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Autore: GreedFan    07/11/2011    2 recensioni
Paese di Doruath-henn, nel mezzo delle Grandi Montagne.
Colin Farrell è un venticinquenne privo di scopi e prospettive, indifferente alla corte delle donne, ma soprattutto senza un drago. E sì, perché, da secoli ormai, tutti gli uomini di Doruath-henn ne possiedono uno.
Tutto cambia quando, una notte in cui la Luna splende di rosso, decide di seguire il consiglio dell'indovina del villaggio e recarsi sul picco più alto. Lì, farà un incontro che stravolgerà completamente la sua vita.
Il "senzadrago" non sarà più tale, e la sua storia si intreccerà con quella, ben più antica e tormentata, di una creatura sorprendentemente umana.
Jared.
[Primo, psicotico tentativo sul fandom]
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash, Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4. Welcome to the Jungle

“Welcome to the jungle, we got fun 'n' games
We got everything you want, honey we know the names
We are the people that you find, whatever you may need
If you got the money, honey we got your disease”

Guns N’ Roses, Welcome to the Jungle

 

Nessuno dei due era preparato a quello che accadde una decina di minuti dopo.

Seduto con le gambe incrociate, la testa poggiata sulle mani, Colin si arrovellava per trovare una via d’uscita a quella situazione semplicemente terribile, mentre Jared, al suo fianco, provava a tratti a curare la ferita con quello che doveva essere una specie di strano rituale magico, peraltro con pochi risultati. Si maledisse per non aver portato con sé la spada, ma soltanto un pugnale dalla lama corta che, per precauzione, aveva infilato nella cintura; col senno di poi, la scelta più saggia sarebbe stata una balestra.

«Io sono a posto, possiamo anche ripartire. La gamba va un po’ meglio?»

«Sono riuscito a far diminuire sensibilmente il dolore, ma non a curarla. Non credo che l’effetto del veleno durerà ancora per molto... forse, prima dell’alba, potrò sistemare l’osso spezzato». Rabbrividì. Un rivolo di sudore gli correva su una tempia, incollando i capelli corvini alla pelle, e Colin provò una sincera pena per lui quando vide che a stento riusciva ad aggrapparsi alla sua casacca, tanto era stremato.

In quel momento si ricordò di avere ancora addosso la sacca con il cibo e l’acqua fresca.

«Forse è il caso che ti copri e mangi qualcosa...»

«Va bene. Non credo di poter infilare dei pantaloni, ma... hai una camicia, o qualcosa di simile?»

Sospirando, Colin tirò fuori dalla bisaccia una grossa camicia di canapa, ruvida e resistente; quando la infilò a Jared, si rese conto che – nonostante si trattasse di un abito smesso che lui non usava più da anni – era comunque troppo grande per il ragazzo, e gli cadeva da tutte le parti con un effetto quasi comico. Se non altro, lo copriva fino alle ginocchia.

«Non provare a fare battute sulla mia altezza, bifolco. Non tutti abbiamo le spalle larghe come un dannatissimo bisonte...» borbottò, saggiando la stoffa con  le dita «... e poi, questa roba cosa sarebbe? Sembra fatta apposta per rendere la pelle ruvida come il cuoio conciato».

«Non credevo che avrei mai sentito un’osservazione simile da qualcuno che durante il giorno è ricoperto da squame durissime. Su, mangia questo e smettila di lamentarti».

Gli porse una galletta e una fetta di carne secca, che Jared si affrettò a divorare; vedendo quanto aveva fame, Colin non poté fare a meno di dargliene ancora, anche se sapeva che, se non avessero trovato presto dell’altro cibo, uno di loro due avrebbe dovuto necessariamente digiunare per consentire all’altro di sfamarsi. Non toccò nemmeno l’acqua, permettendo all’altro di dissetarsi – doveva averne persa parecchia, con tutto quel sudore, ed era meglio che bevesse parecchio.

 Quando Jared ebbe finito, si tirò in piedi sulla pietra e, datole un colpetto di tacco, esordì con  l’aria più allegra che gli riuscì:«Andiamo, non c’è niente di cui preoccuparsi. Storgronn non viene dipinta come un luogo così tremendo dalle genti delle montagne, e, in fondo, quanto può mancare all’alba? Non molte ore, ormai...»

Quasi l’avesse sentito, la pietra tremò.

All’iniziò fu una vibrazione sottile, poco più forte di un brivido; poi, in un crescendo sempre più veloce, cominciò ad oscillare e sollevarsi con scatti sempre più forti dal terreno, finché, accompagnata dallo schianto umidiccio della cortina di erbacce che veniva divelta dal suolo, se ne staccò completamente.

Davanti al viso di Colin, che era rimasto congelato dalla sorpresa, si sollevò, svolgendosi pigramente come un serpente che allenta le sua spire, un collo lungo e sottile, coperto di squame viscide, simili per disposizione e consistenza a quelle di un pesce. Alla fine, ondeggiando lentamente a destra e sinistra, gli si presentò quella che, per pura e semplice deduzione logica, doveva essere una testa: sì, perché, di primo acchito, sembrava più una massa gelatinosa dai contorni indistinti, segnata da una miriade di profondissime rughe.

Poi, improvvisamente, la massa gelatinosa si aprì, rivelando quattro sezioni di pelle rosea che, come i petali di un fiore, si agitavano attorno all’imboccatura violacea di un enorme tubo esofageo. Il tutto era costellato di denti bianchissimi, piccoli e appuntiti, in numero tale che Colin non riuscì a determinarne con precisione la quantità.

La cosa flesse indietro il collo ed emise un sibilo acuto, preparandosi ad attaccare.

Diviso tra la paura che gli appesantiva le viscere e l’istinto, che gli gridava di voltarsi e scappare, Colin si ricordò all’improvviso di Jared, ancora seduto accanto a lui; se fosse fuggito, quasi sicuramente quella creatura orrenda l’avrebbe ucciso. Non poteva esporre in quel modo al pericolo qualcuno che non aveva la minima possibilità di difendersi, non era codardo a tal punto.

Perciò, mentre il mosto si gettava sul compagno, si lanciò davanti a Jared, precedendo la creatura di una manciata di secondi.

Le zanne si conficcarono nella pelle della spalla, mancando di poco il collo.

Colin gridò, accecato per un attimo dal dolore: oltre la camicia strappata, oltre l’epidermide dilaniata da centinaia di minuscoli denti, la saliva del mostro bruciava come fuoco vivo nella carne, quasi la stesse corrodendo. Affondò le unghie nella pelle squamosa, cedevole, nel tentativo disperato di scrollarselo di dosso, ma il predatore non sembrò accusare il colpo.

Confusamente, come se provenisse da un’altra realtà, Farrell sentì la voce di Jared che lo chiamava, innaturalmente alta e tremante, spaventata. L’eventualità che si stesse preoccupando per lui era così bislacca da farlo sorridere.

Tanto, ormai, era sicuro che sarebbe morto lì.

Diede un calcio al collo flessibile, ma i suoi movimenti non facevano che aumentare i danni causati dalle zanne del mostro; ad ogni scossone, poi, quello serrava ancora di più la presa, perfettamente conscio dell’inferiorità della preda e del fatto che, se l’avesse tenuta ferma ancora qualche minuto, la sua saliva le avrebbe avvelenato il sangue, paralizzandola e rendendola definitivamente inoffensiva.

In quel momento, Colin udì un sibilo secco e improvviso.

Aprì gli occhi, che aveva serrato per il dolore, e, dopo essersi reso conto che la bocca del mostro si era staccata dalla sua pelle, fece appena in tempo a vedere un dardo lungo e nero conficcato nel cranio gelatinoso, che scivolò giù dalla pietra e cadde per terra,  di testa.

Si strinse la spalla con la mano, scivolando sulla pelle lorda di sangue, prima che il suo campo visivo diventasse completamente nero.

 

***

 

Jared arrancò fino al corpo di Colin, ignorando le fitte lancinanti alla gamba destra.

Lo afferrò per le spalle, gli tirò uno schiaffo sul viso e lo scosse con forza, cercando di svegliarlo, ma non funzionò: il cavaliere sembrava quasi addormentato, con il viso rilassato e la testa che ciondolava mollemente a destra e a sinistra. Lo maledisse silenziosamente per la sua stupidità, irritato dalla bontà caparbia di quell’idiota che era stato capace di farsi quasi uccidere per salvargli la vita; a dargli fastidio, più di tutto, era la consapevolezza scomoda che lui, al posto del cavaliere, non avrebbe mai fatto la stessa cosa.

Improvvisamente, udì un rumore piuttosto forte di rami spezzati, e vide le felci del sottobosco agitarsi, pochi metri davanti a lui. Raccolse le ultime energie rimaste e le convogliò nel palmo della mano, dove esplose un piccolo globo di fuoco bianco, poi, sempre tenendo d’occhio il punto in cui le piante si erano mosse, avanzò fino a coprire con i proprio corpo quello di Colin.

Se non era in grado di salvargli la vita, poteva almeno restituire il favore.

«Chi sei?» Gridò, quasi digrignando i denti «Fatti vedere, se non vuoi finire incenerito!»

«Dubito che tu abbia abbastanza forza per bruciarmi... comunque, come preferisci».

Pochi secondi dopo, dalla cortina di felci emerse un uomo alto e ben piazzato. Jared, che già sentendone la voce era rimasto sorpreso – si aspettava tutt’altro, a dir la verità, guardandolo non poté che tirare un sospiro di sollievo: era un comune uomo mortale, dai lineamenti morbidi e marcati, che lo fissava con una luce divertita nei profondi occhi castani. Portava i capelli corti, ma poco curati: irti come un cespuglio di spine, gli circondavano il viso di ciuffi corvini, e gli conferivano un’aria selvatica che veniva accentuata ancor di più dalla barba sfatta.

Gli abiti, al contrario, sembravano puliti e in ordine, anche se lisi; di stoffa ruvida, con colori tendenti al marrone e al verdognolo, parevano uscire indenni dal contatto con i rovi e i rami appuntiti del sottobosco.

«Voi chi siete? Non fate parte del loro popolo, vero?»

«No, infatti. Dovresti sapere che non ammettono quelli come noi, giusto? Sono un semplice ospite nei loro territori, e ci vivo da talmente tanto tempo che ormai chiudono un occhio sulla mia presenza».

«Vi ringrazio per averlo salvato... sarebbe morto senza la vostra freccia. Posso chiedervi qual è il vostro nome?»

«Sii meno formale e meno grato, ragazzo. Non ho mai amato questo tipo di smancerie, sono un tipo troppo provinciale per apprezzare i manierismi da corte dorata... mi presento: il mio nome è Robert Downey Junior, Primo Conquistatore di Mørktsted e Marchese della Terra Boschiva...»

«Titoli che non ho mai sentito nominare prima». Osservò Jared, sorridendo.

«Be’, in effetti non sono propriamente riconosciuti dall’autorità reale d’Oriente, ma sono il primo umano che giunge in queste terre dall’Est e vi si stabilisce, ergo tutto ciò su cui posi lo sguardo mi appartiene. È una legge che i grandi uomini di mondo amavano applicare, quando ero ancora giovane... ricordo guerre sanguinose combattute per questo motivo. Comunque, non siamo qui per parlare di questo, o sbaglio? Il tuo amico ha bisogno di aiuto...»

«E io non posso certo darglielo...» Jared si indicò la gamba, su cui spiccava il gonfiore illividito della frattura. Robert sollevò le sopracciglia in un moto di sorpresa, poi scosse la testa.

«Siete fortunati ad essere ancora vivi. La foresta non accoglie bene i nuovi arrivi, sapete...» volse la testa verso gli alberi alle sua spalle, aggrottando le sopracciglia «... e loro avrebbero potuto trovarvi prima di me. Allora sì, che non avreste avuto scampo».

«Sono qui intorno, non è vero?»

«Sì, ma non attaccheranno. Il loro capo mi è legato da un vincolo di profonda amicizia, e non vi toccherà se sa che sono stato io a trovarvi per primo».

«Questo non mi consola...»

«Forse non ti fidi di me? Ah, la gioventù di oggi  è davvero incredibile...  aibhilin, Galiza!» Chiamò poi, a voce alta, prima di emettere un alto fischio stridulo. Dopo pochi secondi, dalla boscaglia sbucò, gracchiando, una creatura bizzarra, quale Jared non ne aveva mai viste: aveva testa e pelle identiche a quella di una lucertola, il corpo lungo e affusolato e camminava sulle zampe posteriori, scostando rami e altri ostacoli con quelle anteriori, corte e munite di poderosi artigli. La coda era lunga e sottile come una frusta, decorata da un disegno tigrato che proseguiva quasi fino al lunghissimo collo dell’animale; sulla pelle spuntavano, in ciuffi radi ed estremamente colorati, piume corte e iridescenti, che si rizzavano o aderivano al corpo a seconda del momento.

«Oonagh». Disse Robert, notando la sua faccia sorpresa «Sono difficili da addomesticare, ma ottime cavalcature, veloci e resistenti come poche altre. Anche gli abitanti del luogo le usano... sono loro che mi hanno regalato questa». Scosse con la mandritta la bardatura, una sorta di rete sottilissima di striscioline nere che ricoprivano per intero la testa e il torace dell’animale, adattandosi perfettamente alle sue forme. Quasi fosse una semplice cavezza, poi, non aveva morso né redini, ma soltanto un pomello sul garrese a cui aggrapparsi durante la corsa; similmente, la sella era appena abbozzata: giusto una coperta di stoffa pesante, legata con una cinghia a cui si collegavano le staffe, proteggeva la schiena profondamente convessa dell’animale.

«Come fa a cavalcare senza redini?»

«Non ne ho bisogno. Se impari il loro linguaggio, puoi dire dove vuoi andare e ti ci porteranno».

Detto questo, senza ulteriori cerimonie, si avvicinò a Colin e, con una forza che sorprese Jared, lo sollevò di peso e lo collocò delicatamente sulla groppa di Galiza, che pure si trovava all’altezza delle sue spalle.

«Mi dispiace per la tua gamba, ma ho bisogno che lo tieni fermo mentre andiamo. Posso chiedere a Galiza di andare con calma, ma non si tratterà comunque di una passeggiata al chiaro di luna...»

«Non c’è problema».

Si lasciò mettere sulla sella, afferrandosi istantaneamente all’arcione con  la mandritta e tirandosi contro Colin con la sinistra, poi aspettò che Robert, compiuta una mossa agile e aggraziata, prendesse posto alle sue spalle.

«Non sarà comodo,» annunciò «ma almeno stanotte nessuno banchetterà con la vostra carne. Alùn, Galiza, alùn».

Jared si aggrappò con forza alla sella e socchiuse gli occhi.

Quando Galiza partì, slanciandosi in avanti con una mossa fluida e velocissima, il verde che scorgeva oltre la cortina opaca delle ciglia finì per mescolarsi e diventare un’unica massa fluida, indistinta. I rami schizzavano via a pochi centimetri dal suo corpo, ma non lo graffiarono mai; sentiva il cuore della creatura battere come un velocissimo tamburo sotto la pelle fredda, e i richiami che Robert, una manciata di centimetri dietro di lui, gli lanciava per aggiustare la direzione. Non capiva cosa dicesse, eppure quei suoni gli suonavano stranamente familiari.

Cominciarono a risalire un pendio via via più ripido, ma sempre ricoperto uniformemente di alberi; solo quando furono giunti in cima Galiza di fermò, e Jared poté finalmente constatare che, anche a Mørktsted, esistevano zone prive di piante ad alto fusto.

Si trovavano sulla cima rocciosa di una collinetta rialzata di forse cento piedi rispetto al mare di verde circostante. Per uno spazio circolare di circa quaranta metri quadrati, illuminato dalla luce vivida di una trentina di torce, dal terreno non spuntava un solo filo d’erba, delineando un cerchio tanto preciso che il ragazzo faticò a credere si trattasse di una semplice coincidenza.

«Quale magia hai usato per evitare che la foresta putrida invadesse questo spazio?»

«Magia nanesca... saprai quanto poco amino il verde, immagino. Nulla che sia nato a Mørktsted più entrare nel mio cerchio, eccetto Galiza». Robert picchiettò con il palmo su un fianco dell’animale, e Jared vi notò un segno che assomigliava ad una sorta di runa marchiata a fuoco nella carne.

Al centro della spianata stava una roccia enorme, scavata su un fianco, in cui una mano evidentemente abile aveva inciso una serie di simboli complicati, che richiamavano alle scritture di mille lingue diverse; nell’enorme nicchia alla base, invece, si potevano scorgere un pagliericcio ed una gran quantità di vasellame in terracotta, che emanava un odore balsamico – anche se piuttosto pungente – a diversi metri di distanza. Jared inspirò l’aria, notando come sembrasse stranamente più pulita e leggera di quella che si trovava pochi metri più in basso.

«Perdonami, ma quelle lingue...»

«Non più di dieci anni fa, a ventisei anni, abitavo alla corte della regina di Ademar ed ero un linguista famoso. Studiavo le culture dei popoli  occidentali, e ovviamente i loro idiomi... questo, finché non facemmo una spedizione in questa foresta, alla ricerca di prove tangibili sui suoi abitanti, di cui per lungo tempo nel mio reame si era udito favoleggiare dagli zigani. Ho inciso quelle parole sul mio rifugio per non dimenticare mai quello che ero... nella speranza di poter tornare a casa, un giorno».

«Vi perdeste nella foresta?» Domandò Jared, mentre Robert, tirato Colin giù da Galiza, lo stendeva sul pagliericcio; aiutò anche lui a scendere e sedersi con la schiena contro la roccia, prima di rispondere.

«Non è corretto dire che ci perdemmo. Fu la stessa Mørktsted ad inghiottirci, riversandoci contro i suoi peggiori malefici. A quell’epoca ero troppo giovane e inesperto... fu una fortuna se riuscii a sopravvivere».

«Loro non ti uccisero?»

«Per una serie di fortunate coincidenze, avevo appreso un poco della loro lingua su dei testi antichissimi, nella biblioteca di Ademar, che all’epoca si riteneva narrassero semplici favole. Tra loro, però, c’è anche chi parla un po’ di lingua corrente dell’ovest... ne hanno bisogno, almeno una volta l’anno. Comunque, il reale motivo per sono ancora vivo è che, senza saperlo, salvai la vita alla loro regina, quando era ancora una ragazzina.... aveva undici anni, e una creatura non molto diversa da quella che vi ha attaccati stava per divorare anche lei».

«Non credevo che fossero capaci di tanta gratitudine».

«Infatti, credo che il mio caso sia unico nella storia del mondo. Non temere, comunque: come ti ho detto, non vi torceranno un capello finché siete con me».

Robert aprì un vaso dall’odore particolarmente forte, infossato per metà nel terreno; con le dita ne tirò fuori una sostanza vischiosa, di un verde iridescente che virava a tratti verso il viola, e la spalmò abbondantemente sulla ferita di Colin, senza però fasciarla. Quando ebbe finito, coprì il cavaliere con una coperta fino al bacino e gli si sedette accanto.

«Quando si sveglierà bisognerà che mangi molto. L’unguento disinfetterà la ferita e farà sì che si cicatrizzi velocemente, ma l’energia necessaria per questo processo verrà tolta tutta al suo corpo. Per quanto riguarda te...» accennò a Jared con la mano sinistra, mentre, con la destra, tirava fuori una pipa di legno dai pantaloni «... non credo che tu abbia bisogno del mio aiuto per curarti, dico bene?»

Jared sgranò gli occhi, sorpreso.

«E tu come fai...»

«Dopo dieci anni passati in un luogo permeato da infinite forme di magia, posso percepire quella che ti circonda come se avesse  forma e colore visibili. Non è di un tipo particolarmente puro, non è così?»

«È una lunga storia...»

«Lungi da me costringerti a raccontarla. Tieni, prova questo... ti restituirà le forze».

Spezzettò nella pipa degli strani petali gialli, anche quelli presi da un vasetto sigillato, poi l’accese e la porse a Jared. Il ragazzo la afferrò con un’espressione insospettita sul viso, e l’annusò a lungo prima di infilarne in bocca un’estremità e inspirare profondamente.

Il fumo che gli riempì i polmoni aveva l’odore di un bosco in primavera e la freschezza corroborante di un sorso d’acqua pura. Boccheggiò, quasi intontito da una sensazione così piacevole, e sorrise quando sentì che, come un fiume in piena i cui argini si siano definitivamente rotti, le forze cominciavano a tornagli, rianimandolo.

«Che cos’è?»

«Erbe che provengono dal cuore di Mørktsted. Piacevoli trastulli per il tempo libero, ottimi tonici quando si deve fare qualcosa di particolarmente impegnativo».

Jared annuì, restituendo la pipa a Robert. Poi poggiò le dita sulla gamba fratturata, prese un bel respiro e, dopo qualche secondo di concentrazione, cominciò a recitare quelle antiche formule di guarigione che i suoi genitori gli avevano insegnato sin da ragazzo, affinché potesse essere autosufficiente in qualsiasi battaglia.

Rispetto alla lingua orientale sembravano quasi unicamente sibili privi di significato, ma custodivano, nel loro significato intellegibile, un sapere antico che affondava le proprie radici nei flutti del tempo.

Un’intensa luce bianca sgorgò dalle sue dita, diramandosi sulla pelle arrossata e penetrandovi in profondità, illuminandola quasi; la carne si deformò, cambiando e guarendo, e, quando finì, la gamba aveva un aspetto perfettamente sano, identica a com’era stata prima dell’incidente. Spossato, Jared si abbandonò contro la roccia, il respiro accelerato.

«Nascondi segreti notevoli, ragazzo».

«Non sono uno sprovveduto, a differenza di ciò che il mio aspetto suggerisce. Lui, piuttosto, non fa che combinare disastri». E accennò a Colin, che riposava tranquillo sul pagliericcio.

«Ma ti ha salvato. Quel mostro poteva ucciderti».

«Poteva uccidere anche lui ».

«Ed è proprio per questo che dovresti essergli grato».

«Gliene sono infinitamente grato, infatti. È solo che...»

«Solo che?»

«Avrei preferito che non lo facesse. Vederlo sotto le zanne di quel mostro è stato... brutto».

Robert sorrise.

 

***

 

Mancava poco all’alba, quando Colin si svegliò.

Aprì gli occhi, combattendo contro la stanchezza, che lo spingeva ad abbassare le palpebre, e si ritrovò a fissare, con somma sorpresa, il tetto di pietra di una minuscola grotta. Si tirò seduto, ignorando una fitta alla spalla, e la prima cosa che vide furono gli occhi di Jared, brillanti nel buio, che lo fissavano con un’espressione quasi contenta.

«Ti sei svegliato, finalmente». La sua sagoma buia si mosse, sullo sfondo un cielo già chiaro e ancora trapunto di stelle. Gli porse un piatto pieno di oggetti tondeggianti,  e Colin, senza pensarci troppo, ne afferrò uno e se lo ficcò in bocca; scoprì di star mangiando un frutto – succoso, con la buccia piacevolmente morbida e cedevole e il sapore dolce – e lo inghiottì quasi intero.

«Hai fame, eh?»

«Sì, ma,» boccheggiò, rischiando di strozzarsi «in che posto siamo? È un riparo che hai trovato tu? E poi, aspetta un attimo...» si toccò la spalla, dove, a parte la pelle stranamente liscia, non c’era niente di anomalo. In altre parole, la ferita era sparita.

«Siamo stati salvati da uno strano tipo che vive in questo posto da tanti, tantissimi anni». La voce di Jared tradiva una certa nostalgia – di cosa, il cavaliere non seppe stabilirlo «Ad ogni modo, dobbiamo andarcene prima dell’alba. Sbandierare in giro il mio segreto non è una mossa molto furba, anche se non credo che, in ogni caso, quel tipo potrà mai scappare da questa foresta».

«Da quanto tempo è qui?»

«Dieci anni, da quello che racconta lui. Ma potrebbe anche essere di più... deve essere difficile mantenere il senso del tempo, in un posto come questo».

Colin smise improvvisamente di mangiare, e lanciò a Jared un’occhiata penetrante. Anche se erano quasi del tutto al buio, fatta eccezione per la luce tremolante di alcune torce piuttosto distanti, era sicuro che l’aveva visto benissimo.

«Vuole tornare a casa?»

«Chi non vorrebbe?»

«Allora portiamolo con noi».

Gli occhi di Jared divennero simili a mezzelune.

«Come?Non possiamo tirarci dietro un'altra persona! Sarebbe troppo rischioso per noi e per lui, senza contare che dovremmo provvedere ai viveri e...»

«È stato lui a curarmi, giusto? Abbiamo bisogno di qualcuno che si intenda di medicina tradizionale, quando non possiamo contare su di te. E non credo che sia uno stupido, se è riuscito a sopravvivere per dieci anni da solo qui dentro. Portarlo con noi ci farebbe solo comodo. A proposito... adesso dov’è?»

«A caccia. Pare che qualcosa di commestibile ci sia, in questa foresta».

«Intendi andartene prima che torni, non è così?»

«Mi dispiace, Colin».

Fece per allungare una mano e toccarlo, ma il cavaliere gli afferrò il polso prima che potesse anche solo sfiorarlo.

«Oh, andiamo, tu quel tipo nemmeno l’hai mai visto...»

«Mi dispiace, Jared».

Gli sferrò un pugno sul volto con tutta la forza che aveva.

Jared emise un singulto, poi si afflosciò su sé stesso. Colin lo afferrò prima che potesse cadere per terra, poi se lo tirò contro e lo distese accanto a sé, sul pagliericcio; doveva soltanto sperare che il padrone di casa tornasse prima del risveglio della principessina.

Come a rispondere al suo pensiero, in quel momento una figura alta, mascolina, si affacciò sulla soglia della nicchia. Per quel poco che il cavaliere riuscì a vedere, era un uomo di una bellezza semplice, dall’espressione dolce e simpatica, con due profondi occhi scuri che lo scrutavano con una certa apprensione.

Tutto il contrario di Jared, insomma.

«Tutto a posto qui?» Colin notò che nella mano stringeva due conigli, rigidi come pezzi di legno ma grassi e ben torniti. Sì, quel tipo gli stava decisamente simpatico.

«Avrei un paio di cose da dirti, prima che questo qui si svegli».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_Angolo del Fancazzismo_
Che dire, sono come al solito in ritardo colossale.

BTW, spero che questo capitolo vi sia piaciuto (direi “come i precedenti”, ma non sono poi così sicura che i precedenti vi siano piaciuti). Gli eventi cominciano a velocizzarsi un pochino, che dite? Siamo ancora all’inizio, e non vedo l’ora di inserire tutte le ideuzze che mi sono venute in mente per i prossimi capitoli...

Vi linko la canzone che ho ascoltato, praticamente in loop, durante la stesura. E dei Two Steps From Hell, un duo norvegese che fa colonne sonore per trailer di film (sì, detto così sembra una gran cavolata) e che io trovo a dir poco f a n t a s t i c o.

Questo è il link: http://www.youtube.com/watch?v=cSH-_ScN6G0

Spero vi piaccia... alla prossima!

See you soon,

Roby

   
 
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