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Autore: rospina    20/11/2011    1 recensioni
La seconda guerra mondiale incombe sull'Europa e sull'Italia, tutto appare uguale e diverso da sempre, perchè il vento impone la sua danza e i suoi tempi e non resta altro che muoversi ai suoi ritmi per non essere spazzati via...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Donna Adelina, seduta sulla sua sedia nella grande cucina, dove ormai abitava, fissava il vuoto. Prima la paura per il figlio, ed ora non sapeva neppure dove fosse, il vuoto …

Giulietta era poggiata alla soglia della porta in castagno scuro;nel silenzio quasi perfetto la osservava. Provò pena per quella donna. Non le importava se era stata cattiva con lei, non le importava se proprio quel giorno le aveva vomitato addosso del veleno, forse in fondo aveva anche ragione, lei nonostante tutto ciò che Fabio Paris avesse fatto per lei, continuava ad amare solo e sempre Federico. Si accostò a lei, le prese le mani che teneva in grembo, ed accasciandosi accanto a lei le disse:

“Non pianga … le assicuro che suo figlio sta bene! Non sia in pena per lui, le giuro che andrà tutto bene, lei deve solo pregare, pregare e ancora pregare!”

Stancamente la donna le passò una mano sui capelli. Per la prima volta ebbe un gesto dolce nei suoi confronti. Giulietta alzò lo sguardo e le parve di scorgere nella donna gli occhi lucidi.

Fabio Paris era chiuso nel suo ufficio. Non poteva smettere di pensare a ciò che era successo. Lui che sempre era stato in grado di gestire le situazioni, le era venuto meno il sangue freddo, a dirigere tutto era stato Federico Sepúlveda, questo era ciò che più lo ripugnava, non poteva sopportare di essere soppiantato dal suo peggior nemico, ed in più era stato costretto a vedere come gli occhi di Giulietta lo guardavano: con amore, passione e gratitudine. Sapeva per certo che era stato lui a far sparire Tommaso Conte, anche se non sapeva bene che fine avesse fatto, e Giulietta sapeva tutto, per questo lo ringraziava. Lo ringraziava per il suo cuore, per  il suo essere impavido! E lui? Possibile che nonostante tutto ciò che aveva fatto non era riuscito ad entrare nel cuore di Giulietta? Con questi pensieri tormentati passò la notte insonne.

I fidanzati, Inès e Federico stavano per lasciare casa Paris per raggiungere il loro albergo. Giulietta aveva chiesto a Federico di rimanere lì quella notte, ma la risposta fu stata:

“Non facciamoci altro male, non lo meritiamo”.

Inès sulla porta fu soccorsa da donna Adelina, che l’aiutò a sistemarsi la pelliccia mentre Federico l’aspettava seduto su di una sedia poco distante, ma tanto immerso nei suoi pensieri, da non sentire nulla e nessuno.

“Signorina, lei merita di essere trattata come una regina!” disse donna Adelina, con la sua voce infida

“Gracias …” mormorò Inès

“Parlo seriamente, qui tutti sembrano non accorgersi di lei, per dar adito a quella –fece una smorfia col volto raggrinzito dalle rughe –Giulietta! Mi spiace ammetterlo, ma proprio non la sopporto! È colpa sua se mio figlio Tommaso è scomparso, chissà dov’è finito! Non mi ha neppure salutato! Ma la colpa è tutta sua, prima è persino venuta a dirmi di non piangere … ma con quale coraggio!”

Inès la guardava, condivideva tutti i suoi pensieri; tutti erano troppo presi da Giulietta per accorgersi di lei. Non rispose alla cameriera, ma il suo sguardo fu più loquace  di mille parole, ed allora la donna riprese per lei:

“Gliela faremo pagare!”.

 Il suo volto era smagrito, dei vecchi lineamenti  rimaneva poco o nulla, i capelli rasati, erano appena accennati sulla nuca bianca. Sabrina Paso, indossava una divisa a righe, azzurra e grigia, l’azzurro si vedeva appena, oramai era talmente sporca e consumata che il colore, era pallido come la sua pelle. Ciò che rimaneva della Sabrina che era un tempo, erano i suoi grandi occhi azzurri. Ai piedi aveva una scarpa troppo larga, ed una troppo stretta. Era sdraiata su di una panca di legno consumata, con lei nella stessa posizione e nella stessa panca vi erano altre quattro donne. Inizialmente si era chiesta come avrebbe fatto a dormire li, con il passare degli anni vi aveva fatto l’abitudine. La notte era già alta nel cielo, nel campo regnava un silenzio surreale, persino in quella che pareva una casetta di legno stretta e lunga dove erano in più di cento donne vi era silenzio. Ebbe voglia di muoversi, ma non lo fece, rischiava di svegliare le compagne, anche se il più delle volte nutriva dei seri dubbi che stessero dormendo. Il pavimento non c’era, vi era solo sterrato, e quando pioveva passava l’acqua dal tetto, e tutto diveniva fango. Mangiava poco e raramente, ricordava chiaramente che appena fu arrivata in quel posto rifiutò di mangiare, ma una donna che era già lì da un po’ le disse:

“Non rifiutare quello che ti danno, arriverà il giorno in cui desidererai avere anche la metà di questo …”  ed aveva ragione.

Quanto freddo.

Quanta fame.

Quanto dolore.

Quante lacrime.

Stare in quel campo di lavoro, come lo chiamavano “Loro” era come vivere l’inferno sulla terra. Non ricordava più neppure il suo nome, lei oramai non era altro che un codice.

Un codice sulla divisa.

Un codice sulla pelle.

Un marchio in un braccio, l’aveva ormai contrassegnata. Un marchio indelebile che aveva scavato la sua carne per lasciare dei numeri. Ma quel solco era arrivato fino all’anima; ora mai più nessuno avrebbe potuto portarle via quei ricordi, cancellare dalla sua mente e dal suo cuore quei momenti.

Attimi eterni di paura.

Stenti .

Fame e dolore.

Oramai la sua vita non aveva più senso. Desiderava la morte ogni giorno che passava, poi come un tiepido raggio di sole in un giorno d’inverno, il suo cuore volava al suo angelo biondo.

Alessandro.

Ed allora tutto riprendeva senso. Allora trovava la ragione per lottare, il motivo per non farsi abbattere dalle avversità. Non vi era ora, in cui Sabrina non pensasse al suo bambino. Si chiedeva come fosse diventato. Se la pensava. Cosa le era successo. Ma mai le sfiorava il dubbio che Giulietta non si sarebbe preso cura di lui. Sapeva bene, che lo avrebbe amato come se fosse stato il suo. Piccole lacrime di disperazione le scesero dagli occhi. Taglienti come lame. E bruciavano come l’aceto sulle ferite.

Pensava Sabrina, immersa nel suo dolore pregava in silenzio per Gabriele. Un dolce sorriso le nacque sulle labbra ripensando alla sera in cui lui le aveva regalato l’anello di diamanti. Poi la sera che furono stati presi, che angoscia vederlo gridare il suo nome a gran voce. Aveva gridato a lei tutto il suo amore. Poi non si erano più rivisti. Più volte aveva creduto che fosse stato ucciso, fino a quando un giorno, mentre era in fila per i lavori forzati gli parve di riconoscerlo. Anche lui la stessa divisa, anche lui smagrito. Come se fossero stati richiamati da un qualcosa di soprannaturale i loro sguardi si incrociarono. Entrambi scapparono dalle loro fila, fra di loro una rete spinata. Ansanti si guardarono. Felici di sapersi entrambi vivi; lui passò una mano attraverso il filo, graffiandosi tutto agganciò le dita di lei; non fu che un gesto rapido, un lieve tocco, che per loro più travolgente di mille baci e cento carezze, avevano anelato di rivedersi, ed ora che lo avevano fatto godevano di quel piccolo momento. Un istante che venne bruscamente interrotto dai richiami dei tedeschi, che puntando i loro fucili li fecero tornare ai loro posti. Alcuni spari li fecero sobbalzare, ma ringraziando Dio, quegli spari non erano per loro. Vivendo  di quei momenti, Sabrina si appisolò.

Un grammofono emetteva una musica allegra e gracchiante allo stesso tempo, i commensali seduti attorno al tavolo parevano non accorgersene. Gabriele stava servendo dell’insalata. Indossava la sua uniforme a righe, uguale per tutti. Nessuno in quella stanza lo prendeva in considerazione, per tutti non era altro che misero ebreo da sfruttare, e non appena sarebbe arrivato il momento giusto: farlo entrare in una di quelle comode camere a gas. Un enorme lampadario illuminava tutti volti, e fra questi, ne riconobbe uno. Incrociò lo sguardo della donna che riconobbe, ma subitamente abbassò lo sguardo, non seppe neppure lui il perché, forse paura. La donna lo ignorò. Gabriele rimase impassibile, anche se dentro soffriva.

Il ricevimento era finito, aveva la mano poggiata sulla maniglia della porta che portava all’esterno, dal vetro posto sulla parte superiore vedeva scendere dei grandi fiocchi di neve. Sapeva già che avrebbe patito ancora una volta il freddo. Aveva mani e piedi spaccati per il freddo, veniva trattato da schiavo quando entrava nelle cucine, ma si riteneva fortunato perché poteva usufruire di un tiepido calore, inspirò e aprì la porta:

“Gabriele!” una voce di donna lo fermò.

Si voltò di scatto. Non poteva credere ai suoi occhi la signora Ada era andata da lui. Dalle sue labbra non uscì alcun suono e fu la donna che proseguì:

“Che ci fai qui? Tu non sei ebreo!”

La sua voce era davvero stupida e dispiaciuta. Era la stessa donna che Giulietta e Federico avevano visto con lui passeggiare nell’albergo; Gabriele non aveva neppure la forza di rispondere, ma violentando la sua volontà disse, rimanendo dove si trovava:

“Non lo so neppure io! Un giorno sono arrivati, ci hanno preso, a me e mia moglie, ci hanno trattato come bestie, da quel giorno abbiamo smesso di essere persone, non vi è giorno in cui non pensi a mia moglie”

“E tuo figlio?” chiese lei

“Alessandro per fortuna è con una cugina, non sappiamo più nulla di lui, prego ogni giorno che stia bene, chissà se il Signore accoglie le mie preghiere!” concluse

“Vorrei poter fare qualcosa per te, mi hai aiutato tanto, se non fosse stato per te, l’azienda di mio marito sarebbe fallita! Vedrò se posso farti uscire da questo inferno”

Gli occhi dell’uomo brillarono per un istante, poi con un filo di voce rispose:

“Grazie, mi basterebbe sapere che può salvare la mia Sabrina!”

La donna rimase impietrita da quelle parole. Gabriele amava Sabrina più della sua stessa vita.

Annuì e rispose:

“farò il possibile”.

Proprio in quel momento entrarono delle persone in cucina, ed una di queste dando un calcio a Gabriele lo sbatté fuori facendolo cadere nella coltre di neve che si era formata in pochi minuti. Quando richiuse la porta in tedesco disse:

“Fa freddo, meglio chiudere la porta!” poi guardando fuori si accorsero che l’uomo faceva fatica a rialzarsi e ridendo:

“Guardate! Questi ebrei non servono a nulla! Non riescono neppure  a camminare!”.

 

   
 
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