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Autore: Hullabaloos    20/11/2011    3 recensioni
"Quel che voglio far capire, è di non considerare i personaggi come graziose bambole che danzano nel vostro teatrino. Può darsi che quanto racconterò stia accadendo anche su questa terra, chissà. Dopotutto, questa è solo la storia di anime perse in questo spazio e tempo indefinito, che intrecciano la loro esistenza seguendo un sottile filo comune, così facile da spezzare. Tutto quello che chiedono è di essere ascoltate"
Genere: Azione, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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Nel buio della propria stanza, Gilbert si rigirò tra le lenzuola, ancora, ancora, e ancora. Con uno sbuffo, calciò via le coperte, e si mise seduto sul materasso. Passò entrambi i palmi delle mani sul viso, soffermandosi sugli occhi, stropicciandoli e disegnando ampi cerchi sulle palpebre.

Aveva fatto di nuovo quel sogno. Si stirò, si scompigliò i capelli. Dopo quell’ultimo incontro con-, cioè, dopo che si era ritrovato casualmente di fronte a quelle ante di metallo, sognava. Sognava ogni volta il proprio passato.

Sospirò seccato, si ributtò stancamente sul cuscino. Non capiva cosa diavolo stesse succedendo, non era mai successo. Da quando aveva lasciato Berlino per entrare nell’Aletheia, mai le sue notti erano state interrotte in quel modo. E non sapeva neanche il motivo. La sua vita di prima non gli mancava per niente.

Eppure… Sentiva che c’era qualcosa in quei sogni. Era come se qualcuno, da qualche parte, gli volesse dire qualcosa. Quel susseguirsi di immagini e suoni confusi sembrava suggerirgli qualcosa: forse un particolare, un gesto, non lo sapeva. L’unica consapevolezza, seppur ancora incerta  e tremante nella sua mente, era la certezza che quei sogni non erano casuali. Quando riviveva le emozioni provate di fronte a quella porta di ferro, una sensazione, un deja-vu, si faceva largo dentro di sé.

Si raggomitolò su un lato, e davanti gli occhi socchiusi, rivide davanti a sé il se stesso di tanti, tanti anni fa.

 

-Gilbert, questo è il tuo fratellino, non è meraviglioso?-

Gilbert vide quel fagotto tra le braccia della madre, che scostava con amorevolezza i lembi del lenzuolo che avvolgevano il neonato. Gli avevano detto che si chiamava Ludwig.

Si sporse, si alzò in punta di piedi per riuscirlo a vederlo meglio.

Il suo primo pensiero fu chiedersi perché ci fosse stata agitazione per il suo arrivo: era solo un coso grinzoso, rosa, che non faceva altro che aprire e chiudere le piccole mani, e gorgheggiare.

Rimase, però, incantato quando quello si voltò verso di lui. Non aveva mai visto qualcosa di tanto bello: due specchi lucenti lo guardavano, limpidi, chiarissimi, abbaglianti.

Aprì la bocca, meravigliato. Si ricordò in quel momento di aver allungato le mani, di essersi sbracciato per riuscire a prenderlo. Nella sua mente di bambino di sei anni, sentiva il diritto di prendere quella cosa, quella cosa così meravigliosa, voleva per sé quei due specchi. Ma la madre si scostò, strinse il fagotto al petto, allarmata.

-No, Gilbert, sei ancora troppo piccolo!-

Gilbert spalancò la bocca, iniziò a urlare, strepitare. Si sentiva la vittima di una terribile ingiustizia. Di fronte all’egoismo infantile, nessuna ragione, nessun discorso logico aveva speranza.

Il ricordo che seguì era terribile: con una mossa inaspettata, una mossa che la madre non aveva previsto, afferrò il fagotto, lo strinse a sé, e iniziò a correre e saltare per la stanza. Rideva, mentre la madre si affannava a seguirlo. Si fermava per qualche istante, il tempo necessario alla donna a sperare di poterlo raggiungere. Poi, come questa alzava le mani verso di lui, il bambino sgusciava via, strillando gioiosamente. Infine, ricordò l’improvvisa entrata del padre.

Uno schiaffo violento, che ebbe la forza di fargli perdere l’equilibrio, e per un attimo tutto divenne buio.

La prima cosa che rivide, fu la madre che stringeva a sé il neonato, che aveva iniziato a piangere disperatamente.  E vide gli occhi del padre. Quello sguardo di cui ogni figlio aveva il terrore: il disprezzo, la consapevolezza della delusione.

Quel primo ricordo era così vivido dentro di sé, perché era stato l’esatto momento in cui aveva iniziato a odiare suo fratello.

 

Suo padre era un ambasciatore, perciò Gilbert aveva a disposizione appena qualche mese per fare amicizia con gli altri bambini, per poi doverli salutare frettolosamente. Dopo il terzo trasferimento dalla nascita di Ludwig, smise di tentare. Passava tutti i giorni a ciondolare per casa, con la madre che non aveva occhi altro che per il fratellino.

Lo odiava sempre di più. Lui non gridava mai, non correva mai, non andava mai male a scuola, non faceva mai arrabbiare mamma e papà. Li sentiva i grandi, non facevano altro che chiedere a mamma e papà come avessero fatto ad avere uno come lui: lui era cattivo, disubbidiente, maleducato. E poi vedeva lo sguardo di suo padre, in cui rivedeva i commenti dei grandi.

Così passarono parecchi mesi, forse anni, in quella inerzia, in quel odio.

Ma un pomeriggio tutto questo cambiò.

Era seduto sul davanzale della finestra, ne era sicuro. Stringeva al petto un ginocchio, l’altra gamba ciondolava pigramente, sfiorando il pavimento. Dall’altra stanza sentiva la madre che elogiava il fratellino: anche quel giorno la maestra si era congratulato con lui.

Assottigliò gli occhi, tirò un calcio al muro, rabbioso.

Improvvisamente, la sentì. Alzò la testa, scattò verso il vetro della finestra. Una melodia, bellissima, proveniva da fuori. Si sollevò, le mani si appoggiarono sul davanzale, la fronte si accostò al freddo vetro.

Nell’altro palazzo, separato dall’ampia strada, un ragazzo suonava, seduto al suo pianoforte.

Il bambino socchiuse la bocca.

Il ragazzo, una figura esile, fasciata in abiti eleganti, aveva gli occhi socchiusi, le labbra erano morse delicatamente. Non sapeva come, ma poteva intravedere dietro le lenti dei sottili occhiali le palpebre che vibravano leggermente, il viso che si corrucciava un poco, le mani che danzavano, correvano, carezzavano i tasti bianchi.

Fissò quella figura, così delicata, dondolarsi, come trasportata dal dolce vento di quelle note. E la melodia era dolce, bella, triste. Era come il miele, era come vedere un tramonto, era come ridere tra le lacrime. Questo era quello che confusamente pensava mentre si sporgeva sempre di più contro lo specchio.

Quello divenne il suo appuntamento quotidiano. Era il suo personale spettacolo, era convinto che quel ragazzo suonasse solo per lui. Aveva qualcosa di magico, era un uccello che rinchiuso nella sua gabbia che cantava, raccontava della sua tristezza, un po’ malinconico, un po’ orgoglioso. Era come una favola, era come la donna rinchiusa in una torre inaccessibile, che affidava le sue speranze alla propria voce e al vento.

Gilbert si convinceva che un giorno sarebbe uscito, avrebbe salito le scale fino al terzo piano, avrebbe aperto la porta, e finalmente lo avrebbe incontrato. E gli avrebbe chiesto perché suonava tutti i giorni, perché la sua melodia era così bella, ma così triste. E si cullava in queste illusioni, continuando ad ammirarlo da lontano.

Un giorno, però, qualcosa cambiò.

Si affacciò alla finestra come tutti gli altri giorni, ma subito avvertì un cambiamento, un particolare che si era aggiunto a quel quadro pittoresco.

Una ragazza, dai lunghi capelli castani, era in piedi sul marciapiedi, sotto la finestra del pianista. Gilbert assottigliò gli occhi, per studiarla meglio. Indossava abiti poveri, da proletari, e tra le mani aveva un mazzo di fiori, grande e colorato. Vide che affondava il viso tra i delicati petali rosa, e con sguardo sognante ammirava il ragazzo che, ignaro, suonava la sua melodia.

Il bambino si stupì di se stesso: aveva immaginato di provare qualche sentimento come l’invidia, la gelosia, il senso di possesso, proprio come quando era nato il fratellino. Ma non avvenne niente di tutto questo. Inconsciamente, senza averne una reale consapevolezza, il bambino pensava che quella scena era proprio bella. Quei due, un ragazzo e una ragazza, erano due elementi che bilanciavano perfettamente il tutto. La strada, la finestra, il rumore dei passanti, il profumo dei fiori, la musica, lo sguardo della ragazza. Quella sconosciuta così immersa in quelle note, che si lasciava accarezzare dalla melodia, incurante di coloro che le passavano accanto. Lei vedeva solo lui, sentiva solo lui. Il ragazzo, incosciente di tutto questo, prigioniero in una cupola di vetro, cantava dei suoi amori e delle sue pene, e la musica sembrava essere nata solo per lei. I due erano delle pennellate di argento, una leggera polvere d’oro che si adagiava sul grigiore dei tetti viennesi.

E quella scena continuò per chissà quanto tempo. Gilbert si accontentava di guardarli da lontano, non osando incrinare quella perfezione di vetro. Sentiva di stare condividendo qualcosa con quella ragazza. Lei era parte di quel magnifico quadro, che solo lui pareva in grado di vedere e ammirare.

Ma niente dura per sempre. In un giorno come tanti, tornò ad affacciarsi alla finestra, ma la melodia era scomparsa. Il pianoforte ora non era più avvolto di dolce magia, ora che il pianista non c’era più. Era lui il mago che incantava quei semplici tasti bianchi? Gilbert si chiese che fine avesse fatto. E la ragazza continuò a tornare, aspettando che lui suonasse per lei. Passò almeno una settimana, e la ragazza aspettò ogni giorno che il suo musicista tornasse. Poi, scomparve anche lei.

Gilbert non seppe mai dove fossero andati, se alla fine si fossero incontrati, se lei gli avesse rivelato il loro piccolo segreto. Chissà. A Gilbert piaceva sognarli, lui che continuava a suonare il suo pianoforte, e lei che finalmente lo ascoltava. Ma seduta accanto al suo pianista.

 

Dopo altri mesi di assoluta inerzia, Gilbert si stancò.

Nessuno, né sua madre, né suo padre, si era accorto del suo piccolo segreto. Anzi, non si erano accorti minimamente di lui. Tutti gli occhi erano addosso al fratellino, ormai diventato uno studente perfetto, un figlio ammirevole, un modello per tutti i ragazzi. E la sua rabbia e la sua invidia crebbero a dismisura. Desiderava essere lui il centro dell’attenzione, voleva smettere di essere ignorato, di essere invisibile.

E tutto questo alla fine scoppiò. E si accorse che qualcosa era cambiato dentro di lui. Se si sforzava, poteva veramente essere il centro dei loro sguardi. Non sapeva come questo era successo, cioè, era nato da un giorno all’altro, ieri non c’era, e oggi, PUF! Non doveva fare altro che concentrarsi sul suo desiderio, sul quel desiderio smodato d’attenzione, e subito le loro teste si giravano verso di lui.

Inizialmente, non si rese neanche conto di possedere un vero e proprio potere, talmente era contento del suo nuovo successo. La felicità era talmente tanta, che non realizzò pienamente che quel loro interesse non era come quello rivolto al fratellino: Ludwig era sommerso da complimenti, carezze baci; lui era inondato da rimproveri, grida, parole di disprezzo. Ma non gli importava. L’unica cosa che contava era che lo guardassero, lui, solo lui. E godeva di questa sua centralità, tutto ruotava di nuovo intorno a lui, come quando erano solo loro tre.

Ben presto, però, si stancò anche di quel surrogato di affetto, e capì che, non appena avesse smesso di esercitare quella pressione, i due genitori lo avrebbero degnato di un ultimo sguardo carico di risentimento, per poi tornare da quel piccolo bastardo.

E un nuovo sentimento nacque in lui: il disprezzo per quei due esseri umani. Ormai non li considerava più madre e padre, ma semplicemente due persone con cui era costretto a vivere e spendere buona parte della giornata.

Desiderò quindi diventare di nuovo invisibile a loro. E non fu poi tanto sorpreso nello scoprire di essere in grado di fare anche quello. Ora nessun insulto poteva più raggiungerlo. Si convinse che stare da solo fosse la cosa più meravigliosa del mondo.

 

Nel suo diciottesimo anno di vita, la famiglia si trasferì e tornò dopo tanti anni a Berlino. Il padre era convinto che Ludwig dovesse studiare nelle migliori scuole della loro terra natia.

Gilbert aveva smesso da un pezzo di esercitare il proprio potere, riteneva che fosse inutile sforzarsi per delle persone tanto inutili. Cercò di passare meno tempo possibile in quella casa, rifugiandosi nelle birrerie del quartiere. In quei luoghi poté soddisfare il suo desiderio, la sua mania di egocentrismo. Attirava a sé sempre più persone, e si inebriava finalmente di quel bagno di folla.

Una sera, poi, li incontrò. Avevano detto di chiamarsi Antonio e Francis. Per una straordinaria coincidenza, anche loro erano figli di due ambasciatori, rispettivamente della Spagna e della Francia, ora risedenti a Berlino.

Per la prima volta nella sua vita, aveva incontrato due persone che desiderava con tutto il cuore non perdere. Fu il più grande sforzo che avesse mai fatto: usò interrottamente per chissà quanti giorni il suo potere, per il terrore che, ancora una volta, sguardi carichi d’odio lo distruggessero. Non avrebbe potuto sopportarlo.

Dopo qualche giorno, crollò, non poteva durare per sempre, ne era consapevole, per quanto cercasse di negarlo a se stesso. Eppure, quando rialzò la testa, loro erano ancora lì, gli sorridevano, probabilmente Francis fece qualche commento malizioso sulla sua faccia stupita, e Antonio sicuramente scoppiò  a ridere.

Da quel momento iniziò il momento più bello della sua vita: finalmente non doveva sforzarsi perché qualcuno lo guardasse, non doveva gridare per essere ascoltato. Così venne a conoscenza delle loro storie.

Antonio, proprio come lui, era odiato da entrambi i genitori. Proveniva da una famiglia di Granada, e discendeva da una lunga serie di antenati divenuti famosi esponenti della classe ecclesiastica. Per questo, la religione era un fattore profondamente radicato tra i propri parenti, che ostentavano una integrità assolutamente eccezionale.

O almeno, così doveva apparire all’esterno. Così, egli quando confessò al padre di essere omosessuale, rischiò di essere sbattuto fuori per strada. Solo per conservare la facciata di famiglia felice, aveva deciso di sopportare la sua presenza in casa. Nulla però gli impediva, nel privato, di manifestare tutto il suo disgusto verso la sua decisone, come la chiamava lui, “di essere un lurido depravato, un ateo che brucerà all’inferno”.

Gilbert si chiese il perché del suo carattere, così allegro, spensierato, solare. Quando gli pose la domanda, Antonio lo fissò stupito, per poi scoppiare a ridere. La risposta fu semplice: la vita è troppo bella per rimuginare sulla tristezza.

Francis, invece, non aveva questi problemi. Lui poteva liberamente passare da una donna conosciuta la sera stessa, a un uomo abbordato poco prima, per tornare poi a chiacchierare con loro, con una naturalezza sorprendente. Sogghignando, il francese si proclamò l’amante del bello e del piacere. E soprattutto, si riteneva fortunato rispetto ai due: lui non aveva di mezzo due genitori pronti a frenare le sue voglie. I due erano troppo impegnati nelle serate nei teatri, nei boulevard, nelle serate di gala, per preoccuparsi della crescita del proprio figlio. Questa assenza di affetto pareva non toccarlo minimamente: tirato su da qualche balia, era cresciuto nella totale libertà, senza costrizioni, senza regole, assolto da obblighi.

Con quei due singolari individui, passò molto tempo nelle birrerie di Berlino, e sentì dopo tanto tempo, per quanto possibile, di essere un ragazzo normale tra i due suoi migliori amici.

 

Il suo primo incontro con gli zombi non fu così traumatico come sarebbe stato per gli altri. Furono assaliti in un vicolo, dopo una piccola zuffa con dei balordi che lo avevano attaccato insieme ad Antonio e Francis. I tre non fecero neanche troppe storia quando Kiku, dopo aver sterminato i morti viventi, li invitò all’Aletheia.

Perché no? A chi importava se tutte quelle storie erano vere o no? Era un modo di andarsene da quella fottuta città, e da quei bigotti dei loro genitori. Per i tre, l’unica cosa importante, era non essere divisi. Mai più.

 

Si stupì, dopo un anno dal suo ingresso nell’organizzazione, di ritrovarsi di nuovo davanti a Ludwig. Dal suo ingresso nell’Aletheia, era riuscito a dimenticare la sua vita precedente. Quell’apparizione gli fece ricordare gli sguardi dei genitori, e ripensò al fatto che quei due non avevano fatto nulla dopo la sua scomparsa. Nessuna preoccupazione, nessun allarmismo. Per questo, non accolse il fratello con il dovuto entusiasmo.

Lo sfogo, gli insulti, la sua rabbia, si bloccarono, quando Ludwig lo pregò di ascoltarlo. E, per la prima volta in vita sua, si sentì in colpa. Negli anni trascorsi fra quelle quattro mura viennesi, così odiate, era talmente immerso nel suo auto compatimento, nel suo volontario esilio, nella convinzione di essere nel giusto, di essere lui quello che stava subendo un’ingiustizia, che non si era accorto di niente.

Il suo fratellino stava soffocando, letteralmente. Dopo tanti anni in cui aveva dovuto sostenere quel ruolo che altri gli avevano imposto, stava per crollare. In tutti quegli anni aveva cercato sostegno nell’unica persona che avrebbe potuto capirlo, suo fratello maggiore. Quando, però, tentava qualsiasi approccio, si  trovava di fronte a un muro, costruito da odio e tristezza. Certe volte, respirare diventava persino impossibile. I suoi genitori erano talmente presi nella congettura del suo futuro, che comprendeva un posto sicuro nella burocrazia, accanto al padre, erano talmente sicuri di conoscere il loro figlio, da non riuscire a vedere quel bambino, quel bambino vero seduto davanti a loro che abbassava gli occhi ogni qualvolta sentiva simili discorsi. Il padre era talmente intento a lodare la sua parlata sciolta, la sua estroversione, il suo carattere comunicativo, qualità necessarie per diventare un perfetto ambasciatore, da non accorgersi di quello stesso bambino, senza un amico, sempre chiuso in casa, immerso tra libri di meccanica, chiavi inglesi, fili elettrici.

E Gilbert conobbe anche il perdono. Capì che, in fondo, quel ragazzone biondo, il suo fratellino, non era così diverso da lui. Sorrise, un peso che si volatilizzava, si disintegrava. E capì che la propria vita non poteva essere più bella di così.

 

Arthur sbuffò stizzito, palesando il proprio sdegno. Le braccia incrociate, la testa voltata di lato, le sopracciglia aggrottate, la posa vagamente altezzosa.

Si maledisse per essersi fatto convincere così facilmente. Perché aveva chiesto a quello stupido francese per quale assurdo motivo avrebbe dovuto imparare a impugnare una stupida spada? Fatto che aggravava poi il tutto era che sempre quello stupido francese sopracitato aveva promesso di essere il suo personale maître d'armes. Avendo soppesato con cura quei due particolari, aveva decretato la discussione chiusa.

Si ricredette, però, sentendo ciò che l’altro ribadì.

-Mio piccolo raggio di sole, sarebbe davvero un peccato se uno sporco Jardin mi privasse della tua preziosissima presenza...-

Tralasciò lo sguardo volutamente malizioso che gli lanciò, e riflettè sul fatto che, in effetti, un po’ di auto difesa non gli avrebbe fatto male. Se poi avrebbe usato le nozioni acquisite contro uno zombi maleodorante o contro il proprio mentore, si disse, la differenza era irrivelante.

Per questo si trovava dentro una delle innumerevoli stanze da allenamento dell’organizzazzione, spalmato contro una delle pareti di cemento grigio.

Si rifiutava di incontrare gli occhi di quel depravato, che adesso lo guardavano lascivi, anche se un poco spanzientiti.

- Arthùr, non pensi sarebbe opportuno avvicinarti un  po’... ?-

L’inglese lo fulminò con lo sguardo.

Non voleva ammettere che, oltre a trovare la sua presenza fortemente fastidiosa, sentiva che la propria posizione fosse quanto più appropriata in quella situazione. Non aveva paura delle avanches dell’uomo, no di certo, ma credeva che tenere la schiena incollata alla parete fosse un ottimo modo per prevenire tale eventualità.

Se ne convinse ancor di più, osservando guardingo il modo con cui il francese vezzeggiava le due spade che stringeva delicatamente tra le mani, la posizione vagamente provocante, una gamba piegata dolcemente, il peso del corpo poggiato sull’altra anca.

Francis sospirò, scuotendo teatralmente la lunga chioma.

-Per quanto possa godere della tua sola presenza, vorrei almeno che ti staccassi da quel muro-

Se lo sguardo avesse potuto incenerire, del francese non sarebbe rimasto altro che cenere sparsa al vento.

-O forse hai paura di non farcela, mon colombelle... ?-

Francis sorrise nel sentire un basso ringhio.

Poteva vantarsi di essere un ottimo osservatore del comportamento umano. Aveva colto nell’inglese una sorta di contraddizione: il ragazzo cercava di calzare contemporaneamente la veste da lord e da ribelle, con la conseguente contrapposizione di atteggiamenti, idee, reazioni. Nonostante disprezzasse i bassi istinti che animavano coloro che lo circondavano, anche lui rimaneva invischiato in questi stessi sentimenti.

Vide l’inglese marciare verso di lui, furibondo, e strappargli dalla mano l’elsa di una delle due spade.

-Direi che possiamo cominciare…-, esordì il francese, accarezzando allusivo la lama luccicante.

Provava un senso di perfido compiacimento nell’osservare gli scoppi d’ira del ragazzo.

Gli girò le spalle, allontanandosi lentamente, ancheggiando un po’, ponendo con eleganza un passo dopo l’altro.

-Vedremo subito se hai la stoffa dello spadaccino…-, continuò, con quello strano accento morbido, le parole vellutate, le vocali volutamente allungate.

Arthur digrignò i denti. Non lo sopportava. Quei movimenti felini, la voce bassa e morbida, quegli sguardi maliziosi.

-…per brandire bene una spada sono necessarie grazia…-

Strinse spasmodicamente l’elsa della spada tra le mani. Come si permetteva? Qualcuno come lui si permetteva di insegnare a lui?

-…agilità…-

Si credeva forse superiore a lui? La spada tremò tra i pugni chiusi. Lo odiava, profondamente, tanto. Pensava di poterlo trattare così? Un qualcosa, più un impulso che un vero e proprio pensiero, gli attraversò la mente. Uno strano sorriso gli si formò sulle labbra. Le iridi si accesero di nuovo di quella luce elettrica.

-…astuzia…-

Arthur non si era neppure accorto di aver iniziato a camminare lentamente verso di lui. Un obbiettivo, ancora non completamente emerso dalla nebbia della rabbia, gli si era infilato dentro, gli si era conficcato nella mente.

Improvvisamente, prese la coscienza di stare correndo, la spada stretta tra le mani. Francis era sempre più vicino. Le braccia, comandate da una forza propria, alzarono la spada, un fendente pronto a calare sul corpo inerme del francese.

Avvenne tutto in un attimo. La lama, che avrebbe dovuto abbattersi sulle carni dell’uomo, si conficcò sul freddo pavimento. Arthur sgranò gli occhi, trovandosi a atterrare, invece che sul suo cadavere, sul vuoto, sul semplice cemento della stanza.

D’un tratto, sentì qualcosa colpirgli da dietro la giuntura delle ginocchia. Le gambe, per riflesso, si piegarono, e l’inglese si trovò disteso sul suolo. Non fece in tempo a realizzare cosa diavolo fosse successo, che percepì un peso adagiato sulle sue gambe e un’altra lama che si conficcò sul terreno, davanti al suo viso. Boccheggiò, vedendo la fredda lucentezza del metallo a pochi millimetri dai suoi occhi. Sentì un caldo liquido solcargli la guancia.

Incredulo, si voltò. E si ritrovò il viso del francese vicinissimo, il solito sorriso sornione che coronava il viso incorniciato da lunghi riccioli scomposti. Arthur non capiva. Incapace di proferire parole, vide galleggiare intorno al corpo di Francis piccole luminescenze lattiginose. Spalancò gli occhi. Il francese si era avvicinato ancora di più, prendendogli il mento in una mano. Sentì la sua lingua leccargli la ferita sulla guancia. Tremò, quando lo vide ritrarsi con voluta lentezza, e con la stessa calma leccarsi le labbra soddisfatto.

-Ma la cosa più importante…-, sussurrò, -è stare alle regole del gioco, mon chere…-

 

 

Note d’Autrice

 

Si, lo so, sono in ritardo ABNORME.

Purtroppo, questo è un periodo un po’ così così (leggere: schifoso). Per questo, anche per i prossimi capitoli, le date di pubblicazione saranno un po’ sballate, ma farò il possibile per aggiornare.

Allora, torniamo a noi! Oh, baby Gilbo! <3 Si, l’avrete capito, l’adoro, l’adoro da matti! E sono comparsi altri due personaggi! Semplici comparse? Chissà…

Beh, il momento FrUk CI STAVA, già già.

Boh, non saprei che altro dire, se non che vi ADORO.

Grazie mille per tutti coloro che mi recensiscono e mi leggono, ma soprattutto sopportano i miei ritardi!

Alla prossima! :D

   
 
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