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Autore: AyaAya96    16/11/2011    0 recensioni
Questa è una fanfiction che ha come protagonisti la rockstar giapponese Miyavi e un secondo personaggio, frutto della mia fantasia, di nome Rosa. Ispirato al drama "Kimi Wa Petto", ma con un trama totalmente diversa... leggete e scoprirete ^^
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Miyavi
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Yuki fissava Takamasa, che al contrario tentava di non incrociare il suo sguardo. Sembrava proprio una bambina alla scoperta di un nuovo giocattolo, che meravigliata lo osservava cercando di comprendere e conoscerne ogni particolare.
Takamasa, invece, affondava le mani nell’ampio maglione che gli avevo comprato quella mattina al mercato, e giocherellando con le dita tentava di distrarsi da quel momento di imbarazzo.
- E’ lui! – Esclamò sottovoce Yuki, aggrappandosi al mio braccio.
- Non è un cosplay! O mio dio… -
Si avvicinò di nuovo a Takamasa, stavolta con più audacia: gli sfiorò i capelli, gli toccò il mento, osservò estasiata i suoi tatuaggi… finché lui, scocciato non si allontanò, staccandosela di dosso con uno strattone. Yuki non sembrò neppur far caso alla sua reazione, e meravigliata continuò ad osservarlo. – Allora, hai finito? –
La rimproverai, trascinandola per un braccio.
- Ma.. ma.. –
Yuki boccheggiava, guardando prima me poi Takamasa, che la fissava scettico.
- Vedi di darti una calmata. E’ lui o no? –
- E’ lui, senza dubbio. Ma… -
- Ma? –
- Ma non è lui. Non il lui di adesso almeno. Sembra.. Miyavi ringiovanito di una decina d’anni. –
Le scappò un sorriso, quando tornò a fissare Takamasa.
- E’ per questo che hai chiamato la tua amica? Non mi credevi? –
La sua voce, tagliente come un coltello, spezzò la tensione dei miei pensieri. Mi ero accorta solo quella mattina di quanto arrogante e irrispettoso fosse quel ragazzo. La sera prima probabilmente, era solo spaventato, e per questo mi ero fatta un’idea su di lui che pian piano mi accorgevo essere sbagliata.
Gli risposi con una smorfia, e tornai a interrogare l’affamata di gossip che avevo portato apposta per accertarmi sull’identità del ragazzo che avevo salvato.
Dopo una breve discussione, Yuki, per provarmi ciò che dichiarava, si diresse verso il portatile appoggiato sulla scrivania, e mi mostrò alcune foto. Takamasa seguiva i nostri discorsi e sbirciava le immagini sullo schermo del PC.
- Vedi? Questo è lui. –
Disse, mostrandomi una foto che secondo il sito risaliva ad un servizio fotografico del 2003.
- E questo è sempre lui, nel 2010. –
Stavolta aprì un secondo sito, dove trovammo foto più recenti. Sentii Takamasa dietro di me fare smorfie e allontanarsi.
- Che c’è? –
- Mi fa senso vedermi invecchiato. – Rispose lui dandomi la schiena. Un po’ perplessa tornai a fissare lo schermo.
- E questa? –
Domandai, indicando una foto che lo ritraeva con in braccio una bimba.
- Ah, quella? E’ Lovelie, sua figlia. –
- Figlia? –
In quel momento maledissi, me è Yuki, per la nostra indelicatezza. Takamasa ci fissava con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati seduto sul divano, mentre noi tentavamo di nascondere la foto sul PC. Si alzò e si precipitò davanti allo schermo, fissando confuso la foto che aveva di fronte.
- Io ho… una figlia? –
- Ehm… veramente due. – Rispose Yuki.
- Due?! –
Fissai la mia amica con occhi truci: come poteva avere così poco tatto?
- Ma una è nata da poco… si chiama… aspetta… -
Yuki fece una breve ricerca e dopo pochi istanti annunciò vittoriosa: - Jewelie! –
- Jewelie… e Lovelie. –
Sussurrò Takamasa, fissando incantato le foto che Yuki gli aveva trovato su internet. No, quella ragazza probabilmente il tatto non sapeva neppure cosa fosse.
-  Ma… sono sposato? –
- Sì. Con una cantante. Ma lei non è più attiva da qualche anno, dopo la sua prima gravidanza. –
A Takamasa non servì neppure cercare la foto: sotto quella che lo ritraeva con in braccio Lovelie, c’era la foto di una donna, una donna piuttosto bella. La didascalia diceva: Melody.
Il silenzio calò in soggiorno. Io non sapevo che dire: mi chiedevo come si sentisse lui, a subire uno shock dopo l’altro e come facesse Yuki a restare con il sorriso sulle labbra.
- Ah, che mal di testa! –
Esclamò Takamasa. – Quello non sono io! Non mi importa! –
- Ma… -
- Ma niente! – Ribatté lui, quasi spaventando Yuki, che per poco non cadde dalla sedia, mentre schivava l’ampio gesto delle braccia di Takamasa.
- Io sono Miyavi, ho 22 anni, non sono sposato e non ho figli! – Urlò.
- Abbassa la voce! – Lo rimproverai, anche se mi accorsi solo dopo che forse non era il caso di sgridarlo.
Lui mi guardò imbronciato. Poi, togliendomi di mezzo spingendomi alla sua destra si diresse verso la porta di casa e uscì, sbattendola rumorosamente.
Il silenzio cadde solenne nella stanza.
- Forse è meglio se vai. –
Mormorai e Yuki, senza farselo ripetere due volte, si diresse verso l’uscita e infilate le scarpe e indossato il giubbotto anche lei uscì di casa.
 
Ero davvero furioso. Con chi? Non lo sapevo neppure. Forse con il destino, con la mia vita.
Ero riuscito in parte ad accettare l’idea di essere nel futuro, ma… io non avevo figli. Né mi ero mai sposato. Non avevo mai neppure amato seriamente una donna.
Un brivido mi percosse: nella rabbia, avevo dimenticato di coprirmi, uscendo.
Sbuffando, mi strinsi nel maglione che mi pungeva la pelle, abbassando lo sguardo a terra.
Ero diviso in due: da una parte mi incuriosiva, e forse mi spaventava per alcuni punti di vista, sapere cosa fosse successo in quei 10 anni. Dall’altra, tentavo di capire il motivo per il quale mi era successo tutto questo, e come avrei potuto uscirne. Forse c’era anche una terza parte di me, che ancora non credeva che quella fosse la realtà.
- Passa! Passa! –
Delle voci mi distrassero. Alzai lo sguardo, e mi accorsi di essere proprio di fronte all’entrata di un parco: dei bambini, stavano giocando a calcio: avranno avuto sì e no dieci anni.
Mi scappò un sorriso, mentre vecchi ricordi mi riempivano la mente, rendendomi nostalgico.
- Attento! – Urlò di colpo un bambino. Neppure mi ero reso conto che ero io la persona a cui si stava rivolgendo. Il pallone mi arrivò dritto in faccia, schiantandosi sul mio naso. La palla ricadde a terra, e io mi coprii il viso con le mani: il piercing al naso mi faceva veramente male.
Sentii dei passi veloci, e il mormorio dei bambini attorno a me. Lentamente scoprii il volto.
Probabilmente la mia faccia somigliava ad un pomodoro.
- Signore, tutto a posto? –
Feci di sì con la testa, accennando un sorriso. Stavo per andarmene, cercando di evitare gli sguardi dei bimbi, ma non appena mi voltai i miei piedi urtarono il pallone a terra. Mi fermai a fissarlo per qualche istante: Chissà da quant’è che non giocavo a pallone.
In quei secondi, uno dopo l’altro, tutti i pensieri che mi affollavano la mente svanirono. C’ero solo io, e ai miei piedi il pallone. Mi abbassai e lo presi tra le mani. Lo feci girare fra le dita, finchè alzandomi non lo lanciai in aria, per poi farlo ricadere sul mio ginocchio. La palla rimbalzò, e chinando la testa la feci cadere sotto il capo, per poi farla scivolare sulla schiena, calciandola infine con il tallone destro. Di nuovo la ripresi, continuando a passarla da piede a piede, lanciandola in aria e facendola strisciare a terra.
- Signore, mi scusi… -
Mi fermai, lasciando cadere la palla sull’asfalto.
- Sorry. – Dissi, accennando un sorriso nervoso, e passandola al bambino che mi aveva fermato, feci per andarmene.
- Aspetti! –
Mi fermò il bimbo.
- E’ davvero bravo! E’ un calciatore? –
Mi voltai. Il bambino che teneva il pallone tra le mani mi fissava estasiato, mentre i suoi compagni mormoravano guardandomi meravigliati. Spostai il mio sguardo da lui a loro più volte, finchè sorridendo non mi avvicinai.
- Lo ero. –
 
Chissà dov’era finito quel ragazzo. Aveva il vizio di scomparire, a quanto avevo constatato in quei due giorni. Mi strinsi nelle spalle.
Alla fine avevo deciso di crederci. Nelle sue parole.
Mio papà diceva che spesso sono più vere le cose che non puoi provare, o dimostrare con la scienza, di quelle che consideriamo normalmente certe. Perciò, avevo deciso di crederci, anche se ero ancora molto confusa.
Feci scivolare distrattamente lo sguardo sotto il mio braccio: nella mano destra stringevo un vecchio cappotto: Takamasa era uscito di casa senza coprirsi, e quella sera faceva particolarmente freddo. Le previsioni dicevano che avrebbe potuto addirittura nevicare.
Accelerai il passo, decisa a trovarlo, con la netta sensazione che stavolta l’avrei trovato più facilmente, sperando non si fosse cacciato in qualche guai come l’altra volta.
Delle risate però mi costrinsero a fermarmi.
Ma guarda, un parco.
Non avevo mai passeggiato nel centro abitato dove si trovava il mio palazzo, e di conseguenza non l’avevo mai notato. Le risa che avevo sentito appartenevano a dei bambini, che in una zona erbosa del parco, giocavano a calcio.
- Cos’è, non riesci a battermi? –
Questa voce però mi era familiare. E di sicuro non poteva appartenere ad un bimbo di dieci anni. Mi avvinai all’entrata del parco: Takamasa stava in mezzo ai bambini, facendo roteare la palla per terra e schivando i calci dei suoi avversari. Un bimbo si avvicinò a lui e presa la palla passatagli si diresse verso la porta. Seppur a fatica riuscì ad evitare i suoi rivali e a tirare verso la rete. Il portiere si lanciò sulla palla, mancandola, e rovinando a terra strisciò sull’erba bagnata. La palla entrò in porta e colpì la rete, rimbalzando poi a terra.
- Gooooaaalll!!! – Urlò il bimbo, correndo per il campo, mentre i suoi compagni si gettavano su di lui, abbracciandolo e spettinandogli la folta chioma corvina.
Il mio sguardo, distrattamente cadde sul volto di Takamasa. Sorrideva.
Non l’avevo mai visto sorridere.
Un sorriso così puro, così innocente, che sembrava quello di un bambino.
- Bambini! E’ ora di tornare a casa! – La voce di una donna, oltre il muretto che chiudeva il parco, richiamò i ragazzini che ancora esultavano per l’ultimo goal, e dopo aver salutato con pacche e sorrisi Takamasa abbandonarono il campo. Lui li guardava allontanarsi, con quel splendido sorriso sulle labbra.
Poi, voltandosi verso l’uscita mentre posava lo sguardo a terra, incontrò la mia immagine, e infine il mio sguardo. Chissà che espressione avevo in quel momento: stupita? Estasiata? O sorpresa?
Il sorriso gli scomparve delicatamente dalle labbra, ma non perché fosse triste: divenne solo serio, fissando i miei occhi che s’inebriavano ancora del ricordo di quel sorriso.
- Che ci fai qui? –
La sua voce, il suo tono arrogante, mi risvegliarono da quel sogno.
- Il cappotto. – Risposi, mostrandoglielo. Lui prima lo guardò scettico, poi lo afferrò e lo indossò senza staccarmi gli occhi di dosso, come se cercasse di capire se stessi nascondendo qualche sorta di trucco nei miei gesti.
Cercando di troncare quell’imbarazzante tensione mi voltai, uscendo dal parco. Sentivo i suoi passi dietro di me, e anche se non lo vedevo, potevo immaginarmi chiaramente la sua figura che stancamente mi seguiva.
- Ti piace giocare a calcio? –
- Una volta ci giocavo. –
Ammise lui stirando le braccia. – Una volta? –
- A sedici anni ho smesso. –
Raccontò, mentre saltellando mi si avvicinava, camminando di fianco a me.
Quell’enorme giacca e quell’enorme maglione, su di lui, lo facevano sembrare molto più giovane, se non fosse stato per la sua altezza sproporzionata.
- Giocavo nella squadra professionale di Osaka. –
Continuò.
- In una squadra professionale? E perché hai smesso? – Ora ero curiosa.
- Dopo un infortunio sono stato costretto ad abbandonare tutto. –
Rimasi in silenzio, maledicendomi per la seconda volta. Istintivamente mi portai una mano alla bocca, e con quel gesto attirai la sua attenzione. Prima mi guardò con disappunto, poi scoppiò in una breve risata dal gusto amaro.
- Che fai? Mica mi sono offeso. – Disse.
- E’ una vecchia storia dopotutto… -
Lo guardai di striscio. Continuava ad avere sulle labbra quel sorriso malinconico, che giuro, mi dava sui nervi, più che altro senza un motivo preciso.
- Allora, che hai intenzione di fare? –
- Come? –
- Non importa quanto tu sia sotto shock, se sei nel passato, nel futuro o dove vuoi tu… da ora in poi.. quali sono i tuoi piani? –
- Voglio tornare indietro. – Rispose lui, sorpreso che gli avessi fatto una domanda con una così ovvia risposta.
- E sai come fare? – Il mio sguardo lo trapassò da parte a parte: non era ciò che intendevo.
- No, certo. – Mi risposi, accennando una risata.
- Cos’è, mi prendi in giro ora? – Domandò sbraitando, mentre con uno scatto si mise di fronte a me, impedendomi di proseguire. Io stavo con le braccia incrociate, e con la testa leggermente inclinata verso destra lo guardavo con un sorriso arrogante sul volto.
- Ti ricordi la storia del buon samaritano? –
- Sì. –
- Cosa disse all’uomo che aveva salvato? –
- Che c’entra ora?! – Takamasa a quanto pare era una persona impaziente. Proprio un moccioso.
- “Aiuta.” Questo gli disse. –
- E allora? –
- E allora non ti senti neppure un po’ in dovere di aiutare chi ti ha salvato, pur vivendo gratis in casa sua? Mangiando ciò che ti prepara? Vestendo di ciò che ti compra? –
Ad ogni domanda facevo un passo, facendo arretrare Takamasa, che finalmente aveva afferrato il senso del mio discorso.
Devo ammetterlo, sono una persona buona e gentile, ma non ho mai amato i fannulloni e finchè avrebbe vissuto sotto il mio tetto… avrebbe dovuto fare tutto ciò che gli veniva chiesto. D'altronde, era in debito, no?
   
 
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