XXXVI Capitolo
Remember those walls I built
Well, baby they’re tumbling down
And they didn’t even make up a sound
… I got my angel now
Every rule I had you breakin’
Everywhere I’m looking now
I’m surrounded by your embrace
Baby I can see your halo
You know you’re my saving grace
You’re everything I need and more
It’s written all over your face
Baby I can feel your halo
Pray it won’t fade away
I can feel your halo
Secondi….
Minuti…
Ore…
Giorni…
Settimane…
Un Mese…
Due mesi…
Tre mesi…
Quattro mesi…
Cinque mesi…
Affrontavo ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni maledettissima
settimana in un inferno … nella continua e folle speranza di poterla riavere
ancora nella mia vita. Nonostante i tentativi che avevo fatto per riavvicinarmi
a lei, tutto era stato inutile. Ogni volta che chiamavo il cellulare risultava spento,
mentre a casa parlavo alternativamente con John o con Lisa senza riuscire mai a
sentire la sua voce. Avevo provato non so quante volte ad andare a trovarla a
casa ma si era fatta negare.
La mia disperazione e la mia colpa salivano raggiungendo picchi
impensabili … e giorno dopo giorno annegavo in un mare di dolore. Un dolore di
cui ero il solo artefice e che avevo inflitto non solo a me stesso ma anche a
lei.
Avevo spiegato brevemente l’intera faccenda prima a John e
poi a Lisa ma non era cambiato nulla. John era arrabbiatissimo, a ragione, mentre
un po’ di compassione mi veniva offerta da Lisa che, seppur distrutta
dall’infelicità della figlia, usava sempre parole gentili.
Non c’era da stupirsi che reagissero così, visto che il
carico da cento lo avevano lanciato stampa e media pubblicando su ogni
dannatissimo blog, tabloid o programma televisivo l’intera faccenda. Sul mio
sito decine, anzi centinaia di fan avevano lasciato messaggi negativi di tutti
i tipi. La maggior parte delusi dal mio comportamento.
Ero disgustato da me stesso.
Ma cosa cazzo mi era saltato in mente?
Dio, che bastardo!
E
dopo tutto quello che avevo combinato mi aspettavo pure che lei tornasse da me
e mi perdonasse? No, lo
sapevo bene.
Ma era quello che sognavo e che desideravo in ogni singolo
momento della giornata!
Mi passai una mano sul viso stanco. Sentivo la barba
pizzicarmi e solleticarmi le dita. Non mi radevo da non so quanti giorni. Mi
ero preso una pausa dal lavoro.
Anche perché lavorare in queste
condizioni non è proprio possibile!
Erano passati quasi sei mesi da quel maledetto giorno. Dal
giorno in cui lei mi aveva cacciato da casa sua, da quando mi aveva allontanato
da tutto ciò che la riguardava.
Il dolore quasi m’impediva di respirare, straziava il mio
cuore e annullava tutto il resto. Non riuscivo a fare altro se non sopravvivere
giorno dopo giorno. Vivevo in un limbo senza fine.
Il trillo acuto ed improvviso del cellulare mi riportò alla
realtà. Mi fiondai sul comodino con un’unica speranza nel cuore. Speravo fosse
lei perché avevo un assoluto bisogno di sentire la sua voce.
Mi
illudevo.
Era Susy che, ogni giorno, chiamava per sapere come stavo.
“Susy” la voce solo un flebile sussurro
“Gerard”
Iniziavamo sempre così, solo i nostri nomi e poi qualche
minuto in silenzio.
Questa volta, però, la voce di Susy era diversa. Strana,
quasi esitante.
“L’ho sentita … sono riuscita a parlare con lei”.
Socchiusi gli occhi per concentrarmi meglio, mi misi a sedere
di scatto sul letto. Ora aveva tutta la mia attenzione.
“Davvero? Come sta? Cosa ti ha detto?”
“Non sta bene, Gerard. E’ giù di brutto. Dorme e mangia poco.
Sua madre mi ha detto che hanno dovuto portarla in ospedale per la seconda
volta in sei giorni”
Pov Susy
Mi
ero affezionata molto a Sophie, eravamo diventate amiche. E questa situazione
tra lei e il mio migliore amico mi logorava.
Erano
così uniti e felici quando erano assieme. Innamoratissimi. Entrambi.
Ma
poi lui aveva fatto la stronzata!
Da
parte mia, l’avevo offeso in tutti i modi possibili, fregandomene del fatto che
fosse il mio capo. Era stato un insensibile bastardo! Solo dopo essermi sfogata
avevo capito che si era già distrutto da solo. Era scoppiato a piangere e mi aveva
abbracciata stretta.
Chissà
che cosa gli era passato per la mente … quella sera.
“C-cosa?
In ospedale? Che cazzo dici, Susy? Quando? In quale? Perchè?”
La
notizia mi aveva sconvolto.
In ospedale? Perché in ospedale? E quanto era
grave? Oh mio Dio!
“Si,
è in ospedale. L’hanno ricoverata perché rischia il collasso. Non si alimenta
abbastanza e le funzioni vitali ne risentono. E’ dimagrita e sua madre è
sicurissima sia depressa. Non esce più da casa, non parla quasi più. Non si lava
autonomamente e non si alza dal letto se non
quando obbligata a farlo e comunque sempre sostenuta da qualcuno. Non provvede
a se stessa … si è lasciata andare, Gerard! Lisa mi ha detto che qualche volta,
di notte, farfuglia il tuo nome”
“Oh
mio Dio, oh mio Dio … è tutta colpa mia!” copiose lacrime scendevano senza
sosta dai miei occhi stanchi
La
paura e lo sgomento mi attanagliavano lo stomaco.
Non ci posso credere … non è possibile …
Avevo
preso una stanza in un albergo, non lontano da casa sua. Volevo restare in
Italia, vicino a Sophie, nel caso in cui lei avesse cambiato idea. E per di più
non volevo tornare a casa. Naturalmente Susy si era occupata di tutto. L’hotel era
di piccole dimensioni, il personale gentile e il posto silenzioso. Per ora la
stampa non aveva idea di dove mi fossi rifugiato.
Devo vederla!
“In
che ospedale è? Come ci arrivo?” ero in fibrillazione. Avrei fatto una doccia
veloce, indossato qualcosa e sarei andato da lei.
“Gerard,
non credo sia il caso…”
“Susy,
in che ospedale è?“ la mia voce si alzò e il tono divenne più teso
“Davvero,
non penso…”
“Cazzo,
Susy! Devi ascoltarmi. Devo andare da lei. Lei … è la mia Sophie! E niente di
tutto quello che dirai mi farà cambiare idea. Aiutami, per favore … io devo
vederla!”
Ma perché nessuno riesce a capire? Io devo andare.
Si tratta di lei... Non posso rimanere!
“Allora
verrò con te!”
“Niente
da fare, Susy”
“Io
so dov’è. Non ci arriverai mai senza di me!” era decisa ad accompagnarmi
Imprecai
mentalmente ma poi mi rassegnai
“E
va bene. Ma sbrigati. Dove ci vediamo?”
“Passo
a prenderti io. Fatti trovare nella hall tra venti minuti” e riattaccò.
Venti
minuti. Il tempo per una doccia e per cambiarmi. Sarei stato puntuale.
Susy,
mi attendeva nella hall. Indossava t-short, jeans e scarpe sportive. Ero
vestito alla stessa maniera anche se, in più, avevo un cappellino con visiera. Uscimmo
di gran carriera dall’albergo e ci infilammo subito in auto. Sfrecciava tra
quelle strette stradine come una pazza, ma questo non era proprio il momento di
farglielo notare.
“Hai
un aspetto orribile!” con questa frase voleva solo rompere il ghiaccio
La
guardai pensosamente prima di rispondere “Grazie tante!”
Ero dimagrito e lo sapevo. Sempre
triste e stanco; dormivo poco e male.
Avevo
capito le sue intenzioni, era in pensiero per me. Ma lo era ancora di più per
Soph. Mi sentivo perso, devastato. Mi
sentivo così colpevole!
E’ colpa mia. Solo colpa mia!
La
macchina inchiodò all’improvviso e per poco non rimasi incastrato con la testa
nel cruscotto.
“Merda,
Susy! Stai più attenta. Dove hai imparato a guidare?”
“Siamo
arrivati” fece tesa
Il
mio sguardo si affilò e mi concentrai sull’edificio che ci stava di fronte. Ero
nervoso ma anche determinato. Nessuno mi avrebbe tenuto lontano. Volevo vederla
e per Dio ci sarei riuscito!
La
struttura era piccola, l’odore di disinfettante forte soffocava tutti gli altri
odori, impregnandone l’aria.
Susy
si avvicinò al bancone per chiedere informazioni. Al centralino sedeva una
vecchina dal viso gentile. Controllò sul computer “Camera 53” annunciò con voce
gracchiante.
Seguendo
i numeri delle stanze, guardavamo a destra e a sinistra sulle targhette di ogni
singola stanza. Finché la voce della mia assistente non mi bloccò
“Eccola”
sussurrò