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Autore: Eirien    09/11/2011    5 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Track #01: Welcome to the jungle TRACK # 01:

WELCOME TO THE JUNGLE

Welcome to the jungle
We take it day by day
If you want it you're gonna bleed
But it's the price you pay […]
You can taste the bright lights
But you won't get them for free
In the jungle
Welcome to the jungle

(Gun’s ‘n’Roses)

Una giornata come quella avrebbe preferito cestinarla prima ancora che fosse iniziata, verniciata com’era di rumore e di emicrania da stress. Traffico impazzito, smog, un’interminabile viaggio in taxi, e soprattutto, troppa gente. Una spessa patina di frenesia contagiava i passanti, elettrizzando l’atmosfera. Era davvero la Tokyo che aveva lasciato, quella? Ricordava poco di quella parte della sua infanzia, delle stradine assolate e deserte nel suo fulmineo passaggio all’Orfanatrofio Vattelapesca, confuse con quei ricordi che non riusciva ad interpretare, prima ancora che un riccone stravagante pretendesse di sapere quali stelle avrebbero guidato il suo destino. Ma quel poco bastava a scegliere, e il resto lo facevano gli anni di quasi totale solitudine sul cocuzzolo della seconda montagna più alta del mondo. Appena arrivata già non ne poteva più. Quanto ancora poteva diventare caotica una metropoli che stava preparando l’evento mediatico del secolo? 
Manifesti in esacromia, decine di copertine patinate; un solo, ecumenico evento teneva ancorata su di sé l’attenzione dell’intero villaggio globale. Le Galaxian Wars, il pittoresco torneo di lotta organizzato dalla Fondazione Grado, stavano per cominciare sotto il patrocinio della sua Presidente, una bambolina di porcellana che odorava ancora di latte e borotalco. 
"E tu stai per trovartici in mezzo." 
La ragazza scosse la testa, senza distogliere lo sguardo dalla copia dell’edizione settimanale del ‘TIME MAGAZINE’, pescato nel mucchio di pubblicazioni giubilanti sul tavolino art nouveau posto in un angolo del monumentale atrio di Villa Kido. E non soltanto perché, in un’altra vita, quella rivista era la prima cosa che leggeva il lunedì mattina. “Per lo meno, è scritta in una lingua comprensibile agli esseri umani.” Lei e il giapponese non erano mai andati granché d’accordo. Si era sempre confusa con le formule di cortesia, collezionando figuracce memorabili. E i kanji dopo un po’ le confondevano la vista. 
Voltò pagina, soffermandosi su una panoramica dell’anfiteatro che avrebbe ospitato il fausto evento. Il festival del kitsch. Una quattordicenne megalomane giocava ad impersonare Cesare e l’intero pianeta le dava retta. "Saori, Saori… Attenta che qualcuno dei tuoi gladiatori non ti si trasformi in uno Spartaco." 
Fu distolta da quei pensieri agrodolci da un compitissimo Tokumaru Tatsumi. Il braccio destro dei padroni di casa, nonché tutore della Piccola Lady, le fece cenno di seguirlo senza una parola. 
In effetti, si trattava di un Tatsumi divenuto compitissimo soltanto dopo una piccola discussione con le sue parti basse, le cui conseguenze potevano essere ancora rintracciate nell'andatura innaturale del tuttofare della famiglia Kido. Mentre l’accompagnava, gli occhi dell’uomo avevano valutato attentamente l’altezza, la capigliatura disordinata (ma non era bionda, da bambina?) e il fisico sottile trivialmente ostentato da un vestiario a metà tra la pornostar in erba e la studentessa di danza classica, e ne avevano tratto la poco confortante conclusione che fosse più saggio evitare ulteriori discussioni. Tatsumi sarebbe anche stato curioso di scoprire com’era diventato il suo volto, ma, prevedibilmente, la ragazza indossava una maschera rituale in metallo, segno di appartenenza all’antico culto della dea Athena. Il signor Kido, ancora una volta, si era rivelato più lungimirante di lui, che non avrebbe scommesso un soldo bucato sul ritorno di quella piccola teppista. Non solo non se l’era data a gambe, ma aveva persino portato con sé uno scrigno in tutto e per tutto simile a quello dei suoi vecchi compagni. "Delinquenti anche loro, che gli Oni se li portino." 
Non era certo l’accoglienza che le avrebbe riservato, se fosse stato lui a decidere, ma Tatsumi sapeva adempiere ai suoi doveri con stoica rassegnazione. L’accompagnò a destinazione, bussò. La ragazza sembrò tornare con i piedi per terra soltanto in quel momento.
Si scosse, prese un respiro profondo, gli occhi fissi sulla schiena dell’uomo che si allontanava. L’aveva lasciata di fronte a quello che, lo ricordava benissimo, era stato lo studio del defunto padrone di casa. Era difficile fingere una parvenza di compunzione, quella parte del suo passato la ricordava troppo bene. Certo, l’avevano prontamente informata della scomparsa del vecchio non appena scesa dall’aereo per il Giappone, eppure era ancora in paziente attesa del rammarico che forse sarebbe stato educato provare. 

— Altair, è un piacere rivederti — Saori Kido, l’erede della dinastia, aggirò senza fretta la pesante scrivania, dandole il benvenuto con una voce beneducata, forse ancora un po’ leziosa. Le manine inguainate nel pizzo, tese verso di lei come in un bizzarro incubo ottocentesco, erano il particolare più sobrio del quadretto. La ragazza si chiese chi altri mai potesse avere la finesse di sedere al lavoro infagottata nell’abito di Cenerentola al ballo. — Sei tornata, finalmente. Di tutti sei quella che mi è mancata di più. — 

“Sei anni fa non sembravi così interessata." La sedicente Altair si lasciò abbracciare con un certo disagio. Ricordava il giorno della partenza, e la piccola Saori, aggrappata come sempre ad una falda dell’abito del nonno, protestare fieramente che, senza di lei, giocare alla cerimonia del tè non sarebbe stato altrettanto divertente. E poi correre a montare il nuovo pony che le era stato regalato. Anche lei in un qualche modo le era stata affezionata, allora, nel modo in cui poteva esserlo un cucciolo che non aveva mai attraversato il cancello del giardino, ma cosa provava ora, con quel peso sul cuore? La voce del bastardo ancora nelle orecchie… 

"Un giorno capirai. Certe scelte ce le impone un bene superiore." 

— Altair… mi stai ascoltando? — 

"Questa non sono io! Come hai potuto portarmi qui? e cos’hai fatto ai miei ricordi?" 

— Scusami… un po’ di stanchezza — mentì in fretta, appoggiandosi leggermente alla scrivania. La sua stessa voce aveva un suono talmente impersonale, dietro la maschera. A volte temeva il momento di toglierla, e non lo faceva mai davanti ad uno specchio. A pensarci bene, maschera o no, cercava di guardarsi il meno possibile. E ogni volta che non poteva evitarlo, quasi si stupiva di incontrare ancora il suo riflesso. 

— Ti stavo spiegando che tuo fratello non è ancora arrivato, ma ha mandato un messaggio per informarci che tarderà. Penso che abbia ottenuto l'armatura, anche se non ne sono ancora del tutto sicura — proseguì la Piccola Lady, senza commentare. 

— Non avevo dubbi… — accondiscese la Sacerdotessa, con malcelato sarcasmo. — Ne sono contenta, naturalmente — si affrettò ad aggiungere, sotto lo sguardo sempre più perplesso di Saori. 

Che bugiarda impenitente, e come le veniva naturale. Quasi si aspettava che il pavimento si spalancasse e le fiamme dell’inferno cominciassero a lambirle i piedi, reclamandola a gran voce. 

"Che fantasia fervida, ragazzina…" le avrebbe detto lui, voltandole le spalle con la solita composta sufficienza. 

"Va’ all’inferno, maestro…" 

— Ora che sei arrivata anche tu, aspetto notizie soltanto da Ikki — proseguì Saori, con aria compiaciuta. La sua ospite, invece, cominciava a sentirsi seccata. "Ne parla come se dovesse tornare dalla villeggiatura. Non ti sei mai resa conto di cosa ci ha fatto quel sant'uomo di tuo nonno?"

— Riprendi la tua vecchia stanza, vero? — 

“Certo. Com’è vero che ti sei degnata di chiedermi se volevo far parte di questa farsa.” Trattenne la risposta pungente che le era salita alle labbra. Dopotutto, Saori non avrebbe mai potuto capire. Troppe cose erano cambiate, dall’ultima volta che si erano incontrate. Lei stessa, quanto somigliava ancora a quella bambina senza ricordi? Non le interessava la buffonata in mondovisione, come non le interessavano le chiacchiere mondane di quella debuttante che giocava alla manager con la stessa leggerezza con cui anni prima montava a cavallo di quell’idiota divenuto Cavaliere dell’Unicorno. 

— Penso mi cercherò un posto tutto mio, Saori. Non mi sento molto a mio agio in compagnia — aveva chiarito in fretta, sapendo di deluderla. Quello che non aveva immaginato era la sottile soddisfazione che le avrebbe procurato. "Non sono più il vostro burattino, signorina Kido." 

L’altra ragazza s’irrigidì, per un attimo che le oscurò il sorriso tutto miele. — Non sei la prima che me lo dice, Altair, e non lo capisco. Dopotutto, siete tornati a casa. — 

"Io e te non abbiamo mai avuto un concetto tanto diverso di ‘casa’, Saori san.

— Tutti i partecipanti si sono impegnati, ormai — 

"E non vedo l’ora di scoprire chi glielo fa fare." — Avranno i loro buoni motivi… forse — le concesse. — Anzi, lo spero. Nessuno di noi dovrebbe ricercare la fama a buon mercato. Non fa bene alla salute. — 

Saori sospirò, tornando a sedersi sulla sua poltrona dirigenziale, senza chiederle di accomodarsi. "A quanto pare, i bambini cattivi restano in piedi." — Il nonno ha sacrificato tanto per poter vedere questo giorno, Altair, e non c’è riuscito. Non dovresti parlare con così poco rispetto della sua più grande fatica. — 

"A questo punto le condoglianze sarebbero doverose, immagino." — Allora ti risparmierò quello che penso di questa Carnevalata Galattica — sorrise, fiera del punto appena segnato. 

— Carnevalata Galattica… dovrei sentirmi offesa? — Saori la fissò, abbastanza a lungo da metterla sottilmente a disagio. — E comunque, non ti ho chiesto di partecipare. Almeno, non in qualità di concorrente. — 

— Ma allora… — “Che diavolo ho fatto sul cocuzzolo della montagna, negli ultimi anni?" 

— Il nonno aveva altri progetti per te, e intendo rispettarli — Il telefono anni ’50 sulla scrivania prese a squillare. "Ma che tempismo…” Saori controllò l’orologio. 

— Scusami Altair, questa è una telefonata che non posso assolutamente perdere — Il viso di porcellana della piccola Kido si distese in un sorriso cordiale, mentre con un cenno le indicava la porta. "Il vecchio megalomane si è reincarnato dentro una gonna di taffetà…" — Ti manderò qualcuno nei prossimi giorni. Presto saprai. Anzi, saprete tutti — ripeté in tono cordiale, e definitivo. 



~.~

Dopo una lunga e noiosa presentazione, le Galaxian Wars erano cominciate sotto la volta pacchiana di un Colosseo made in Japan, tutto plastica, acciaio e vetroresina. Persino il marmo era fasullo, ma altamente scenografico. "Beh, almeno ho rimediato un posto d’osservazione privilegiato. E, al momento, la priorità è restare accanto a loro." 
Con un rapido sguardo in alto, al palco d’onore chiuso da tre pareti di vetro antiproiettile, colse il quadretto della Dama Bianca con il suo fido Zuccapelata, il cranio lucidato con la pelle di daino, un completo italiano e la compunzione di una beghina a San Pietro. 
"Voleva che fossi lassù anche io… come una bambola da esibire, come un cane da guardia…" 
Saori le era sembrata offesa quando le aveva risposto picche, naturalmente, ma si era lasciata convincere dall'obiezione che restando tra la folla avrebbe organizzato meglio la vigilanza durante l’evento. E per lei si trattava di un'ottima soluzione per ottenere un ingresso privilegiato a tutti i settori dell’edificio. 
In realtà, in quel momento la sicurezza di Saori Kido non avrebbe potuto essere più lontana dai suoi pensieri. 
La terza giornata era già incominciata. Altair aveva evitato abilmente la ridicola vestizione pubblica ad uso e consumo della mondovisione, i flash dei fotografi sfaccendati e le domande idiote dei cosiddetti cronisti sportivi, ritirandosi in fretta nel cono d’ombra dell’ingresso degli atleti. Aveva persino, per un attimo, provato una punta di apprezzamento per quella dannata maschera, che rendeva facile una indifferenza impossibile da provare. Contemplava i concorrenti, sezionando con lo sguardo i suoi amici, chiedendosi sconsolatamente se avrebbe mai trovato un modo di rimediare alla follia di quello psicopatico che un tempo aveva chiamato maestro. 
Davanti ai suoi occhi increduli si stagliavano nove imbecilli in tutta la loro gloria. Gonfi come palloni, pronti ad uccidersi per vincere un premio che, avrebbero dovuto già saperlo, Sua Altezza non aveva alcun diritto di attribuire. E tre di loro erano suoi amici da una vita, avevano diviso l’infanzia ed erano diventati adulti con lei. 
“Forse. In questo momento non riesco a crederci. E dei Life Model Decoy(1) mi sembrerebbero una buona spiegazione.” 
A pochi metri di distanza, i sedicenti Seiya di Pegasus, Shiryu di Dragon e Shun di Andromeda si guardavano in cagnesco, pronti a sbranarsi al minimo cenno ostile. Per non parlare di suo fratello, tornato quel giorno dalla Siberia con la simpatia di una tazza di latte cagliato.
Le sue tristi fantasie stavano per toccare il fondo, quando le sembrò di intravedere una sagoma familiare tra le prime file della tribuna stampa. 
"Christine…” Sua sorella tra gli spalti era quasi irriconoscibile, i lunghissimi capelli biondi stretti in una crocchia severa, occhialini tondi da topo di biblioteca e il bavero del soprabito sollevato il più possibile a nascondere un volto un po’ troppo giovane per quel genere di lavoro. La ragazza rispose con un rapido cenno e uscì in silenzio dall'arena. Nessuno le badò. Era appena stato annunciato l'incontro successivo. 


Pegasus VS Dragon


Pegasus… difficile decidere se fosse peggio un fidanzato che non ricordava di esserlo stato, oppure che il suddetto passasse il tempo libero facendo il cascamorto con una istitutrice. "Sorvolando sull’attuale duello all’ultimo sangue con uno dei vostri amici più cari…" 
Fuori, Christine la aspettava. Da quanto tempo non provava il calore di un abbraccio?

 — Ciao, Kelly — si sentì salutare, con un sorriso e un tono che tentavano di smentire la preoccupazione. E le facevano venire voglia di… "Non frignare, ora, ti ha solo chiamata per nome!" —Come va dietro le quinte? —


 — Niente di nuovo sotto le stelle… fasulle — rispose, indicando un punto imprecisato alle sue spalle, oltre i buttafuori che presidiavano l’ingresso secondario. Sfilò la maschera, respirando più liberamente. — Si guardano in cagnesco, fanno sfoggio di metallo e testosterone… uno spettacolo divertente, a quanto dicono gli ascolti. —

Chris sorrise appena, come per dovere, e Kelly notò del gonfiore sospetto sotto gli occhi. “Hai visto Steve, non è vero?” — E ora che tu hai fatto sfoggio del tuo migliore sarcasmo, come stanno le cose, per davvero? —

Kelly sospirò. A che sarebbe servito indorargliela? — Stanno per azzuffarsi come galletti per quell’orrore d’oro massiccio, e io non posso farci nulla. Ma tu, perché non ti sei risparmiata lo spettacolo? — 

— Non potevo certo lasciarti sola a godertelo… — sogghignò la sua Chris, di nuovo simile alla sorellona indistruttibile dei suoi ricordi, un braccio attorno alle sue spalle, una carezza tenera sulla guancia, di quelle che facevano stringere il cuore. "Era come te, la mamma? Me la ricordassi, almeno…"

— Allora sei venuta per restare? — la interruppe, speranzosa. Averla a Tokyo con lei, avere sua sorella sempre accanto, poter dividere il peso di quella situazione grottesca… 

Christine esitò, prima di decidersi a demolire quella pia illusione. — Non proprio… in realtà, devo ripartire stasera stessa. — 

— Ma… non rimani neppure per la notte? — 

— Non dovrei, Kelly. Sono qui in missione. Sai, Albion mi ha chiesto di sbirciare cosa diavolo succede qui, senza dare troppo nell’occhio. — 

Già, per un attimo l’aveva dimenticato. Anche sua sorella si era ritrovata ad aspirare ad un’armatura, senza averlo mai chiesto. June di Chameleon, era diventato il suo nome. E come lei prima di ritrovare la ragione, venerava il folle cerebroleso che la stava addestrando. "Finché non scoprirai anche tu che conta solo la loro stramaledetta causa, sorellona." 

— E lui non è abbastanza grande da farsi il lavoro sporco da solo? — replicò, astiosa. Christine l’aveva annoiata per un pomeriggio intero, un mese prima, cercando di convincerla che il silver saint di Cepheus non somigliava affatto al suo maestro. Che non c’entrava niente con quella farsa.

— Kelly, ascolta! — La sorella l’afferrò per le spalle, con urgenza. “Non voltarti, so che non te ne importa un fico secco. Non è questo il punto.” — Non è Albion che vuole sapere cosa combina Michael qui. È il Santuario di Grecia. — 

Altair della Gru la beneficò di un sorrisetto sardonico. — Digli la verità: che aspetta il suo turno per battersi con indosso un’armatura che farebbe la gioia di qualunque drag queen — ribatté, nascondendo la delusione dietro quella malignità a buon mercato. Sua sorella tacque, abbastanza da consentirle di ripartire all’attacco. — Christine, io non ti capisco. Questo posto, qualunque cosa sia, non ci appartiene. Nulla di quanto vogliano questi pazzoidi mi interessa. Non dovrebbe interessare neanche a te. — 

C’erano sempre stati dei momenti in cui Christine aveva coltivato seri e fondati propositi omicidi di fronte alla lucida ottusità di sua sorella nei suoi momenti più irragionevoli. Quella sera, evidentemente, Kelly aveva deciso di rivangare i vecchi tempi in grande stile. — Anch’io ricordo. Anch’io voglio tornare a casa. Ma per farlo dobbiamo sopravvivere abbastanza a lungo da trovare una strada. Ricordi cosa ci diceva sempre Martin? In un ambiente ostile bisogna giocare secondo le regole. E io mi sto adattando, come dovresti fare tu. — Sospirò ancora, di fronte a quell'espressione scettica. — Adesso dammi retta, per favore. Albion ha mandato me perché la sua venuta sarebbe stata troppo… ufficiale. La situazione è pericolosa: il Voto di Segretezza è stato infranto. Pare che ad Atene siano furibondi perché dei veri Santi si sono prestati a partecipare a questa buffonata. Ci sarà una reazione, e presto. —
 
Già, il voto di fedeltà ad Athena e al suo Santuario. Un altro effetto collaterale di quell’investitura di cui, adesso, avrebbe fatto volentieri a meno. Sembrava che tutti i presenti avessero dimenticato la proibizione di rivelare ad estranei la propria appartenenza a quel culto antico quanto il mondo. Per non parlare di quei poteri ben oltre il limite dell’umano, sbattuti in faccia alle telecamere con una leggerezza degna dell’età dell’esperta imprenditrice che tirava le fila di quel gioco. “Quattordici anni, quattrini e potere… che ci si poteva aspettare, che si dedicasse alle opere di bene?” 

— Dai, Chris, non esagerare. Credi che invieranno dei giustizieri per una corazza falsa e quattro ragazzini che si sparano pose in TV? — tentò di sdrammatizzare, pur con quel brividino gelido che saltellava allegramente lungo la sua schiena. Non aveva voglia di pensarci. Soprattutto, non voleva prendere in esame la possibilità di restare in quel posto abbastanza a lungo da dover affrontare le ire di chicchessia.

 — Quattro ragazzini che hanno aderito al culto di una Dea che non è mai stata famosa per la sua tolleranza. E neanche chi la rappresenta in terra. La vita ti sembrerebbe troppo tranquilla, senza un Gran Sacerdote furibondo alle costole? — 

Kelly si passò una mano tra i capelli, sul viso. — D’accordo, cosa vuoi che ti dica? Loro non ricordano niente. Li hai visti, in quell’arena, vero? Se non recupereranno la memoria anche loro non potremo fare altro che stare a guardare. — Sospirò, e le sue spalle sembrarono accasciarsi. — Siamo sole, Chris. — 

“Lo so.” — Credi davvero che quell'armatura… —

— Sia un falso? — Il cavaliere della Gru sembrò accasciarsi su se stesso per un attimo, breve quanto preoccupante. — Non lo so, Chris, d'accordo? Io… Per la maggior parte del tempo sono convinta che si tratti di paccottiglia, e che tutta l'operazione non si a altro che una speculazione mediatica di pessimo gusto. Eppure, ci sono momenti in cui… —

— Quindi, l'ha percepito anche tu. — Era un bene, forse la prima buona notizia della giornata. Se Kelly avesse iniziato a prendere coscienza dei rischi della loro posizione, allora, forse…

— Alle volte, di rado. Tanto da farmi chiedere se quello che sento sia reale. Non può trattarsi dell'armatura autentica. Vorrebbe dire che… —

“Che qualcuno ci cercherà molto presto”.

— Resterai qui con loro? — le domandò, già certa della risposta. Sapevano entrambe di avere ben poche alternative. 

Kelly si strinse nelle spalle. — Non vedo cos’altro potrei fare. Tu non puoi ancora, no? E poi… ricordi cosa mi ha detto quel bastardo, vero? —

Christine annuì, chiedendosi per quanto avrebbe potuto continuare a controllare la tensione che le irrigidiva il volto, rendendolo simile a quel simulacro offensivo che anche lei era fin troppo spesso costretta a portare. — Come se me l'avessi raccontato ieri. Non che si sia reso particolarmente utile… —

 — In effetti un biglietto aereo per Washington, la nostra Washington, sarebbe stato un pensiero più gentile — sogghignò sua sorella. — Ma non è il caso di aspettarselo. Non da uno come lui. —

Christine stirò un piccolo, mesto sorriso. Senza un'altra parola, l’abbracciò forte, cercando, in quel groviglio di sentimenti contrastanti che le stavano bloccando il respiro, di lasciar trapelare soltanto l’affetto. “Non voglio abbandonarti qui…”
Avrebbe voluto dirlo, mentre la lasciava andare lentamente. Era certa che a sua sorella sarebbe piaciuto sentirlo. Ma loro non erano due ragazzine sprovvedute. Erano adulte ben oltre la loro età, e da tali si sarebbero comportate.
  
Kelly trasse un lungo respiro, indossò ancora la maschera rituale. Non l'avrebbe abbandonata, non tanto presto. Annuì, triste. — Io torno dentro, Chris. Tu… beh, racconta al caro Albion quello che vuoi, mi fido di te. — Un gesto vago, alle proprie spalle. — Prenditi quell’armatura, cogli la prima occasione e torna da me. Io… aspetterò. —

"Non posso fare altro. Ma dammi un’opportunità di metterti le mani addosso e ti torcerò il collo, maestro. È una promessa." 


~.~


Anche ripensandoci ad anni di distanza, Kelly avrebbe sempre ringraziato tutte le divinità della terra per quell'abbaino alla darsena di Yokohama, che le permetteva di non dormire a Villa Kido. Almeno, dopo una giornata come quella, poteva finalmente togliersi la maschera. In tutti i sensi. “Vorrei tanto avere tra le mani il maledetto misogino che ha inventato questa tortura di metallo…” Sì, una fortuna che rischiava di diventare un’arma a doppio taglio. Il rischio, molto concreto, era quello di passare ancora la notte in bianco, china sulle foto e gli oggetti che aveva provvidenzialmente ritrovato in un armadio ben protetto nella stanza del suo maestro un paio d'ore prima dell'Ultima Prova. “I miei bagagli. La prova che mi serviva.” Per scongiurare il pericolo, prese in mano la chitarra. 
"Pessima idea…" 
Non aveva bisogno dell'amplificatore. Né del plettro, o di una pedaliera. Soltanto lei, una Fender Stratocaster, e accordi improvvisati nel silenzio della stanza. L’accarezzò quasi con reverenza, come la prima volta che ne aveva tenuta una in mano. Un compleanno ormai da dimenticare, i suoi amici attorno e un lungo, pesante pacco rettangolare. Aveva quasi pianto di gioia, quando aveva fatto scattare la serratura della custodia rigida. Era lì, bianca e perfetta, la copia esatta di quella che Jimi Hendrix aveva suonato a Woodstock. Cosa poteva importarle che quello fosse uno dei modelli più commerciali? Non la riguardava che migliaia di adolescenti esaltati ne possedessero una identica. Era la sua chitarra. La prima che non avrebbe diviso con nessuno. Che cosa stupida, essersene procurata un'altra uguale appena tornata a Tokyo, una stupidità di cui non era riuscita a fare a meno. “Cosa c'è di più bello al mondo?” 
(2)‘Play it 'til your fingers bleed...’ 
La voce profonda di Jason le riempì le orecchie all’improvviso. Il ricordo era tanto nitido che le ballava davanti agli occhi, come se d’un tratto quella stanzetta squallida fosse piena di volti cari. 
Jason. 
Era seduto sul divano, il sorriso gentile stampato sul bel viso, i lunghissimi capelli neri sempre sugli occhi, la sua personale versione della (3)Red Special appoggiata con naturalezza sulle gambe accavallate. Tra il pollice e l’indice della destra, la moneta da sei pence con cui carezzava lentamente il suo strumento. Lui e la sua sconfinata ammirazione per Brian May… "A ciascuno le proprie manie, vero?" 
La visione scomparve, così com’era venuta. Kelly si ritrovò sola, come sempre in quella soffitta da poco, in quel quartiere malfamato, puzzolente di nafta e di acqua putrida, che aveva scelto soltanto per tenere d’occhio quello che in un’altra vita era il suo ragazzo. Si ritrovò le mani attorno alla testa e il viso in fiamme, un grido di rabbia che chiedeva di uscire. Non poteva, maledizione, non poteva. Aveva cose più importanti cui pensare. 
Al suo rientro nell'Arena delle Vanità… 
Non bastava avere ritrovato Mark e Jason coperti di sangue tra i resti delle armature polverizzate, il primo mezzo morto e il secondo quasi del tutto, rianimato soltanto grazie ad una sberla da primato piazzata nel punto giusto della schiena. Quasi morto d'infarto, all’attempata età di diciassette anni. 
Non bastava avere visto Mark — "il mio Mark!" — accasciarsi sul pavimento, sul viso troppo pallido i chiari segni di un’emorragia cranica. 
Non bastava aver capito perfettamente che non sarebbe mai stata davvero in grado di proteggerli. 
Kelly aveva sentito un brivido gelido attraversarle il corpo. Qualcosa, più del solito, non stava andando per il verso giusto. Aveva avvertito una presenza, solo per un istante, prima che svanisse nel nulla. Credeva di averla riconosciuta. E ora pregava con tutte le sue forze di essersi sbagliata. 
"Dave, dove diavolo sei?" 
Prese in mano una fotografia: la ritraeva tra le braccia di due ragazzi. David Ruser, il suo compagno di missioni, e suo fratello, il piccolo Michael. La tenevano sollevata allegramente, gli occhi lucidi per il troppo ouzo, i visi abbronzati e felici. Quella vacanza sognata per tutti gli anni dell’addestramento era trascorsa troppo presto. Non avevano pensato ai loro genitori che non c’erano più, alla loro infanzia rubata, alle vite che già avevano calpestato. 
"Dovevamo immaginare che non avrebbe potuto durare…" 
L’inizio della fine, quello stesso giorno. 
"Eppure era così reale…" 
Come le braccia delicate che ora le stringevano la vita. 

 — Ciao, bellezza… — Mark la stava abbracciando da dietro, il mento contro la sua spalla. La cullava, in un lento appena accennato, solo per loro due. — Credo tu abbia fatto colpo… — le bisbigliò all’orecchio, con un cenno espressivo. 
Davanti agli occhi, Kelly non aveva più una parete vuota, ma la folla brulicante e coloratissima di Monastiraki, in una mattina d’estate, l’ultima di quel viaggio. E della sua vita precedente.
Aveva trovato un viso sconosciuto, bello e distante, dei capelli lunghi e scuri, uno sguardo tagliente che sembrava soppesarla. Doveva avere l’età di Martin, forse qualche anno in meno. Non era un turista e neppure un semplice sfaccendato, ci avrebbe scommesso l’arma d’ordinanza. Sembrava una spia anche lui, una reclutata da (4)Abercrombie&Fitch.
"Se solo avessi saputo quel giorno chi eri, bastardo…" 
La fissava come se non riuscisse a credere a quello che vedeva, ricordò. I loro occhi s’erano incrociati, a lungo, e Kelly aveva sentito prudere le mani. Che diavolo voleva? Era stata lei la prima a cedere, distogliendo lo sguardo. Lui s’era voltato per andarsene, scrollando le spalle come se quella tacita sfida non avesse la minima importanza. 
L'occhiata di quel ragazzo, e il brivido di disagio che aveva provato, non erano mai davveri usciti dalla sua mente, anche se in seguito non aveva più avuto occasione di rifletterci. Molto, troppo presto l’avrebbe incontrato di nuovo. 

La ragazza sospirò, passandosi una mano sugli occhi, scacciando quel ricordo con forza. Inutile piangere sul latte versato. Adagiò teneramente la Fender sulle gambe accavallate, gli accordi già pronti sulla punta delle dita. Quella notte l’avrebbero passata insieme, loro due. E chissà se l’oscurità le avrebbe portato il consiglio di cui aveva tanto bisogno. 
Nove ore più tardi, era ancora sveglia, il torneo era entrato nel suo primo giorno di pausa, e la sua idea era una follia. 
Non restava che metterla in pratica. 


~.~

Un cielo stellato. Colonne cadute, l’ombra di un fantasma con il volto nascosto da una maschera di metallo. Un luccichio metallico, sangue che sprizzava, il pianto di un neonato. 
Non voleva, eppure doveva avvicinarsi. Vedere con i suoi occhi. 
Il suo migliore amico, gli occhi aperti che non vedevano più, una profonda ferita a squarciargli il fianco, là dove si intravedevano sangue e interiora violacee. Una ferita da taglio. 
Una risata, fredda e feroce. 
Occhi che bruciavano dietro una maschera rubata. 
E poi cadeva. 
L’attesa dello schianto, in fondo, sempre più in basso, nel baratro di cui non intravedeva la fine. 
L’uomo finalmente si svegliò in un bagno di sudore. 
Dalla finestra, la Meridiana dello Zodiaco svettava sul Santuario di Grecia. Un’ombra in nero, il cielo più scuro del ventre della Terra… e le stelle, sempre troppo lontane. 


~.~



Angolo della vergogna™

Qualche piccola nota:


(1) Quando la vita ti dà limoni, tu fai la limonata. Quando ti dà i tuoi amici in preda ad una irrecuperabile amnesia, credi che siano stati sostituiti da androidi appositamente programmati. Non fa una piega, no?


(2) "suonarla finché non ti sanguinano le dita". La canzone è SUMMER OF '69 di Bryan Adams, e i primi versi, che spiegano il perché della citazione, sono: 

I got my first real six-string
Bought it at the five-and-dime
Played it til my fingers bled
It was the summer of 69


(3) La Red Special, la celeberrima chitarra di Brian May, che leggenda vuole sia stata costruita dal nostro genio ancora ragazzino con l'aiuto di suo padre. Molti appassionati, negli anni, hanno tentato di realizzarne una propria versione. Quella di Jason doveva avere quantomeno le corde al posto giusto, mi hanno riferito. ^_^

(4) In pratica, il misterioso guardone aveva l'aspetto di uno dei commessi/modelli che si possono slurp... ehm incontrare nei punti vendita di questa celebre catena d'abbigliamento.


Detto questo, saluto e ringrazio chi ha letto e chi ha recensito. È molto bello ricevere incoraggiamenti, e spero di stuzzicare e soddsfare la vostra curiosità. 

Grazie ancora a tutti!

   
 
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