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Autore: Adela Jaymes    18/11/2011    0 recensioni
«Era alto, con i capelli neri, il fisico perfettamente scolpito, e un sorriso attraente. Ma quello che mi colpì fu l'intensità del suo sguardo.»
«A quel contatto sentii un brivido in tutto il corpo. La vicinanza con lui, la sua mano sulla mia bocca, mi facevano tremare. Mi stava addosso, il suo corpo toccava il mio. E il cuore cominciò a fare i capricci.»
«Camminavo, avanzavo verso il nulla. Poi, in lontananza, scorsi una luce. Un bagliore violaceo, dei segni irriconoscibili ai miei occhi annebbiati dall’oscurità. Mi avvicinavo ancora quando lo riconobbi. Ancora lui, il simbolo che mi stava perseguitando. Lo vedevo ben distinto adesso: era come tre mezzicerchi uniti l’uno all’altro, uno in alto, due in basso.
Poi, d’un tratto, una voce. Qualcuno chiamava il mio nome.»
Greta è un'adolescente ribelle, che non si ferma di fronte nessuna difficoltà. Finchè un giorno, in una mattina d'estate, incontra un ragazzo misterioso e affascinante al tempo stesso, verso il quale prova una forte attrazione. Ma lui non è quello che crede, e col tempo, scoprirà che neanche lei lo è; la sua vita cambierà il giorno in cui festeggierà il suo diciottesimo compleanno.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A svegliarmi fu il suono della radiosveglia sul comò che suonò alle 7:00. Era lunedì, e il pensiero di andare a scuola fece aumentare la stanchezza accumulata dalla sera prima. Non era stata la classica festa di compleanno, di qualunque personale “normale”. Dove si brinda, si mangia, si festeggia, si balla, ci si diverte e tanto altro.
Era successo davvero di tutto.
A cominciare dalla quella “cosa”  che non sapevo ancora come chiamare. Al mio risveglio credevo veramente di aver sognato tutto. Ma quando andai in bagno per prepararmi, rividi la macchia sul mio collo attraverso lo specchio. Ancora non riuscivo a realizzare che fosse davvero lì, senza sapermi dare una spiegazione logica. Perchè in quella situazione non c’era nulla di logico. Era assurdo come fosse comparsa sul mio collo da un momento all’altro. Era assurdo il capogiro che avevo avuto. Ed era assurdo che fossi svenuta, dopo essermi sentita così.. così.. così piena d’energia da poter scoppiare.
Ma il tempo scorreva, e io non ne avevo molto per cercare inutili e inesistenti spiegazioni.
Quando fui pronta per andare a scuola, presi le chiavi dal tavolo della cucina, e mi chiusi la porta alle spalle.
Ma quando fui fuori, sobbalzai.
Fuori, al centro del giardino, c’era una macchina.
Non ne capivo molto di auto, quindi a primo impatto non riuscii a capire di che tipo di macchina si trattasse.
Mi avvicinai per controllare se dentro c’era qualcuno che l’aveva lasciata lì per caso. O se apparteneva ai vicini. Ma, se così fosse stato, che motivo avrebbero avuto di posteggiarla nel mio giardino?
Dentro, in ogni caso, l’auto era vuota. Era nera, ben lucidata, forse persino nuova.
Poi squillò il cellulare.
Sul display apparve il nome “Nonna”, che lampeggiava ad intermittenza.
Ero molto affezzionata a mia nonna, solo che viveva parecchio lontano da me; ci vedevamo solo per le feste. Speravo che venisse per il mio compleanno, ma mi aveva chiamata giorni prima per dirmi che non sarebbe potuta venire per via di alcuni impegni.

 «Pronto?»
«Greta, tesoro? Non ti sento bene..»
«Nonna, mi senti?»
«Ecco, sì. Ti sento. Amore, come stai? Passato bene il compleanno?»
«Abbastanza»
«Mi dispiace di non poter essere venuta. Sarà per la prossima! Ma, dimmi.. trovato niente stamattina? Tipo una Chevrolet nel tuo giardino di casa?»
«Sei stata tu? E’ tua? Oddio, nonna! Sei qui? Sei qui a New York?» strillai, in preda alla felicità. Volevo vederla, abbracciarla, parlarle. Raccontarle tutto quello che mi era successo in questi giorni. Speravo che fosse apparsa da dietro la mia casa come in uno di quei programmi televisivi.
«No, tesoro mio. Non sono qui. E’ quell’auto non è mia. Ma tua!»
«Come?!»
«Quell’auto è tutta tua! Trovi le chiavi e i documenti in un pacchetto che ti ho fatto spedire.. dovrebbe essere da qualche parte.. se quello strambo e sbadato postino non ha sbagliato la consegna. Mi chiedo come facciano ad assumere certa gente così senza testa! Non capiscono quanti danni potrebbero causare? Pacchi spediti a gente sbagliata, consegne scomparse.. Neanche se assumessero me, sarei così sbadata!» cominciò a parlare a vanvera, come faceva spesso. Poi riprese il filo del discorso.
«E’ il mio regalo di compleanno per te. Così finalmente smetterai di andare in giro con quel ridicolo e poco sicuro scooter.»
«Grazie nonna, davvero. Sei la nonna più figa del mondo. Lo sai, vero? A dir la verità anchio avevo in mente di liberarmene solo che...»
«E la nonna ha pensato bene di prendertene una! Non ringraziarmi, non ringraziarmi. Ma ora devo lasciarti.. tuo nonno brontola da dieci minuti di fila! Sai com’è fatto... Ti voglio bene, piccola mia. A presto.»
«Ti voglio bene anchio» risposi «..e ti aspetto!» ma l’unica risposta che ricevetti fu un ‘tu-tu-tu-tu‘.

 Feci il giro della casa, e trovai il pacco di cui mia nonna aveva parlato. Era ben chiuso, con dello scotch che lo ricopriva quasi completamente. Per aprirlo dovetti romperlo, e dentro trovai chiavi e documenti dell’auto. Subito dopo corsi verso la macchina.
Stavo già per mettere in moto, quando ricordai di non avere la patente con me. Scesi dalla macchina, lasciando lo sportello aperto e mi precipitai dentro casa. Salii le scale come un fulmine, e frugai nel cassetto del comodino vicino al letto, dove -con un po’ di fortuna- trovai la vecchia patente che un anno prima avevo ottenuto.
Due minuti dopo, infilavo le chiavi nel quadro per mettere in moto la mia nuova auto.

 

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Biologia era sempre una noia tremenda. Alex non era a scuola, quindi non potei distrarmi nemmeno con lui. Speravo che avesse saltato solo la lezione di biologia, e che dopo fosse stato a quella di fisica.
Guardavo annoiata i miei compagni che si tiravano palline di carta, e il mio coach che strillava: “Fermi voi, li giù! Wilson! Smith! State buoni. Tu, Lewis! Stai composto. No! No, ragazzi! Gli aeroplanini no!”.
La testa mi scoppiava. Desideravo ardentemente che stesse zitto una volta per tutte. Stavo per urlargli qualcosa contro, quando vidi il coach che cercava di parlare, ma dalla sua bocca non usciva nessun tipo di suono.
Per fortuna sapevo leggere il labiale, e capii a malapena le parole che tentava disperatamente di dire: “La mia voce, la mia voce.”
Perfetto, dopo tutto questo urlare.. ci voleva solo questo.
Finalmente il silenzio. Il coach non strillava più, e i miei compagni avevano tutti stampato sulla faccia un chiarissimo ‘Ma che succede?’.
Poi scoppiarono tutti a ridere, e a muoversi freneticamente sulla sedia.
Il coach interruppe la lezione, e tutti cominciarono a fare ciò che volevano. Compresa io, che armeggiavo con il mio MP3, in cerca di una canzone che mi facesse rilassare.
Appoggiai la testa sul banco, e chiusi gli occhi.
Quando qualche minuto dopo li riaprii, a primo impatto non riuscii a capire cos’era la cosa che mi arrivò dritta in faccia.
Poi capii.
Il mio compagno di classe, James Wilson, mi aveva lanciato una delle sue cazzo di palline di carta. Il ragazzo in questione aveva avuto una cotta per me, ma quando gli feci capire chiaramente che a me lui non interessava, comincio a tempestarmi di scherzi e insulti. Finchè un giorno non gli rovesciai una soda in testa.
- Tieni quelle tue manacce a posto, idiota! - gli urlai.
- Ma dai, Parker, era solo una pallina! - disse James, che cominciò a ridere compiaciuto.
- Sai dove devi infilartele le tue fottutissime palline? - replicai, perdendo le staffe.
- Calma, bellezza, calma.. - la sua voce soffocava un’accenno di risata.
Io, che ne avevo abbastanza di lui e dei suoi stupidi scherzi, presi lo zaino e uscii dalla classe. Il professore non protestò.
E comunque, se lo avesse fatto, non sarei riuscita a sentirlo.
Ma, sulla soglia, improvvisamente mi bloccai.
Appoggiato ad una fila di armadietti, c’era Alex.
E non era solo.
Stava parlando con una ragazza bionda, alta, con una gonna che le stava sopra il ginocchio e un paio di leggins neri.
Lei poggiava tranquillamente le sue mani sulle spalle di Alex, o sul suo torace, parlando disinvolta. Lei non mi notò, e nemmeno Alex.
Io, senza alcun motivo, avvampai.Ebbi l’impulso di spedirla dalla parte opposta del corridoio, ma dovetti frenare il mio desiderio.
Solo quando la ragazza si voltò, la riconobbi.
Blythe Morris.
Era la figlia della preside: una ragazza ricca sfondata, capricciosa e sicura di sè. La classica “figlia di papà” che ottiene tutto con un semplice schiocco di dita.
Quando finirono di parlare, Blythe stampò un bacio sulla guancia ad Alex, lasciandogli la stampa del rossetto rosso fuoco che portava sempre sulle labbra.
Si allontanò, lasciando in lontananza il suono dei suoi tacchi.
Alex guardava in basso, poi il suo sguardo di ghiaccio si posò su di me, ancora ferma sulla soglia della porta a guardare inerme la scena. Quando mi vide, sfoderò uno dei suoi sorrisi, e si appoggiò disinvolto all’armadietto.
Provai il forte impulso di correre da lui, e baciarlo. Ma non lo feci.
- Che fai, scappi dalla classe? Avevi una voglia matta di vedermi, ammettilo. - disse, continuando a sorridere. Si accerezzò la mascella con la mano.
Ma io non risposi.
Aveva detto a Bryan che ero la sua ragazza, ma non avevo ancora chiaro il motivo della sua risposta. Smisi di guardarlo negl’occhi, e camminai a passi svelti verso un qualsiasi luogo dove avrei potuto stare da sola, in pace.
Ma Alex riuscì ad afferrarmi per il braccio, e farmi voltare verso di lui.
- Ehi, guarda che anchio ero stufo di ammirare i tuoi occhi da fuori la porta. -
- Non sono in vena, scusami. -
- Non sei in vena di parlare? Okay... - mormorò, avvicinando il suo volto al mio.
Lo scansai.
- Perchè non sei venuto a lezione? - dissi, alzandomi il cappuccio della felpa.
- Avevo degli affari da sbrigare. -
- Che genere di affari? Quella tipa bionda fa parte dei tuoi affari? - risposi, ma non fui contenta dell’impressione della “ragazzina gelosa” che diedi.
- Mmh.. diciamo. -
- Ah sì? E sentiamo, cosa c’entra Blythe con i tuoi affari? Oh, ma guarda! Se sono privati puoi anche lasciar perdere! - dissi in tono sarcastico. Volevo vedere l’effetto che scatenavano le mie parole in lui, ma Alex non si scompose. Tipico di lui.
Aveva un’invidiabile autocontrollo, anche in situazioni più o meno imbarazzanti.
- In effetti sono un po’ privati - Ah, certo! Non aveva un minimo di sensibilità, doveva proprio dirmelo così chiaramente che quelli con lei erano degli affari privati!
Trassi un lungo, lento respiro. - Era tutta una messa in scena quella di ieri sera? Tu che mi difendi, che dici a Bryan che sono... insomma, che sono... -
- Pensi che lo sia? - rispose, concentrando di nuovo l’attenzione su di me.
Mi guardò con occhi penetranti. Quando mi guardava in quel modo, non potevo, non riuscivo a distogliere lo sguardo. I suoi occhi mi catturavano, sapevano sempre come farlo. Riuscivano ad impedirmi di allontanarmi da lui, come due braccia che stringono forte.
Lui voleva stare con me. Lui mi amava. Lui non mi avrebbe mai abbandonata. Lui mi avrebbe sempre protetta. Sarebbe stato per sempre.
Non erano affermazioni. Erano domande.
Tanti punti interrogativi vagavano nella mia mente, cercando una spiegazione a tutto questo. Erano passate poche settimane da quando i nostri sguardi si erano incontrati per la mia volta, in spiaggia.
Ma era come se lo conoscessi da sempre, come se qualcos’altro ci legasse.
Io gli appartenevo.
Questa no, non era un’affermazione. Era quello che il mio cuore sentiva.
E in qualche modo, sentivo che poteva essere vero anche per lui.
Non importava se ero la sua ragazza o meno, io lo amavo.
Tante volte avevo cercato un motivo in più per dire ‘no’ al mio cuore. Ma lui sentiva di appartenere ad Alex.
E i nostri cuori, ancora una volta, s’incastrarono l’un l’altro.© 

  
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