meglio, perché non aveva denaro e non aveva cognome, ma aveva la sua libertà e la possibilità di continuare la sua vita nella maniera che più desiderasse.
Iniziò a lavorare come garzone per un Mastro pasticciere dell’epoca, di pochi anni più grande e che ben presto si innamorò di lei.
Si sposarono e lui le insegnò i trucchi e l’arte della pasticceria condivisi con tanta passione.
Vissero una vita semplice, ordinaria, priva di lusso, ma Julie sapeva che la sua antenata era stata la donna più felice della terra.
Ricordava ancora come sua nonna ogni sera le raccontasse quella storia, come se fosse la favola più bella, e sapeva che lei avrebbe fatto lo stesso con sua figlia o figlio, e poi con i suoi nipoti, affinché quella preziosa storia di coraggio non venisse mai perduta.
Era proprio in onore di quella storia così importante, che le aveva insegnato il vero significato della vita, oltre che per un'innata passione per i dolci, che lei aveva deciso di aprire una pasticceria.
A quel che ne sapeva, lei era l’unica della sua famiglia ancora in vita, dopo la morte di sua nonna, a conoscere quella storia. E presto si sarebbe sposata e avrebbe avuto un bambino e una famiglia tutta sua.

Los Angeles - 1928

La giovane Annie varcò con timidezza la soglia, chiedendo permesso con voce molto bassa, mentre attirava delicatamente il suo piccolo alla sua gonna lunga. La sua testolina non smetteva di muoversi, da una spalla all’altra, mentre si guardava attorno smarrito.
- Mamma, dove siamo?
- Sssh... Mick, amore fai il bravo... qui bisogna stare in silenzio!
- Perché, mamma?
- Siamo venuti qui per salutare la Signora Julie, te la ricordi no? La proprietaria della pasticceria dove la domenica andavamo a comprare quelle torte che ti piacevano tanto?
- Si, me la ricordo! Ma perché? Dove va la Signora Julie?
Chiese il bambino a bassa voce guardando la mamma incuriosito.
- La Signora Julie è andata in cielo, da Dio, lui l’ha chiamata a sé perché voleva, anche lui, assaggiare i suoi dolci.
- E quando torna, mamma?
Annie St. John si chinò ad accarezzare gentilmente i capelli sulla fronte del suo bambino. Aveva lo sguardo velato per la commozione di quella dolcissima e innocente domanda.
- No, Amore... non tornerà. Si è trasferita in cielo per sempre. Sarà più felice lì.
Mick si staccò dalla mamma e si avvicinò alla bara dove un uomo era seduto accanto ad un passeggino per neonati e piangeva.
Conosceva quell’uomo, era il marito della Signora Julie e probabilmente nella carrozzina, c’era il loro figlio, Mark, che la mamma gli aveva detto essere nato da qualche giorno.
Il piccolo Mick St. John era confuso e chinando leggermente la testa da una parte osservava con attenzione e riverente silenzio, mentre si domandava perché la Signora Julie avesse deciso di andare da Dio proprio quando suo figlio era appena nato.
Pensava che forse la Signora non fosse felice di aver avuto il suo bambino, ma non riusciva proprio a capire. L’unica cosa di cui era convinto davvero era soltanto che i grandi fossero strani.
Jack Turner ricambiò lo sguardo del bambino che lo stava osservando con gli occhi lucidi e pensò al suo Mark e alla sua Julie, che se n’era andata troppo presto e desiderò intensamente di avere la forza per crescere da solo quel figlio tanto amato, e aiutarlo a diventare uomo.


Los Angeles - 1981


Lo sguardo stanco e annoiato del vampiro scorse sul giornale.
“Gli annunci di nascita... Grandioso...”
Pensò, guardando pigramente i nomi di coppie che annunciavano a tutta la città di avere avuto un bambino.
Uno tra tutti attirò in particolare il suo sguardo vitreo.
- Mark Jr. e Cheril Turner sono felici di dare il benvenuto alla loro piccola Elizabeth.
Mick sbuffò e ripiegando distrattamente il giornale, lo lanciò sul tavolo.
Lo stomaco cominciava a reclamare ed era ora di uscire a caccia.
Alzò così la cornetta e compose il numero.
- Josef, ho fame...

Los Angeles - 1985

Cheril Turner si diresse a passo deciso su Drexel Avenue, il vento le asciugava le lacrime che continuava a versare.
In testa aveva un solo pensiero.
Beth... la sua piccola Beth.
E si domandava perchè una cosa del genere fosse accaduta proprio quando Mark non c’era più.
Quel dolore era insopportabile e doveva fare qualcosa.
Salì le scale respirando piano, per evitare di singhiozzare e per riuscire a parlare, mentre teneva la foto della sua bambina stretta fra le mani.
Bussò con mano tremate, decisa più che mai a farsi forza.
Ma quando l’uomo le aprì la porta, il discorso che si era preparata meccanicamente l’aveva ridotta alle lacrime.
La disperazione la fece crollare e abbracciando quel perfetto sconosciuto singhiozzò poche parole.
- Signor St. John, per favore mi aiuti... Qualcuno ha rapito mia figlia...



******
2.

MICK'S VOICE OVER

Sogni o ricordi... è tutto così ingarbugliato. Quello non era argento... Forse una nuova droga per vampiri... sto delirando.
Non ho molti ricordi lucidi di quando ero bambino, ma alcune volte mi capita di avere dei flash in maniera disordinata e confusa.
Tuttavia sono le cose più care che ho di loro.
Ricordo il profumo dei dolci che mi solleticava l'appetito tutte le volte che ritornando a casa, cercavo di convincere mia madre Annie a fermarsi in pasticceria. Lei mi guardava teneramente, sorridendo compiaciuta con gli occhi lucidi e non riusciva mai a dirmi di no.
Ricordo le corse sui prati, le cadute sui vialetti e le sbucciature sulle ginocchia che bruciavano in maniera pazzesca.
Ricordo come mi sentivo afferrare con forza e tirare su, quando mio padre Michael mi raccoglieva premurosamente da terra con le sue mani grandi, analizzandomi con lo sguardo preoccupato.
E poi mi sgridava, prima di darmi una sculacciata ben assestata, ma mai tanto forte quanto doveva essere.
Ricordo anche i lacrimoni che mi rigavano le guance, quando poi mi disinfettava con cura le ferite e non resisteva all’istinto di abbracciarmi e asciugarmi il viso col suo fazzoletto profumato di lavanda.
E ancora ricordo quanto scalpitavo nel banco, durante la messa della Domenica, incapace di starmene fermo ad ascoltare la predica, mentre i miei genitori faticavano a mantenere la concentrazione sul significato del sermone.
Sorrido sempre al pensiero dei capricci che facevo per un giocattolo nuovo, mettendo su il broncio coi pugni chiusi, facendo l'offeso.
O quando stavo sdraiato nel lettone dei miei genitori, coccolato dalle loro mille attenzioni, tutte le volte che avevo la febbre troppo alta per restare solo in camera mia.
Ero al centro del loro mondo, come loro lo erano del mio.
E quando iniziai a camminare con le mie gambe, mi sostenne sempre il pensiero che i miei genitori fossero dalla mia parte e vegliassero su di me sempre e comunque.
Certi colori e certi profumi mi aiutano a ricordare loro e il Mick di tanti anni fa.
Ricordo particolarmente bene una di quelle giornate serene, con mio padre che andava a lavorare con la sua ventiquattrore, il suo impermeabile e il suo cappello grigio e si voltava nel vialetto un’ultima volta prima di salire sulla sua Bentley blu.
Lanciava un’occhiata felice alla finestra dove io gli facevo "ciao", spostando le tendine a fiori, con la mia piccola mano ben aperta e lo sguardo pieno d’entusiasmo, mentre il viso dolce di mia madre, poggiato sulla mia spalla, accompagnava il mio saluto con il suo sorriso radioso.
Questa è l’ultima immagine luminosa e la più nitida che ho di loro, stampata nella testa come una cartolina.
Avevo sei anni allora e conoscevo solo la vita.
Quella cartolina ha perso ogni giorno un po’ della brillantezza dei suoi colori.
Neanche mi sono reso conto con quale velocità siano sbiaditi, lasciando il posto ad un atono giallo paglierino, come se fosse una carta vecchia e consumata, ormai ingiallita e macchiata, segno di un tempo ormai lontano.
Il problema dei ricordi è proprio questo.
Non riesci a trattenerli quanto vorresti, affiorano improvvisamente quando meno te lo aspetti. Certe volte emergono a tratti dall’abisso della memoria, i particolari di un episodio, di un volto o di un luogo.
Ma tende tutto a sfocare velocemente e ben presto ti accorgi che lo stai perdendo, quell’ultimo attimo di felicità che conservi gelosamente in un angolo della mente, ma soprattutto in fondo al cuore.
Per quanto ti sforzi di tenerlo in caldo ancora per un po’, sai che è destinato a perdersi, a svanire.
E una volta spento, non tornerà mai più e l’avrai perso definitivamente.
Così lotti contro tutto per tenerti stretta quella tua ultima, memorabile, calda primavera, prima di tornare ad una vita fredda, fatta d’inverni gelidi.
Ma non ho solo pensieri felici di allora.
Anche in una vita perfetta come quella della famiglia St. John, era destino che arrivasse un brutto giorno, come per tutti.
E arrivò anche per me il momento di confrontarmi con la scia di dolore che la nera signora lascia in ogni epoca dietro di sé.
Perché se è vero che da bambini non si conosce la morte, si impara a scorgerne gli effetti sul volto degli adulti.
E così capitò anche a me la prima volta che mia madre mi portò a fare visita ad una famiglia colpita dal lutto.
Non ricordo più il loro nome, ma ricordo il volto triste di un uomo che tratteneva a stento le lacrime, con gli occhi gonfi e rossi di pianto.
E in quel momento in cui il suo sguardo si era posato su di me, avevo avvertito un brivido lungo la schiena.
Qualcosa dentro di me, mi aveva fatto fare un pensiero del tutto nuovo e inaspettato.
Promisi a me stesso che avrei fatto di tutto per non far soffrire qualcuno in quel modo.
Che avrei lottato per vedere la gente felice, non per far loro del male.
E desiderai intensamente di diventare forte, molto forte, per me e per chiunque avesse avuto bisogno del mio aiuto.
Alcune volte penso con nostalgia a quel bambino pieno di buoni sentimenti che ero e che non avrebbe mai immaginato un futuro per sé come quello che ho.
Di certo ho tentato con tutto me stesso di mantenere quella promessa, nonostante la mia vita sia così incredibilmente particolare.
Mi piace pensare che i miei genitori siano comunque orgogliosi di me...



**************************
3.



Quella mattina, riaprendo gli occhi nel mio freezer, mi sentivo più vigile.
Stavo lentamente riprendendo possesso delle mie energie, ma la testa mi dava ancora fastidio e me ne resi conto tirandomi su a sedere, sollevando lo sportello brinato.
Avevo una sensazione di vuoto che ancora non era passata.
Facendo un po' di fatica, uscii dal mio "letto" glaciale e silenziosamente raggiunsi la camera per recuperare dei vestiti puliti.
Quando mi affacciai dalle scale, avvertii distintamente l'odore di Beth. Stava armeggiando in cucina.
E questo pensiero mi strappò il primo, tenero sorriso della giornata.
Scesi di soppiatto e rimasi a guardarla per qualche secondo mentre lei, di spalle, sistemava i bicchieri sulle mensole, dopo averli puliti accuratamente con lo straccio che stringeva in mano, canticchiando spensieratamente un motivetto.
Mi piaceva oltremodo vederla a suo agio in casa mia e per un attimo mi resi conto da solo di avere nello sguardo la consapevolezza di essere una persona davvero fortunata.
E mentre mi beavo di quello stato di armonia da troppo assente nella mia vita, avvertii bussare alla porta.
Così mi voltai per andare ad aprire e fu solo allora che Beth si accorse della mia presenza.
"Mick, ciao! Ti sei alzato." Era ancora in ansia, mentre mi seguiva all'ingresso.
"Si, sto meglio... Non preoccuparti. Sono stanco di stare sdraiato. Vado io ad aprire." Le risposi, rivolgendole uno sguardo rassicurante.
Avevo appena tirato la maniglia, quando mi ritrovai la mia ospite inaspettatamente avvinghiata addosso.
Fu allora che i miei pensieri placidi di serenità scomparvero all'istante.

"MICK! Come sono felice di rivederti! Stai bene, vero? Perdonami per averti lasciato lì... Ho fatto come volevi, ma ero presa dal panico. Non avrei mai dovuto."
Mi aveva buttato le braccia al collo e non avevo potuto evitare una stretta di notevole intensità sotto lo sguardo ingelosito di Beth.
"Cindy... non importa. Sto bene." Le spiegai io, scostandole gentilmente le braccia strette a me. Poi rivolsi lo sguardo a Beth, implorando la sua comprensione.
"Questa è Beth... Beth Turner. Beth, questa è Cindy Morrigan, la profiler di N.Y. con cui ho lavorato all'ultimo caso..."
Beth ci fissava con occhi di brace, così intensamente che mi stupiva il fatto che Cindy non stesse prendendo fuoco.
L'elettricità avrebbe potuto scatenare fulmini, lì dove le loro occhiate si incontravano a mezz'aria e io sapevo di dover tenere d'occhio Cindy, ma il telefono squillò proprio in quel momento, costringendomi a lasciarle sole.
"Scusatemi..." Dichiarai congedandomi e mi avviai verso il divano senza però perderle di vista.
Intanto Beth cercava di fare la brava donna di casa e si sforzava di essere il più ospitale e naturale possibile.
Vedendosi alle strette, reagì tirando fuori la sua grinta e sfoggiando un sorriso di circostanza.
"Beh, Cindy... vuoi qualcosa da bere?" Domandò, facendole strada verso la cucina dove sapeva bene di poter mettere mano alle mie scorte.
"Si grazie!" Rispose la vampira con un artificioso sorriso compiaciuto, mentre la seguiva come un'ombra.
Beth aprì il frigo e preso un bicchiere pulito, versò un po' di sangue in bottiglia, per poi porlo a Cindy con soddisfazione.
"Ormai sei pratica di queste cose, eh?" La provocò e Beth annuì con un certo entusiasmo, facendole capire che ormai era entrata nell'ottica della nostra esistenza ed aveva una certa padronanza sull'argomento.
Ma la reazione della vampira in risposta fu immediata e precisa.
"Ne sono felice... Mick deve amarti moltissimo. Lui è stato un partner eccezionale, sai? E' un investigatore di grande talento! E' stato un onore affiancarlo in quel caso e spero ce ne siano altri in cui collaborare... Molti altri. Non deve essere facile per te stare con un uomo come lui... insomma, a guardarlo... E' irresistibile! Sono sicura che sai di non essere l'unica donna ad avere fantasie erotiche con lui... questo sarebbe faticoso da sopportare, se fossi una persona gelosa. Ma immagino che tu non lo sia! Hai tutta la mia stima per questo. E' chiaro che se ti fidi di lui, non hai motivo di arrabbiarti, anche se dovesse succedere qualche piccolo incidente come l'ultima volta... "
Beth era stata colpita a raffica e impiegò qualche secondo per concretizzare tutte quelle affermazioni sferzanti.
"Incidente? Quale incidente? Di che parli?" Domandò smarrita.
"Ma, come... Mick non ti ha detto del bacio? Oh, che gaffe imperdonabile! Mi dispiace!" Simulò il tono mortificato senza nascondere nemmeno troppo il suo sarcasmo.
Beth invece sentiva la terra mancarle sotto i piedi e si sforzava di celare il panico in cui l'aveva gettata quella parola pronunciata a bruciapelo.
"BACIO? Quale BACIO?"
"Oh, ma non devi preoccuparti... è stato solo per copertura. E' stato magnifico, ma esclusivamente per copertura."

Cindy era malefica. Lo era davvero in quel momento in cui la stava bombardando a tutto spiano e la stava demolendo totalmente, tanto che Beth stava davvero perdendo il controllo dei suoi nervi. Ma non potevo salvarla. In quel momento c'era un'altra cosa a distrarmi.

Ero entrato in salotto mentre Guillermo mi salutava al telefono, dopo avermi avvisato che il mio A positivo era pronto.
Di solito mi mandava un sms, ma erano passati due giorni da quando avevo passato la notte più lunga della mia vita, rischiando di morire.
E le storie sulla Black Moon cominciavano a serpeggiare paurosamente tra i vampiri di L. A. , soprattutto tra quelli meno coraggiosi.
"Ehi Amico... Volevo essere sicuro che stessi bene! Sai cosa si dice qui? Mick St. John è il paladino che ha osato sfidare l'inquisizione e l'ha fatta franca! Sei diventato una celebrità! Sei l'unico, a quanto so, che sia stato in una stanza d'argento e possa raccontare di esserne uscito vivo, da solo, dopo aver salvato un altro vampiro! Guarda che mi stai dando un sacco di soddisfazioni! Mi vanto con tutti di conoscerti bene da anni... Fa un certo effetto, sai?"
Sorrisi stancamente a quelle parole che non erano di grande orgoglio per me. Non avevo fatto altro che seguire l'istinto e per poco non avevo perso la vita.
"Beh, grazie Guillermo, ma io non sono un eroe, perciò smettila di vantarti. Comunque ci vediamo più tardi."
Chiusa la comunicazione, scuotendo la testa, passai affianco alla scala e lì avvertii improvvisamente uno scricchiolio sommesso.
Così, incuriosito, mi bloccai di colpo per concentrare il mio udito e capire da dove provenisse.
Avanzai verso la porta d'ingresso e mi resi conto che in quella direzione era più forte.
Individuai che probabilmente veniva da sotto il divano o il mobile alle spalle di quello.
Così mi chinai e, ginocchia a terra, cercai di capire se fosse un insetto o qualcosa del genere. Ma non avvertivo alcun odore.
Quando ne riuscii a distinguere uno, non ci volle molto a capire chi fosse.

"Questa era proprio la scena che sognavo di vedere, entrando qui dentro! Il tuo sedere in bella mostra!"

Mi voltai a freddare Josef con lo sguardo, ammonendolo di fare silenzio. Poi gli feci segno di avvicinarsi.
"Prima o poi dovrai dirmi come ci riesci..."
Ma Josef avvertì la presenza di Cindy e Beth nell'altra stanza e mi parlò con il tipico sussurro vampirico percepibile solo a noi.
"Non posso... se te lo svelo, non mi permetterai più di usare questa capacità!"
"Devi insegnarmelo. Mi potrebbe essere molto utile!"
"Lo immagino..."
Rispose lui, sorridendo maliziosamente, poi domandò incuriosito
"Che stai facendo, Mick? Cerchi le rotelle che hai perso?"
"Lo senti anche tu?"
Domandai a mia volta, senza dare peso alla sua battuta.
Josef porse l'orecchio e dopo un primo momento di esitazione, annuì.
"E' un topo?"
Quella domanda mi fece sorridere.
"UN TOPO, JOSEF? Nell'appartamento di un vampiro al 12° piano?"
"No, hai ragione... Sembra più un rumore elettrico. Come se fossero... scosse."

E non sono Cindy e Beth. Pensai tra me e me.
Josef fece il giro del divano e io lo seguii. Spostammo il divano e ci inginocchiammo entrambi, ma io chiusi per un istante gli occhi sentendo la testa girarmi.
"Ehi... non fare sforzi. Lo prendo io. Basta che non mi morda!"
Josef infilò il braccio sotto il mobile proprio mentre Cindy e Beth entravano in salotto.
Cindy sospirò, vedendoci a terra, mentre Beth spalancava gli occhi stupita.
"Mio Dio! Sono così... adorabili!" Commentò la vampira fissando i nostri fondoschiena rivolti verso di loro.
Mi alzai subito per indicare anche a loro di stare in silenzio. E finalmente Josef recuperò qualcosa, tirandosi su con un sorriso pieno d'orgoglio.
"Buongiorno principesse..." Poi però tornò serissimo, mentre ci mostrava cosa teneva stretto tra le mani.
Avvicinammo le nostre teste sul suo palmo aperto e mi resi conto con rammarico che si trattava di una cimice, una di quelle microspia.
Josef alzò le sopracciglia in quel suo gesto che valeva sempre più di mille parole.
"Lo so, con me non ci si annoia mai!" Commentai guardandoli tutti e tre.
Poi presi la cimice dalle mani di Josef e la poggiai sul tavolo in cucina, afferrai un bicchiere vuoto e lo capovolsi, ponendolo sopra di essa, mentre gli altri seguivano attentamente i miei gesti.
Avevo creato così una sorta di campana di vetro che avrebbe isolato la ricezione del suono.
"E' un microfono, Mick! Chi può averti messo un microfono in casa?" Domandò Cindy con aria curiosa e falsamente innocente.
Ma il suo sguardo e quello di Josef, si spostarono automaticamente su Beth che ancora faceva fatica a realizzare quanto stesse succedendo.
Io la fissai negli occhi e lei si turbò profondamente.
"Beh? Perchè guardate me? Mick, non penserai che sia mia, vero?" Le sfuggì un sorriso carico d'incredulità.
Io scossi la testa con decisione e mi avvicinai a lei.
"No Beth, certo che no. Ma tu sei l'unica che può aiutarmi a capire di chi sia. Mi sarei accorto di quel rumore... deve essere stata messa lì da poco tempo. Sono stato su quel divano in una sorta di stato comatoso per diverse ore finchè non mi avete portato nel freezer e io non l'ho percepito. Ma ora che sono in forma, ho sentito bene quel brusio. Questo vuol dire che è stata posizionata mentre ero sotto l'effetto dell'argento. Chi è entrato qui, oltre a voi due?" Domandai guardando Beth e Josef.
E Beth prontamente rispose con un profondo respiro, facendo mente locale.
"Dunque... io non ho fatto entrare nessuno e sono stata qui con te tutto il tempo. Non sono mai uscita, Mick! Josef è stato qui fino a ieri mattina. Ma ti assicuro che non è entrato nessuno a parte lui."
Rimasi per un attimo a riflettere.
"Se non è entrato nessuno, come ci è arrivata sotto al mio mobile? Tra l'altro, chiunque sia stato, ha avuto anche il tempo di nasconderla bene lì sotto."
Beth scoteva la testa, cercando di ripercorrere con la mente la giornata infernale che avevamo passato. Ad un tratto ebbe un vistosissimo brivido.
Un sospetto le aveva procurato un dolore acuto come uno spillo. Appena aveva visto la cimice, aveva pensato alla polizia e si era ricordata di Ben, quando quel giorno l'aveva fatta sedere sulla sua poltrona. Forse lei non se n'era accorta e lui le aveva messo la cimice nella borsa.
Quando era tornata a casa e non mi aveva trovato, l'aveva svuotata di fretta sul divano in cerca del telefono e sicuramente era stata troppo distratta per accorgersi che la cimice era finita sul pavimento e poi sotto al mobile.
Beth era più che convinta che quell'ipotesi fosse plausibile, ma non mi confidò i suoi pensieri.
Temeva di avere ragione e non voleva accettare che Ben fosse a conoscenza dei nostri segreti e ci tenesse sotto controllo.
Questo era un chiaro segno del fatto che si stesse affezionando a lui e col suo silenzio aveva deciso di proteggerlo, almeno fino a che non avesse avuto prove del fatto che fosse coinvolto in quella faccenda.
"Ti controllano Mick... questa non è una bella notizia. Cosa farai?" Josef mi sembrava molto incuriosito dall'accaduto, ma non stupito quanto me.
"Non lo so... ci devo pensare. Ora mi sento un po' stanco."
Cindy e Josef annuirono e si avviarono alla porta e poi all'ascensore insieme, per lasciare il mio appartamento, ma promettendo a loro stessi di dirigersi in due luoghi ben distanti tra loro.
Una volta rimasti sul pianerottolo, si guardarono con un po' di imbarazzo, per salutarsi.
"Vuoi... un passaggio?" Gli domandò Josef con un sorriso smaliziato che aveva l'intonazione di una frase simile a "Perchè non passi un po' di tempo con me?"
E lei replicò un secco "No, grazie." Che suonò più o meno come "Purtroppo non posso accettare, maledizione!"
E si avviarono ognuno per la propria strada, mentre io e Beth avevamo trovato finalmente il tempo per restare soli e chiarire i nostri punti di vista.

Dire che Beth si fosse innervosita, è poco.
"Simpatica, la tua amica! Non ha fatto altro che esaltare le tue qualità di maschio irresistibile." Cominciò lei, guardandomi storto.
"Ah... davvero?" Cercavo di non raccogliere quella frecciata ed ero intenzionato a cambiare discorso e a deviarlo sul ritrovamento della microspia, contrariamente a quanto invece era nelle idee di Beth.
"Mi ha detto che l'hai baciata e che le è piaciuto molto... ma non è successo, vero? Me lo avresti detto, ovviamente! VERO?"
Era seria. Troppo seria per i miei gusti.
Deglutii a fatica, cercando di pensare a qualcosa di efficace da dire a mia discolpa. Ma il mio silenzio accentuò la sua irritazione.
"TU! Tu hai baciato quella strega?" Mi si freddò il sangue nelle vene a quella domanda. Ormai la risposta era scontata.
E Beth si scurì in volto come non aveva mai fatto davanti a me.
"Beth... Non era un bacio!" Tentai di spiegare.
"Lei ha detto che TU l'hai baciata!"
"Si ma... non sulle labbra, sul mento! Così..."

Pensai che una dimostrazione pratica mi avrebbe scagionato, invece distrusse definitivamente la mia difesa.
"Mick! E' disgustoso! Mi hai davvero delusa... è assurdo! Quella è una megera! Come hai potuto farlo?"
"Lo so... ma infatti io non volevo, è stato solo..."
"Per copertura, LO SO! Lasciami!"

Mi avvicinai per darle un bacio vero e lei mi scansò con la mano.
"BETH!" Protestai.
"Non baciarmi, MICK! Non dopo avere baciato... quella vipera! Vai... Lontano da me! VAI!"
Mi fece segno con la mano di allontanarmi e io continuai a fissarla inebetito per qualche secondo.
Poi mi ritirai, ferito da quel suo rifiuto e mi sistemai nello studio, portandomi via la microspia.
Non volevo credere che mi volesse evitare per quel mezzo bacio, che tra l'altro ero stato costretto a dare e che non aveva rappresentato proprio nulla per me.
Capivo la sua gelosia, ma non una reazione così decisa verso di me.
Restai rintanato lì per una decina di minuti, evitando di incrociarla, allo scadere dei quali tornai da lei con decisione.
Ma Beth non era più lì. Era al piano di sopra e sentivo dei rumori che non riuscivo ad identificare.
Facendo i gradini a due a due, la raggiunsi in camera e la trovai mentre, con il suo trolley aperto davanti, toglieva dall'armadio alcuni vestiti che aveva portato da me e li ripiegava per metterli in valigia.
Rimasi fermo a seguire i suoi movimenti senza capire. Mi sembrava impossibile.
"Beth... Ma cosa stai facendo?"
Quando si voltò a guardarmi per un istante, incrociai i suoi occhi arrossati, ma mi resi conto che non stava piangendo. Non ancora.
"Mick... Ho bisogno di allontanarmi per qualche giorno. Voglio stare un po' da sola e riflettere... Lo so che non lo capirai, ma ti prego, non tentare di fermarmi, sarebbe peggio."
Non solo non provai a fermarla, ma nemmeno riuscii a trovare le parole per spiegare quello che ci stava succedendo.
Non andartene... ti amo... resta con me... Erano frasi patetiche da vittima in quel momento, che dimostravano un senso di colpa che non avevo, perchè quello stupidissimo bacio dato a Cindy non poteva essere la causa di quella crisi. Mi rifiutavo di crederlo.
E lentamente affiorava in me la paura che Beth, la mia Beth, volesse fuggirmi. Ma mi venivano in mente solo queste parole, in un primo momento.
Poi avanzarono quelle roventi, quelle dettate dalla rabbia, quelle che sai bene che se le pronunci è difficile tornare indietro e fare finta che nessuno le abbia sentite.
Sono quelle pesanti come le pietre e taglienti come frammenti di vetro.
Sei impazzita? Di quella non me n'è mai fregato nulla! Smettila di fare la ragazzina... E' ridicolo! Tutte cose sbagliate. Preferivo stare zitto.
E lasciavo parlare i miei occhi smarriti e il mio viso distrutto da quella decisione incomprensibile di partire all'improvviso.
Ero nella confusione più totale.
Restai a guardarla prepararsi la borsa con gesti rapidi come se non vedesse l'ora di andare via. E ad ogni indumento che sbatteva in valigia quasi con rabbia, avvertivo un colpo al cuore.
Non potevo fare altro che guardarla, impotente, fino a che finalmente non riuscii ad articolare un pensiero e ad esprimerlo con estrema lentezza, a voce bassa e roca.
"E..." cominciai deglutendo. "Quando tornerai?"
Beth cercò di evitare il mio sguardo ferito, ma le fu inevitabile incrociarlo nell'istante in cui ne avvertì tutta l'intensità.
E con un sospiro, per farsi coraggio, chiuse il trolley e mi rispose seccamente.
"Non lo so, Mick. Quando mi sentirò meglio e mi andrà di tornare."
La seguii giù per le scale e fuori dalla porta, tentando di aiutarla a trasportare quel bagaglio che non voleva proprio mollare.
E sulla soglia, dopo avere aperto la porta, si voltò a darmi una carezza di compassione e un semplicissimo bacio sulla guancia, mentre fissavo il mio riflesso in quegli occhi azzurri che non riuscivo più a riconoscere.
"Scusa Mick, ma devo proprio andare via di qui e allontanarmi da te. Ciao."
E senza dire altro imboccò il corridoio e prese l'ascensore, mentre i miei occhi intimoriti la seguivano finchè fu possibile.

  
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