Donna Adelina, seduta sulla
sua sedia nella grande cucina, dove ormai abitava, fissava il vuoto. Prima la
paura per il figlio, ed ora non sapeva neppure dove fosse, il vuoto …
Giulietta era poggiata alla
soglia della porta in castagno scuro;nel silenzio quasi perfetto la osservava.
Provò pena per quella donna. Non le importava se era stata cattiva con lei, non
le importava se proprio quel giorno le aveva vomitato addosso del veleno, forse
in fondo aveva anche ragione, lei nonostante tutto ciò che Fabio Paris avesse
fatto per lei, continuava ad amare solo e sempre Federico. Si accostò a lei, le
prese le mani che teneva in grembo, ed accasciandosi accanto a lei le disse:
“Non pianga … le assicuro che
suo figlio sta bene! Non sia in pena per lui, le giuro che andrà tutto bene,
lei deve solo pregare, pregare e ancora pregare!”
Stancamente la donna le passò
una mano sui capelli. Per la prima volta ebbe un gesto dolce nei suoi confronti.
Giulietta alzò lo sguardo e le parve di scorgere nella donna gli occhi lucidi.
Fabio Paris era chiuso nel suo
ufficio. Non poteva smettere di pensare a ciò che era successo. Lui che sempre
era stato in grado di gestire le situazioni, le era venuto meno il sangue
freddo, a dirigere tutto era stato Federico Sepúlveda, questo era ciò che più
lo ripugnava, non poteva sopportare di essere soppiantato dal suo peggior
nemico, ed in più era stato costretto a vedere come gli occhi di Giulietta lo
guardavano: con amore, passione e gratitudine. Sapeva per certo che era stato
lui a far sparire Tommaso Conte, anche se non sapeva bene che fine avesse
fatto, e Giulietta sapeva tutto, per questo lo ringraziava. Lo ringraziava per
il suo cuore, per il suo essere
impavido! E lui? Possibile che nonostante tutto ciò che aveva fatto non era
riuscito ad entrare nel cuore di Giulietta? Con questi pensieri tormentati
passò la notte insonne.
I fidanzati, Inès e Federico
stavano per lasciare casa Paris per raggiungere il loro albergo. Giulietta
aveva chiesto a Federico di rimanere lì quella notte, ma la risposta fu stata:
“Non facciamoci altro male,
non lo meritiamo”.
Inès sulla porta fu soccorsa
da donna Adelina, che l’aiutò a sistemarsi la pelliccia mentre Federico
l’aspettava seduto su di una sedia poco distante, ma tanto immerso nei suoi
pensieri, da non sentire nulla e nessuno.
“Signorina, lei merita di
essere trattata come una regina!” disse donna Adelina, con la sua voce infida
“Gracias …” mormorò Inès
“Parlo seriamente, qui tutti
sembrano non accorgersi di lei, per dar adito a quella –fece una smorfia col
volto raggrinzito dalle rughe –Giulietta! Mi spiace ammetterlo, ma proprio non
la sopporto! È colpa sua se mio figlio Tommaso è scomparso, chissà dov’è
finito! Non mi ha neppure salutato! Ma la colpa è tutta sua, prima è persino
venuta a dirmi di non piangere … ma con quale coraggio!”
Inès la guardava, condivideva
tutti i suoi pensieri; tutti erano troppo presi da Giulietta per accorgersi di
lei. Non rispose alla cameriera, ma il suo sguardo fu più loquace di mille parole, ed allora la donna riprese
per lei:
“Gliela faremo pagare!”.
Il suo volto era smagrito, dei vecchi
lineamenti rimaneva poco o nulla, i
capelli rasati, erano appena accennati sulla nuca bianca. Sabrina Paso,
indossava una divisa a righe, azzurra e grigia, l’azzurro si vedeva appena,
oramai era talmente sporca e consumata che il colore, era pallido come la sua
pelle. Ciò che rimaneva della Sabrina che era un tempo, erano i suoi grandi
occhi azzurri. Ai piedi aveva una scarpa troppo larga, ed una troppo stretta. Era
sdraiata su di una panca di legno consumata, con lei nella stessa posizione e
nella stessa panca vi erano altre quattro donne. Inizialmente si era chiesta
come avrebbe fatto a dormire li, con il passare degli anni vi aveva fatto
l’abitudine. La notte era già alta nel cielo, nel campo regnava un silenzio
surreale, persino in quella che pareva una casetta di legno stretta e lunga
dove erano in più di cento donne vi era silenzio. Ebbe voglia di muoversi, ma
non lo fece, rischiava di svegliare le compagne, anche se il più delle volte
nutriva dei seri dubbi che stessero dormendo. Il pavimento non c’era, vi era
solo sterrato, e quando pioveva passava l’acqua dal tetto, e tutto diveniva
fango. Mangiava poco e raramente, ricordava chiaramente che appena fu arrivata
in quel posto rifiutò di mangiare, ma una donna che era già lì da un po’ le
disse:
“Non rifiutare quello che ti
danno, arriverà il giorno in cui desidererai avere anche la metà di questo
…” ed aveva ragione.
Quanto freddo.
Quanta fame.
Quanto dolore.
Quante lacrime.
Stare in quel campo di lavoro,
come lo chiamavano “Loro” era come vivere l’inferno sulla terra. Non ricordava
più neppure il suo nome, lei oramai non era altro che un codice.
Un codice sulla divisa.
Un codice sulla pelle.
Un marchio in un braccio,
l’aveva ormai contrassegnata. Un marchio indelebile che aveva scavato la sua
carne per lasciare dei numeri. Ma quel solco era arrivato fino all’anima; ora
mai più nessuno avrebbe potuto portarle via quei ricordi, cancellare dalla sua
mente e dal suo cuore quei momenti.
Attimi eterni di paura.
Stenti .
Fame e dolore.
Oramai la sua vita non aveva
più senso. Desiderava la morte ogni giorno che passava, poi come un tiepido
raggio di sole in un giorno d’inverno, il suo cuore volava al suo angelo
biondo.
Alessandro.
Ed allora tutto riprendeva
senso. Allora trovava la ragione per lottare, il motivo per non farsi abbattere
dalle avversità. Non vi era ora, in cui Sabrina non pensasse al suo bambino. Si
chiedeva come fosse diventato. Se la pensava. Cosa le era successo. Ma mai le
sfiorava il dubbio che Giulietta non si sarebbe preso cura di lui. Sapeva bene,
che lo avrebbe amato come se fosse stato il suo. Piccole lacrime di
disperazione le scesero dagli occhi. Taglienti come lame. E bruciavano come
l’aceto sulle ferite.
Pensava Sabrina, immersa nel
suo dolore pregava in silenzio per Gabriele. Un dolce sorriso le nacque sulle
labbra ripensando alla sera in cui lui le aveva regalato l’anello di diamanti.
Poi la sera che furono stati presi, che angoscia vederlo gridare il suo nome a
gran voce. Aveva gridato a lei tutto il suo amore. Poi non si erano più
rivisti. Più volte aveva creduto che fosse stato ucciso, fino a quando un
giorno, mentre era in fila per i lavori forzati gli parve di riconoscerlo.
Anche lui la stessa divisa, anche lui smagrito. Come se fossero stati
richiamati da un qualcosa di soprannaturale i loro sguardi si incrociarono.
Entrambi scapparono dalle loro fila, fra di loro una rete spinata. Ansanti si
guardarono. Felici di sapersi entrambi vivi; lui passò una mano attraverso il
filo, graffiandosi tutto agganciò le dita di lei; non fu che un gesto rapido,
un lieve tocco, che per loro più travolgente di mille baci e cento carezze,
avevano anelato di rivedersi, ed ora che lo avevano fatto godevano di quel
piccolo momento. Un istante che venne bruscamente interrotto dai richiami dei
tedeschi, che puntando i loro fucili li fecero tornare ai loro posti. Alcuni
spari li fecero sobbalzare, ma ringraziando Dio, quegli spari non erano per loro.
Vivendo di quei momenti, Sabrina si
appisolò.
Un grammofono emetteva una
musica allegra e gracchiante allo stesso tempo, i commensali seduti attorno al
tavolo parevano non accorgersene. Gabriele stava servendo dell’insalata.
Indossava la sua uniforme a righe, uguale per tutti. Nessuno in quella stanza
lo prendeva in considerazione, per tutti non era altro che misero ebreo da
sfruttare, e non appena sarebbe arrivato il momento giusto: farlo entrare in
una di quelle comode camere a gas. Un enorme lampadario illuminava tutti volti,
e fra questi, ne riconobbe uno. Incrociò lo sguardo della donna che riconobbe,
ma subitamente abbassò lo sguardo, non seppe neppure lui il perché, forse
paura. La donna lo ignorò. Gabriele rimase impassibile, anche se dentro soffriva.
Il ricevimento era finito,
aveva la mano poggiata sulla maniglia della porta che portava all’esterno, dal
vetro posto sulla parte superiore vedeva scendere dei grandi fiocchi di neve.
Sapeva già che avrebbe patito ancora una volta il freddo. Aveva mani e piedi
spaccati per il freddo, veniva trattato da schiavo quando entrava nelle cucine,
ma si riteneva fortunato perché poteva usufruire di un tiepido calore, inspirò
e aprì la porta:
“Gabriele!” una voce di donna
lo fermò.
Si voltò di scatto. Non poteva
credere ai suoi occhi la signora Ada era andata da lui. Dalle sue labbra non
uscì alcun suono e fu la donna che proseguì:
“Che ci fai qui? Tu non sei
ebreo!”
La sua voce era davvero
stupida e dispiaciuta. Era la stessa donna che Giulietta e Federico avevano
visto con lui passeggiare nell’albergo; Gabriele non aveva neppure la forza di
rispondere, ma violentando la sua volontà disse, rimanendo dove si trovava:
“Non lo so neppure io! Un
giorno sono arrivati, ci hanno preso, a me e mia moglie, ci hanno trattato come
bestie, da quel giorno abbiamo smesso di essere persone, non vi è giorno in cui
non pensi a mia moglie”
“E tuo figlio?” chiese lei
“Alessandro per fortuna è con
una cugina, non sappiamo più nulla di lui, prego ogni giorno che stia bene,
chissà se il Signore accoglie le mie preghiere!” concluse
“Vorrei poter fare qualcosa
per te, mi hai aiutato tanto, se non fosse stato per te, l’azienda di mio
marito sarebbe fallita! Vedrò se posso farti uscire da questo inferno”
Gli occhi dell’uomo brillarono
per un istante, poi con un filo di voce rispose:
“Grazie, mi basterebbe sapere
che può salvare la mia Sabrina!”
La donna rimase impietrita da
quelle parole. Gabriele amava Sabrina più della sua stessa vita.
Annuì e rispose:
“farò il possibile”.
Proprio in quel momento
entrarono delle persone in cucina, ed una di queste dando un calcio a Gabriele
lo sbatté fuori facendolo cadere nella coltre di neve che si era formata in
pochi minuti. Quando richiuse la porta in tedesco disse:
“Fa freddo, meglio chiudere la
porta!” poi guardando fuori si accorsero che l’uomo faceva fatica a rialzarsi e
ridendo:
“Guardate! Questi ebrei non
servono a nulla! Non riescono neppure a
camminare!”.