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Autore: Aine Walsh    29/10/2011    3 recensioni
Noiosa. Ecco come si svolgeva la festa di Sara sotto il mio punto di vista.
Sì, Sara, la mia biondissima quanto simpatica compagna di banco nelle ore del corso di fotografia che frequentavo una volta a settimana dopo scuola, il pomeriggio.
Era una ragazza in gamba, ma la sua festa di compleanno si stava dimostrando un clamoroso fallimento, almeno per me, l’asociale a vita.
* * *
Prometto che mi farò venire in mente una Presentazione migliore!
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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5° Capitolo
Mamma Mia!


Il lunedì mattina secondo me dovrebbe essere abolito, cancellato dai calendari, eliminato dalla faccia della Terra. Salviamo almeno le generazioni future.
E’ un dato di fatto: quasi tutti odiano il lunedì. Ed io non ho mai fatto eccezione.
A scuola, stavo seduta dietro il mio banco verde scolorito mentre cercavo con tutte le energie che avevo in corpo di non cedere alla forza prepotente del sonno durante la spiegazione della Prof., la carissima Prof. Fornero che scribacchiava formule chimiche alla lavagna, concentrandomi a seguire la lezione e ad assumere un’espressione un tantino sveglia. Accanto a me, Irene sembrava pronta a compiere il trapasso: la testa pesantemente appoggiata al pugno chiuso della mano, lo sguardo perso nel vuoto, non batteva ciglio e sembrava quasi che nemmeno respirasse. Al bel quadretto mancava solamente un filino di saliva che sarebbe dovuto scendere da un lato della bocca dischiusa.
Sorrisi fra me e me prima di darle una gomitata nelle costole. Fece una faccia del tipo ‘Chi-va-là?’ per poi rendersi conto di ciò che era accaduto ed esclamare sottovoce: «Ahi, mi hai fatto male! Che vuoi? Stavo facendo un sogno fantastico».
Come sempre. Stare attenta per Ire era un’impresa troppo difficile da portare a compimento, ma nonostante ciò riusciva ad avere ugualmente buoni voti.
«E sentiamo, cosa fantasticavi?» ridacchiai.
«James Franco ti basta?».
«Direi che è più che sufficiente, anche se sai che io sono più attratta da…».
«...Matthew James Bellamy, - completò con una punta di monotonia - lo so».
Ripresi a seguire la lezione, ma invano. Poco dopo la Chimica svanì nel nulla lasciando il posto a Matteo, contro cui avevo già più volte lottato nel tentativo di non farlo totalmente penetrare nei miei pensieri, battaglia che avevo miseramente perso.
Ad Irene non avevo ancora detto niente, ma sentivo proprio il bisogno di farlo. C’eravamo già visti tre volte e qualcosa, anche di molto piccolo, stava accadendo, no?
Che amica ero? Che amica sarei stata se non le avessi raccontato niente?
Decisi all’istante che fosse arrivato il momento giusto per rimediare.
«Andiamo a prendere un panino al McDonald’s dopo scuola? Muoio dalla voglia di mangiare un CBO fregandomene altamente delle calorie» proposi.
Mi guardò accondiscendente. «D’accordo».
«E questo, in sintesi, è il concetto di elettrochimica» gracchiò la Fornero, concludendo la spiegazione.
Chimica alla prima ora del lunedì: Ethan Hunt ha faticato meno durante i tentativi di portare a compimento quella famosa Mission Impossible e le altre che seguirono, ci scommetto.
Tuttavia, anche quella giornata passò come tutte altre e alle tredici in punto infilai tutto nello zaino, lo chiusi e lo caricai in spalla, pronta per uscire da quel mio Alcatraz personale.
Aprile dolce dormire, recita il detto, anche se ancora Aprile non era proprio arrivato. Per quanto mi riguarda, il periodo compreso fra Marzo e Aprile coincide ogni anno con la solita noia di dover ancora andare a scuola, prima di giungere alla follia di Maggio e allo sclero allegro, isterico e ansioso degli ultimi giorni di Giugno.
Quel nuovo fast food a pochissimi chilometri dalla scuola era una vera e propria fortuna, un luogo di ritrovo eccezionale.
Quando io e la mia amica entrammo era già abbastanza affollato, ma riuscimmo senza problemi a trovare un tavolo in un punto più appartato incastrato tra la parete di fondo e una finestra; quel giorno toccava a Irene pagare, perciò mi sedetti e l’aspettai. Il cellulare nella tasca mi vibrò ed ebbi la sensazione di aver perso un battito del cuore nel momento in cui finii di leggere il nome sul display: Matteo. Chi altro?
Si chiedeva se stesse disturbando.Disturbare? Aveva voglia di scherzare? Gli scrissi di no e poco dopo ricevetti un altro messaggio in cui mi domandava se fossi ancora libera domenica. Inutile dire che la risposta era sì.
Stavo per rispondere, ma vidi Irene che si stava avvicinando tenendo tra le braccia un vassoio carico di schifezze di ogni genere e quindi preferii salutarlo scrivendogli che l’avrei contattato quella sera stessa per metterci d’accordo sul da farsi; avevo il cellulare quasi scarico, per di più.
«Con chi messaggiavi?» domandò occhi-di-falco-Irene.
«Con mia madre; - risposi pronta - avevo dimenticato di dirle che siamo qui».
Annuì, mi si sedette di fronte ed iniziammo a mangiare tra una chiacchierata e l’altra. Per la sua salute, avrei aspettato la fine del pranzo prima di raccontarle di Matteo. Intanto le nostre conversazioni comprendevano la Fornero - come da copione -, l’ultima brutta figura di Carmen - una nostra compagna di classe, un po’ oca se vogliamo dirla tutta - e, per ultimo, il tizio del tavolo accanto al nostro che, dal momento in cui aveva preso posto, non mi aveva tolto gli occhi di dosso.
«Secondo me gli piaci», tirò le somme Ire sventolandomi sotto il naso il cucchiaio sporco di gelato.
Succhiai del milk-shake dalla cannuccia. «Sai, non l’avevo capito» risposi sarcastica.
Ci voltammo insieme a lanciare un’altra occhiata furtiva al tizio.
Occhi castani, capelli castani e poco mossi lunghi fin sotto le orecchie, sorridente. Non era una bellezza rara e neppure un ragazzo particolarmente carino; diciamo più che era un tipo comune. O forse ero io che non riuscivo a vedere altra bellezza se non quella di Jude.
«Mmm, però è carino. Perché non gli parli?».
«Io? Ma sei impazzita? Fallo tu, piuttosto!» esclamai esagerando un po’ più del dovuto, forse.
«Lo farei, solo che guarda te».
Silenzio. Era arrivato il momento di dirglielo. Pensai di star drammatizzando troppo, dopotutto il mio comportamento sembrava assomigliare a quello di Brooke Logan nei momenti in cui doveva confessare qualcosa di scandaloso al suo amato Ridge, il che era assolutamente ridicolo. In più non era successo niente di niente, stavo ingigantendo la questione senza saperne nemmeno il motivo.
Mandai giù un altro sorso del milk-shake e iniziai timidamente. «Ire, devo dirti una cosa. Ho conosciuto un ragazzo qualche sera fa... Matteo...».
Un scintilla attraversò fulminea le sue pupille. «Matteo chi?».
Modalità parliamone: on.
E così presi a raccontare della festa di Sara, dell’incontro al Poco Loco e di quando ero stata a casa sua pochi giorni prima, cercando di non dimenticare nulla intanto che stavo ben attenta alle espressioni della ragazza di fronte a me.
«Mi dispiace di non avertene detto niente prima, non ho idea del perché l’abbia fatto. Beh, all’inizio non pensavo potesse essere qualcosa di importante, tutto qui... Non che adesso abbia qualche urgenza particolare, è solo che... - tirai un sospiro - Insomma, hai capito» conclusi.
Il locale si era ormai svuotato, eravamo rimaste solo noi due e il tavolo accanto con i tre ragazzi. Anzi no, poco dopo la fine del mio monologo il trio si alzò e il ragazzo che non mi staccava gli occhi di dosso mi passò accanto deluso, un viso da cucciolo bastonato: dedussi che aveva ascoltato parola per parola tutto il mio discorso.
Irene se ne stava ancora zitta con il viso voltato in direzione della finestra. Evitava di parlarmi, il che poteva solo farmi comprendere quanto l’avessi combinata grossa quella volta. Mi sentivo terribilmente in colpa.
Lanciai uno sguardo all’orologio che portavo al polso e vidi che non era così tardi come avevo pensato; indagai la strada fuori dalla finestra e notai che era abbastanza trafficata per quell’ora; ispezionai lo spazio intorno a noi e mi accorsi che i commessi avevano già iniziato le pulizie ed Irene ancora non parlava.
Se voleva tenermi sulle spine, lo stava facendo veramente bene.
Nell’attesa presi a picchiettare compulsivamente le dita sul tavolo, seguendo una melodia immaginaria, fino a quando non mi spazientii e mi alzai sollevando lo zaino.
«Lo porterai alla mia festa sabato, vero?» domandò mezza divertita.
«Non aspettavi altro che chiedermelo, eh?».
«Sì, lo ammetto. Ma dovevo pur punirti in qualche modo. E quale tattica migliore dell’attesa snervante?».
Aveva ragione: mi conosceva così bene da essere l’unica in grado di poter mettere a dura prova la mia pazienza ferrea.
«Glielo chiederò» risposi alla domanda precedente.
Io e la mia migliore amica ci salutammo pochi minuti dopo davanti alla scuola, per poi avviarci in due direzioni opposte. Per fortuna la scuola distava da casa mia venti minuti circa e potevo benissimo andare a piedi, favorita anche dalla bella giornata soleggiata. Solo in quel momento mi venne alla mente il pensiero dell’arrivo della primavera, quel giorno. Ventuno Marzo, un motivo in più per essere felici. Gli altri motivi riguardavano la mia famiglia, l’otto preso nell’interrogazione di Italiano qualche ora prima, il McDonald’s, Irene e ultimo, ma non certo per importanza, Matteo.
Le mie gambe camminavano verso casa ma la mia mente vagava in un mare di cose belle, e mi accorsi di aver sorriso troppo quando incominciai ad avvertire dolore alle guance. Sorriso a chi, poi? Forse a nessuno. Forse a me stessa. Forse alla vita che mi aveva presa di sorpresa e che stava facendo filare tutto a meraviglia - non che fossi una poveraccia sfigata ovvio, ma gli ultimi tempi non erano stati molto facili -, anche troppo a meraviglia. O forse, ridevo semplicemente alla primavera.
Insomma, non avevo proprio i requisiti per essere giù di corda.
Voltai l’angolo e scorsi una macchina ferma davanti al portone del mio palazzo; avvicinandomi, mi accorsi che due figure erano in piedi, appoggiate all’auto, strette in un abbraccio. Pensai che fosse una scena carina e mi lasciai sfuggire ad un sorriso volontario: espressione che mi si cristallizzò in viso non appena mi resi conto di chi fossero i due soggetti avvinghiati amorosamente.
Non era la figlia nullafacente della coppia del secondo piano - i padroni di Seth, il cane che avrei dovuto portare con me alla festa di Sara; magari a Matteo sarebbe piaciuto -, ma peggio.
Era mia madre.
Mia madre che abbracciava - non amichevolmente - un altro.
Un altro uomo.
E il mondo mi crollò addosso in un istante, schiacciandomi tutto in un colpo.
Da quando in qua mia madre aveva un... Fidanzato? E perché non me ne aveva ancora parlato?
Desiderai immensamente di essere già a casa in quel momento, ma purtroppo mi trovai costretta a restare lì sotto e a non farmi vedere fino a quando lo sconosciuto non se ne sarebbe andato e mamma avrebbe spinto il portone per salire; perciò mi nascosi nell’incavo creato dai muri dei due palazzi vicini, aspettando.
Al momento, non sapevo che pensare.
Mamma era single da sei anni e per di più era una bella donna: prima o poi avrebbe trovato qualcun’altro, era naturale. Tuttavia, era strano vederla così con uomo che non fosse papà ed ero anche delusa dal suo comportamento; ma in fondo in fondo ero un po’ felice per lei.
I miei genitori erano stati insieme per più di vent’anni e quando avevano scelto di divorziare lo avevano fatto di comune accordo. Niente litigi o tradimenti: era solamente terminato l’effetto delle frecce di Cupido, tutto qui.
Aspettai e aspettai, o forse mi sembrò di farlo a lungo, non saprei, fatto sta i due stavano ancora continuando a parlare ed io mi sentivo sempre più a disagio.
Chissà per quanto altro tempo sarei rimasta lì nascosta se il mio cellulare non fosse squillato. Mi scappò un sorrisino nervoso leggendo il nome sul display: mamma. Che coincidenza, eh?
Non risposi perché non sapevo cosa avrei dovuto dirle, e non ce ne fu bisogno: aveva sentito anche lei la mia suoneria troppo rumorosa, come l’aveva sempre definita la nonna, e aveva preso a girare la testa da una parte all’altra, cercandomi agitatamente. Non poco confusa, mi passai una mano sul viso, tirai un sospiro ed uscii allo scoperto.
«Adri, tesoro! Non dovresti essere a casa a studiare a quest’ora?» chiese fingendo rimprovero. In realtà, sia io che lei sapevamo che fosse in balia di uno strano miscuglio di imbarazzo, confusione e nervosismo assoluto, miscuglio che stringeva come in una morsa anche me.
«Ho pranzato fuori con Irene... Te l’avevo detto...» mormorai appena.
E come spesso accade nei momenti meno opportuni della vita, calò un pesantissimo silenzio. Sentivo i loro sguardi addosso, mentre il mio, di sguardo, era piantato a terra, incapace di alzarsi.
Quando riuscì a trovare le parole, mamma continuò indicando l’uomo al suo fianco - che, una volta guardatolo, riconobbi come quel suo famoso collega di lavoro che tutti dicevano somigliare a niente poco di meno che Ben Affleck, somiglianza che io però non riuscii a trovare così straordinaria come si vociferava - :«Adriana, lui è Lorenzo, un mio collega che si è gentilmente offerto di accompagnarmi visto che la macchina mi ha simpaticamente lasciata a piedi».
Rivolsi un’occhiata più o meno inespressiva e stordita all’uomo che mi sorrideva, anche lui non riuscendo bene a celare la sua voglia di scappare miglia e miglia lontano da quel punto.
Sentivo il peso del silenzio, delle bugie e di tutte quelle cose non dette che mi gravava sulle spalle e ritenni la situazione insostenibile a quel punto e strana all’inverosimile.
«Io dovrei andare a studiare, quindi... Arrivederci. - a Lorenzo - Ci vediamo sopra» a mia madre.
Le ginocchia mi tremavano violentemente, come avessi uno spasmo, o magari era solo una mia impressione, ma preferii arrancare verso l’ascensore piuttosto che salire tutte quelle scale a piedi, dato che avevo già trovato difficoltoso attraversare quei cinque gradini prima di arrivare al sopraelevato.
Trovai la nonna stranamente seduta accanto al tavolo intenta a fare un cruciverba. Non appena mi sentì arrivare, alzò il capo, si sfilò gli occhiali e sorrise come suo solito.
«Com’è andata oggi?».
Scrollai le spalle. «Non lo so» risposi mentre andavo a chiudermi in camera. Non avevo voglia di parlare e se ne accorse, perciò mi venne dietro chiedendomi: «E’ successo qualcosa di brutto?».
Esitai un attimo.
«No, di brutto niente, piuttosto di... - cercai la parola più adatta - Inaspettato». Lessi una nota di apprensione sul suo viso, per cui mi affrettai ad aggiungere: «Tranquilla, non è niente. Classici problemi adolescenziali che capitano almeno una volta nella vita», ironizzai stirando le labbra in un sorriso, al che spinsi la porta e sparii dietro di essa.
Per quanto mi concentrassi, riuscire a studiare mi risultava alquanto difficile quel pomeriggio; ogni tentativo di cercare di capire Filosofia era abbastanza vano perché tutti i miei pensieri si ricollegavano automaticamente a mia madre e a quel Lorenzo.
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta. In altri casi, sapevo che avrei dovuto aspettarmi il faccino della nonna comparire seminascosto, ma stavolta capii subito che si trattava della mamma. Non la guardai direttamente e la lasciai sedere accanto a me sul letto, come accadeva quando litigavamo e situazioni simili.
«Adri, mi dispiace. - sospirò dopo qualche minuto - Non sai quanto, non lo immagini nemmeno...»
«Avresti dovuto parlarmene» la interruppi, fredda.
«Lo so».
Evitavo ancora di guardarla, spostando il mio sguardo lungo le pareti della stanza. Ovviamente, gli occhi mi caddero sul poster del Bellamy. Anche i suoi genitori avevano divorziato quando lui era piccolo, e pure quella volta, come tante altre precedenti, mi chiesi come si fosse sentito. Come aveva reagito lui davanti alla nuova compagnia di sua madre o di suo padre? Lo invocai mentalmente affinché mi aiutasse a gestire quella situazione.
«Sei arrabbiata?» mormorò indirizzando i suoi grandi occhi castani alla ricerca dei miei.
«No. Non sono arrabbiata. Sono delusa, è diverso. È lecito rifarsi una vita dopo un divorzio e sinceramente ero già preparata a vederti accanto a qualcun’altro, ma mi aspettavo che tu me ne parlassi, capisci? Non pensavo che l’avrei scoperto tornando a casa, un pomeriggio qualunque, per caso».
Forse tutte quelle puntate di Una Mamma per Amica che avevo seguito qualche anno prima mi avevano parecchio allontanata dalla realtà effettiva, aggiunsi senza parole.
Prestai attenzione alla mia voce mentre parlavo e notai che uscì insolita, in un certo senso. Non era triste o rabbiosa o particolarmente dispiaciuta, ma era più piatta e lenta, quasi svuotata di ogni cosa.
Ero veramente felice per lei, ma di una felicità strana, diversa, che si sentiva tradita. Ma adesso mamma era lì e si stava scusando, e nonostante tutto la mia contentezza era di poco più superiore rispetto al resto.
«Ho sbagliato, ne sono consapevole e mi dispiace veramente tanto, tesoro. Non volevo che tu avessi un’altra delusione, volevo stare a guardare come si sarebbe evoluta la vicenda prima di dirtelo».
«E come si sta svolgendo?».
Attimo di pausa in cui si massaggiò le tempie mentre io stirai le gambe lungo il letto, poggiando il libro che avevo in grembo nel comodino affianco.
«Lui è ben disposto. È intelligente, comprensivo e paziente e sa che, nel caso in cui...».
«Nel caso in cui? Se non dovesse piacermi? Pensi davvero che potrei essere così egoista da impedirti di vederlo?», accompagnai le parole mostrando appena i denti.
Nel nostro linguaggio fatto di sottintesi significava che aveva il mio ‘permesso’.
Un bagliore le attraversò il volto, illuminandolo, nello stesso istante in cui finii di parlare. Chiunque l’avesse vista non sarebbe stato sorpreso nel sapere che aveva trovato un compagno, ma sarebbe stato più stupito nello scoprire che era rimasta - ed era riuscita a rimanere - sola per sei anni.
Sorrise in risposta e poi mi abbracciò forte, sussurrando felicemente un «Grazie» che mi strinse il cuore.
Mentre ricambiavo l’abbraccio, vidi la figura di mia nonna dietro la porta socchiusa: lei sapeva tutto.
Aveva sempre saputo e sapeva sempre tutto di tutti, ma non perché lo volesse lei. Semplicemente, la sua voce, il suo aspetto e i suoi modi di fare invitavano spontaneamente e quasi come fosse naturale la gente a fidarsi di lei e a confidarle tutti i propri segreti o gioie o paure. E mai fiducia fu affidata a persona migliore, secondo me.
Le feci un gesto con la mano, lei entrò e si unì a noi.
E tutto è bene quel che finisce bene, mi diceva papà quando ero piccola. 


Oh babe, I think I wanna marry you...

Sono tornata! :D
Avete sentito troppo la mia mancanza?
Su questo capitolo ho solo una cosa dire: NON MI PIACE. Sì, esatto.
Ho appena finito di rileggerlo, ho corretto qualcosa, cambiata qualcun'altra, ma continua a non convicermi sotto nessun aspetto.
Quindi vi chiedo scusa per lo scempio e vi prometto che mi impegnerò a rendere il prossimo capitolo migliore. In più oggi è stata una giornataccia ç_ç
La mia più grande preoccupazione è quella di non essere caduta nel banale. I miei genitori stanno ancora insieme, nessun divorzio, separazione e quant'altro, quindi non so come vengano affrontate queste situazioni...
Ma perchè blatero ancora?
Mi dileguo u.u
Un GRAZiE gigante a tutte <3

Alan

P.S.: Ho trovato un prototipo di Matteo... Yep! :D
P.P.S.: Scusate la qualità del video xD
  
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