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Autore: Shu    07/07/2006    5 recensioni
Venticinque anni prima della fine del mondo, l’allora capo della famiglia Sumeragi fa un sogno.
Venticinque anni dopo, è il momento di vedere se era illusione o verità.
Songfic sulle parole e sull’atmosfera di “25 Years”, Blackmore’s Night.
Genere: Malinconico, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Subaru Sumeragi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La donna dorme, dentro preziose lenzuola di seta.

Il copriletto è percorso di ricami sottili, eleganti giochi di fiori sbocciati in fili iridescenti, e sulla balza un monogramma e un simbolo, lo stemma di famiglia. Una stella a cinque punte.

I lunghi capelli, un tempo neri come la notte fuori della finestra, ora striati d’argento sono sparsi con religiosa cura sul cuscino, e persino le pieghe delle coperte sembrano ordinate, appena increspate nelle forme sottili della donna.

Il letto è grande, ma solo una piazza è occupata. L’altra è intatta, nemmeno quelle minime pieghe la turbano. Sono molti anni che nessuno dorme più accanto alla donna, se non la memoria di un uomo silenzioso e gentile, il cui volto sorride ancora in bianco e nero nella foto sul tavolino da notte. Anni, così tanti, ma che lei ancora conta, mentre ha quasi rinunciato a contare i suoi, ormai entrati nell’ultima stagione della vita.

Dorme. Sta sognando.

Di solito, i suoi sogni sono leggeri e armoniosi, pennellate di acquerello su sfondi chiari, disegni quasi astratti nella luce, i visi delle persone che ha amato e che ama, tutti accanto a lei come in un ritrovo a lungo atteso. Sempre più rari i ricordi della sua infanzia e della sua giovinezza, e qualche volta ci sono i sogni strani, quelli che sfuggono alla sua razionalità, quelli in cui si trova in posti che non ha mai visto, liquefatti in sensazioni che al risveglio paiono appartenere ad un altro mondo.

Rari sono gli incubi.

Ma questo è un incubo.

 

--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream
I could see that the world was crumbling
Nothing is ever as it seems—

 

Il mondo.

Non sa come sia possibile vedere il mondo tutto insieme, ma quella è l’impressione del momento. L’idea mozzafiato di afferrare il mondo intero in uno sguardo. Ci sono città ultramoderne irrequiete di grattacieli e insegne al neon, riconosce Tokyo, e New York, forse, e poi ci sono villaggi assediati dal deserto e dalle mosche, lamiere rugginose per proteggersi dalla febbre di un sole tutto l’anno. Metropoli che ancora conservano diroccati i muri di qualche epoca passata, e capanne di pescatori sull’oceano. Nello stesso attimo, nello stesso spazio, ghiacci e dune di sabbia dorata, steppe senza fine e montagne illuminate di fuochi.

Ma improvvisamente capisce una cosa.

Che il mondo è fatto di vetro.

Non potrebbe dire come abbia fatto a comprenderlo, ma da un momento all’altro lo sa, lo sa e basta. E’ una certezza testarda, che non vuole spiegazioni.

Il mondo è fatto di vetro.

E una crepa serpeggia tra le creste dei monti, giù, percorre le dorsali degli oceani, segue le linee dei vulcani, sempre più ampia, si spacca nei fiumi, apre in due il mare… e crollano le capanne e le ville, tremano, precipitano gli specchi di cui sono fatti i grattacieli, di vetro sono le acque che si infrangono in spuma, cadono le città.

 

--Tried to run but my feet were frozen
Tried to scream but there was no sound—

 

Lei vorrebbe urlare, correre via da qualunque luogo in cui si trovi, perché sa, sa che tutto sta per finire. Gridare il suo terrore e fuggire, nascondersi, l’istinto di un animale braccato da un nemico che non vede. Ma non ha voce. Non può muoversi, solo restare impietrita sotto la pioggia di milioni di frammenti di vetro, nella tempesta del mondo accoltellato a morte.

Schegge, vetri, le urla di tutti gli abitanti della Terra, tranne lei… vetri… specchi.

C’è uno specchio.

Davanti, un bambino. E’ piccolo, chissà quanti anni potrà avere, forse una decina. Ha i capelli lisci e neri, il volto nascosto dalla frangetta, e gioca con la sua immagine riflessa. Ride, e l’immagine ride. Apre la mano contro la superficie, e dall’altra parte un’altra mano, perfettamente identica, si congiunge con la sua. Il bambino osserva con infinita meraviglia il gioco inesauribile di qualcosa di così normale, ordinario come uno specchio.

La sensazione di avvicinarsi al ragazzino. Lei si china, alla sua altezza, e lui si volta, stupefatto, ma poi sembra riconoscerla, e sorride. Adesso può vedere i suoi occhi, grandi e verdi come cose che ha dimenticato, prati in cui forse ha corso in anni lontanissimi, all’alba della sua vita.

Anche l’immagine nello specchio sorride in occhi altrettanto verdi. Eppure, ha qualcosa di lievemente diverso, un’espressione appena più scherzosa, dispettosa, un modo più aperto di ridere. Ed entrambi i bambini corrono verso di lei, si perdono nel suo abbraccio che non ha confini.

Tenerezza. Sente un’impressione nuova eppure antica di tenerezza, che si spande attorno a lei, intorno a loro in un manto di rosa. Rosa. L’immensa chioma di un ciliegio tutto in fiore.

Dove sono i bambini dai capelli neri? Non lo sa, non sa quando si siano slacciati dal suo abbraccio, ma ora ne assapora l’assenza, le sue mani stringono il vuoto.

Ma non prova angoscia, perché conosce il luogo dove ritrovarli. Deve averli lasciati lì ad aspettare, forse ha promesso loro di tornare a prenderli presto, sotto il ciliegio. Ed è lì che sono. No, si è sbagliata, solo uno l’attende ai piedi dell’albero in fiore.

E’ tutto sbagliato.

Perché accanto al bambino c’è un uomo, e lei presagisce che dietro i suoi sorrisi quell’uomo nasconde abissi di doppiezza, piume nere e ricordi di sangue, fiori macchiati di rosso che se li tocchi ti tingeranno le dita per sempre.

E allora tenta di correre, correre per salvare il bambino, si getta con tutto il suo essere sotto il ciliegio in fiore, tende le mani, protende il suo potere perché no, no, non deve succedere niente al ragazzino dagli occhi verdi, non deve accadergli niente, no…

 

--In my head voices echoing
Girl you should know better by now—

 

Ma c’è l’uomo.

 

Che la fissa con il suo sorriso senza occhi, con il suo sguardo senz’anima. Gli basta sollevare una mano per respingere la donna, spezzare il suo slancio, gettarla a terra, la forza che muore in gola… dolore… non esiste altro che il dolore nelle gambe che non può sentire più…

 

E quel sorriso beffardo sembra dirle “Davvero credevi di potermi battere? Dovresti saperlo che…

 

Non puoi.”

 

Le parole la deridono, ridono, ripetute mille volte nella sua testa fino a diventare una successione di suoni senza senso, per lasciare solo il terrore, la sensazione di avere perso.

 

La sconfitta.

 

Il senso della sconfitta la spazza, annulla il suo essere, e adesso c’è solo bianco, vuoto. Neanche la consolazione di avvertire le lacrime sulle guance, nemmeno quella può avere, perché sa di essere totalmente impotente. Il suo esistere è inutile, perché non potrà mai fare niente per cambiare le cose, non potrà impedire al destino di girare la sua ruota, impedire al mondo di vetro di spaccarsi in tutti i suoi specchi, non potrà fermare quell’uomo dal prendere le mani del bambino e stringerle tra le sue, in una promessa perversa…

 

E il mondo continua a cadere.

 

La donna si sveglia di soprassalto.

 

Trema, trema incontrollabile tra le gelide lenzuola di seta, le immagini del sogno che si sfaldano, si bruciano davanti agli occhi della sua mente come corrose dalla realtà del risveglio. Cerca di trattenerle, di capire, di immergere le mani in quel fiume per afferrare qualcosa che brilla sul fondo… quelle visioni… è già tutto sfuocato, indeciso, impreciso, ma una cosa sola resta chiara.

 

Il senso della disperazione.

 

Il panico che invade la sua pelle e ogni suo pensiero, terrore non ricorda più di cosa, ma è un pericolo imminente, immenso, un’ombra sospesa addosso al suo mondo.

 

Spalanca la porta e, a piedi nudi sul legno, corre nell’altra stanza, dove dormono l’uomo e la giovane donna.

 

Sì, dormono.

 

Sono in pace, le coperte si sollevano appena al ritmo confortante del loro respiro, l’uno vicino all’altra nelle loro espressioni tranquille, lontane da qualsiasi incubo.

 

L’uomo forse ha sentito qualche rumore dato che si agita un poco sotto le lenzuola, socchiude gli occhi, poi riconosce la figura nella penombra, accanto allo shoji, e si alza lento per venirle incontro.

 

“Mamma? Che ci fai in piedi? Cosa c’è?”

 

Come può spiegare il panico irragionevole che ancora la fa tremare sotto le vesti, cosa può dire di un sogno che non ricorda, di un pericolo che adesso è così chiaro che non esiste? Adesso, con i piedi ben piantati a terra, l’aria appena fredda della notte, il viso assonnato, i capelli arruffati di suo figlio… adesso… ma una manciata di attimi fa, dentro quelle immagini buie e irrimediabili, dentro quel labirinto di disperazione senza uscita…

 

“Niente, mi sembrava… di aver sentito qualcosa, sai…”

 

Lui sorride affettuoso, nonostante il brusco risveglio. “No, no, è tutto a posto, stai tranquilla. E poi, lo sai, almeno per due settimane non dovrebbe ancora succedere nulla. Certo, quando si tratta di gemelli non si sa mai… magari questi due bricconi hanno fretta di nascere… ma non ti preoccupare, mamma, se ci fosse qualcosa ti verremmo a svegliare noi. D’accordo?”

 

Ha tanta voglia di piangere. Vorrebbe avvertire suo figlio di qualcosa, qualcosa, ma non sa cosa. E allora può soltanto passargli sul viso una carezza della sua mano tremante, e fare finta di niente.

 

“Buonanotte, figlio mio.”

 

“Buonanotte.”

 

Oh, non sarà una buona notte, per lei. I suoi passi sono lenti e stanchi sul legno, non ha il coraggio di chiudersi la porta alle spalle quando rientra nella sua camera. Rannicchiata in fondo al letto, si stringe addosso le coperte cercando invano di ricordare, o di dimenticare. Si chiede perché ha ricevuto in eredità quel maledetto potere, perché ogni tanto nei suoi sogni, nelle meditazioni le si aprano squarci del futuro, strappi nel cielo che fanno intravedere qualcosa d’altro, visioni che corrono nella loro confusione. A volte si sono avverate, altre volte no. E non c’è modo di discernere il giusto dall’inganno, di sapere se quelle apparizioni si affaccino dalle porte della verità o da quelle dell’illusione.

 

Forse è meglio così.

 

Potrebbe tirare fuori dai suoi cassetti le pergamene incantate e l’inchiostro, il coltello cerimoniale e uno specchio, potrebbe sedersi di fronte al Grande Fuoco che non si spegne mai, e forse, nella danza delle fiamme, nell’odore del fumo si disegnerebbe la verità.

 

Ma sa già che non ne avrà il coraggio.

 

 

--Long ago, far away…
In the mist of yesterday—

 

 

-----------------------------------

 

 

--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream—

 

 

Lui era già sulla porta.


Il suo esile profilo si dipingeva in controluce sullo sfondo del giardino della villa immerso nella primavera. Il chiarore del primo mattino, e il verde, il verde che faceva capolino timidamente dall’inverno e dalla notte. Gli occhi di lui sarebbero dovuti essere ancor più preziosi di quel tripudio, ancora più verdi della gloria della natura, ma erano invece spenti, come sempre, occupati adesso a controllare le fibbie e le chiusure delle valigie.

 

Si raddrizzò, e rivolse uno sguardo all’anziana donna immobile nell’ingresso.

 

“Allora… io vado.”

 

Tre parole, definitive. E lui aveva già i bagagli in mano, già un piede fuori della soglia.

 

L’unico desiderio di lei era quello di corrergli incontro, fermarlo, stringerlo a sé come faceva quando lui era piccolo, quando ascoltava ogni sua parola, obbediente e timido negli specchi di smeraldo che erano i suoi occhi. Ma non poteva.

 

Non poteva più correre, inchiodata alla sedia da tanti anni che quasi non ricordava più cosa significasse posare i piedi per terra e sentire le piante sostenere il peso del corpo.

 

Non poteva abbracciarlo, perché lui era un uomo adesso, il capo della famiglia, ogni sua parola, ogni sua silenziosa ostinazione erano legge.

 

Non poteva fermarlo.

 

Perché nei suoi occhi leggeva una cosa sola.

 

Che non si può salvare nessuno da se stesso.

 

 

--“You had tried so hard to save me
How do you save someone from themselves?
All those years, wasted wishes
Drowning in the wishing well…”--

 

 

Quanti anni buttati, quanti sogni spezzati, quante vite perse?

 

Che importava che fosse imminente la fine del mondo, quando il suo mondo era già finito da un pezzo, rimasto soltanto a trascinarsi nella sua inutile agonia disfatta, a ricordarle ad ogni minuto che passava tutti i suoi fallimenti?

 

Perché l’unica cosa che le restava doveva andare via?

 

“Addio, nonna.”

 

Le lacrime scivolavano giù sul viso della donna, neanche quelle aveva potuto fermare.

 

“Oh, Subaru… pregherò per te, Subaru…”

 

“Non ti disturbare.”

 

Neanche quello, poteva fare.

 

E d’improvviso le tornò alla mente il sogno, il sogno che aveva fatto venticinque anni prima. E quella sensazione così assoluta di impotenza, di inutilità, di sconfitta riempì di nuovo, in un istante solo, tutto il suo essere.

 

Era ancora una volta immobile nell’occhio del ciclone, sotto il diluvio di schegge di vetro, in mezzo al mondo che crollava, schiantato come tutte le sue speranze, le sue illusioni. Sorrisi senza allegria e addii senza senso, desideri finiti in tragedia e neanche il tempo di pronunciare una parola, fatica sprecata, fiori di sangue sbocciati nel suo universo immacolato.

 

Lui se n’era già andato.

 

Gli occhi della donna restarono fissi sulla sua figura che si allontanava, annegata nel velo caldo delle lacrime. L’ultimo cancello si spalancava, lasciava passare il giovane uomo –non s’era voltato indietro- e poi si richiudeva, per non aprirsi mai più. Mai più l’avrebbe rivisto tornare in quella casa.

 

Dopo venticinque anni, il sogno tornava ad esigere il suo tributo.

 

Venticinque anni di una vita che adesso andava a recitare il suo ultimo atto, l’ultimo sacrificio al destino. Andava a fare finta di opporsi all’epilogo.

 

Andava a finire un mondo già morto.

 

Per tutti e due.

 

 

--Twenty-five years since I woke up trembling
Twenty-five years since that terrible dream…—

 

 

 

 

 

[Note...

Scritta completamente di getto, sulle note della canzone dei Blackmore's Night. E' la prima volta che scrivo in questo modo, e forse sarebbe stato meglio aspettare qualche giorno, lasciarla lì e poi tornare a rileggerla tra un po'. Ma ho voluto sperimentare una scrittura completamente ispirata, senza ripensamenti. E soprattutto, volevo metterla qui entro oggi, perché... è il mio regalo di compleanno per Juuhachi Go!! E questa scadenza mi ha spinto a completare il lavoro. In onore di una grande scrittrice come lei, poi, ho voluto fare un ritorno all'onirico, il mio modo di scrivere attraverso il quale abbiamo cominciato a conoscerci meglio.

Con i miei più calorosi auguri per Jucchan (quanto vorrei essere lì con te...) e con la speranza che questa fic abbia un senso e sia almeno un po' comprensibile...

Shu]

 

   
 
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